Nel gennaio 2024, il Senato ha approvato il disegno di legge sull’attuazione dell’autonomia differenziata delle Regioni a statuto ordinario. Ben 20 materie oggi di competenza dello Stato centrale e Regioni potranno passare integralmente a carico degli enti regionali: dai rapporti internazionali alla protezione civile, dall’energia alla tutela della salute, dalla ricerca scientifica all’ambiente e via elencando, senza dimenticare le casse di risparmio, gli aeroporti, la previdenza o l’ambiente.
I sostenitori dell’autonomia differenziata affermano che la maggiore responsabilizzazione delle Regioni possa spingere tutti verso un supplemento di efficienza, mentre i contrari temono che la devoluzione partendo senza che i livelli dei servizi siano stati sanati, finirà per accentuare le già evidenti disparità sociali e territoriali del Paese.
Ora, questo processo appare per diverse ragioni inquietante e le due parole che lo definiscono, “Autonomia” e “Differenziata”, appaiono in profondo contrasto etico e stilistico. Ce ne parla Carmelina Sicari che a questi due termini ne contrappone altri due: “Uguaglianza” e “Unità”.
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C’è una parola inquietante nella sua carica di ambiguità che però trascorre insistente nelle cronache parlamentari e giornalistiche odierne: differenziata. Anzi, stilisticamente accostata a un termine luminoso come autonomia costituisce un singolare ossimoro, tanto chiaro e luminoso quest’ultimo termine, tanto oscuro il primo.
Differenziata nega due concetti fondamentali, l’uguaglianza e l’unità.
Lasciamo stare il concetto di “égalité”, perchè l‘égalité è la meta finale di qualsiasi programma politico e non se ne può prescindere, è il traguardo di ogni utopia.
Natalia Ginzburg in Lessico familiare racconta che quando le hanno parlato di una certa dottrina politica che sosteneva l’uguaglianza, lei ha riconosciuto tale principio come ovvio e naturale.
Ma qui voglio spendermi nella difesa dell’altro principio, l’unità, altrettanto ovvio ed umano come il primo. La mia perorazione, per continuare sull’elemento stilistico, ha due punte, una personale e per così dire elegiaca, e l’altra storica ed epica.
Cominciamo da quest’ultima:
La prova a sostegno dell’unità è contenuta, come la perla in uno scrigno sicuro, nell’Aspromonte, il poemetto epico che è una tappa quattrocentesca della Canzone di gesta Aspromonte (di cui ho già parlato su Altritaliani QUI).
Nei rimaneggiamenti con giunte e varianti della Canzone, il poemetto del ‘400 in ottave, antenato del Furioso ariostesco, costituisce il momento più alto dell’ideologia politica dei Normanni continuata nelle corti rinascimentali. I Normanni infatti avevano con chiarezza formulato il programma di unità politica partendo dal Sud, ripreso dalle corti e poi definitivamente nel Risorgimento. Solo la morte di Lorenzo il Magnifico interrompe il processo nel Rinascimento.
Il Sud anziché differenziato era il promotore di un progetto di unità. Con la pace di Lodi del 1454 il progetto sembrava in procinto di decollare.
Ma la vera prova della promozione dell’unità sta nelle edizioni del poemetto che dal triangolo normanno, Risa-Reggio, Bagnara, Vibo, Mileto in Calabria trasmigra ad Urbino con i Gonzaga, a Firenze, a Milano, a Venezia, a Ferrara con gli Este dove appunto viene ripreso dall’Ariosto che fa del suo Furioso la continuazione, secondo la tradizione, della Chanson dell’Aspromonte.
La prova ancora più forte è costituita dalla lingua che Verdizzotto dell’Accademia senese costruisce come pastiche di termini gergali ed alti tratti dalla tradizione epica per offrire una koinè straordinaria: una lingua comune che si sovrappone ai dialetti locali e dunque una koinè culturale, vale a dire una civiltà comune accettata da popolazioni diverse.
E veniamo al secondo punto, la mia personale esperienza dell’unità:
Mia madre che non ha mai conosciuto suo padre, morto ventenne sul Carso per difendere la patria, mi ha insegnato che l’unità vale la vita e mi ha spinto a cercare la tomba di mio nonno, al Redipuglia, il sacrario della prima guerra mondiale che rappresentava l’unità della patria. Per anni, nel Veneto, io ne ho cercato traccia non solo nel sacrario ma anche nei piccoli cimiteri dei paesini circostanti. Invano. Finchè un giorno un signore trentino stupito di tale ricerca me ne chiese ragione. Io indicando le montagne dissi: – Mio nonno è morto lassù. Ne fu sconvolto e prese a cercare con me. Altri tempi certo.
E concludo.
Il processo di unità d’Italia inizia dunque lontano nel tempo, già nel XV secolo. Per fare dell’Italia una nazione unita che rispondesse a un principio sano di uguaglianza sono stati necessari secoli, quel principio che oggi la “differenziata” vorrebbe disperdere, molte vite si sono sacrificate per mantenere unito quel che oggi si vuol dividere, non ultimo mio nonno, di cui le tracce si sono perse e che non dovremmo stancarci mai di cercare e tentar di ritrovare uniti, insieme.
Carmelina Sicari
da Reggio di Calabria