L’Appunto mensile di Alberto Toscano – settembre 2021

Tornati dalle seconde vacanze estive in salsa Covid, in questo settembre 2021 vediamo bollire, davanti a noi, le pietanze politiche dei tre principali Paesi europei. Un menù a cui non possiamo sfuggire. Tanto vale prepararci alla sua digestione.

In Germania si vota il 26 settembre, ma tutto fa credere che poi ci sarà un lungo periodo di negoziati tra i partiti, nessuno dei quali avrà presumibilmente la maggioranza assoluta al Bundestag. Nella nebbia del dopo-Merkel, non sarà facile cercare la strada della prossima legislatura. In Italia e in Francia i partiti di fine Novecento sono andati in crisi. Nel 2017 la lingua di Molière si è inventata persino un neologismo degno di quel grande autore (la parola dégagisme) per descrivere il desiderio popolare di sbarazzarsi della “vieille politique”. Quanto all’Italia, il “vaffa day” di Beppe Grillo è diventato una consacrazione nazionale negli anni del “dégagisme all’amatriciana”. Meno elegante, ma altrettanto saporito. In Germania le cose sono andate diversamente. Democristiani e socialdemocratici hanno perso molte piume, ma hanno mantenuto le redini del potere. Accanto a loro, sono spuntate formazioni più rosse, più nere o più verdi.
Un tempo la tentazione di un “Bunsdestag arcobaleno” era frenata dallo sbarramento al 5 per cento come condizione perché un partito entrasse in Parlamento. Oggi sei partiti sono in grado di superare quella soglia, ma uno di loro (l’estrema destra dell’AFD) è escluso a priori da ogni coalizione. Anche per la sinistra radicale non sarebbe facile trovare spazio nei giochi di governo. Alla fine, malgrado la virulenza e le ruggini delle campagne elettorali, democristiani e socialdemocratici possono avere – una volta di più – interesse a cercare un accordo tra loro, magari estendendo il dialogo a Verdi e liberali. Anzi, la presenza delle estreme sui banchi del Parlamento favorisce oggettivamente la ricerca di un compromesso tra centrodestra e centrosinistra. Vedremo come andrà a finire stavolta.

In Italia, il governo di quasi unità nazionale rischia ogni settimana una quasi crisi, mentre i partiti affidano alle amministrative del mese prossimo (con l’elezione dei sindaci di molte città, comprese le più importanti) il collaudo delle loro future quasi alleanze d’ogni colore (Lega-Fratelli d’Italia-Forza Italia da un lato; PD-M5S-Liberi e Uguali dall’altro). Gli occhi di tutti sono puntati su Roma, dove è praticamente certo che nessun candidato otterrà la carica di sindaco al primo turno (3-4 ottobre) e dove avranno un particolare significato le possibili intese in vista del ballottaggio. La volta scorsa, Roma è stata il simbolo dell’avanzata dei “Cinque Stelle” di Beppe Grillo. Adesso è il simbolo della loro alternativa tra isolamento e alleanza col centrosinistra.
Tra circa cinque mesi comincerà nella Penisola il mandato presidenziale del successore di Sergio Mattarella (che potrebbe essere lo stesso Sergio Mattarella o più probabilmente Mario Draghi, senza escludere altri personaggi al maschile o al femminile). Poi tutto diventerà possibile, comprese le elezioni anticipate nel giugno 2022. Molto dipenderà dal “convitato di pietra” della politica mondiale: Mister Covid. Più la situazione sanitaria sarà complicata e più quella politica sembrerà semplice, visto che il popolo elettore non gradirebbe lo scioglimento delle Camere in tempo di pestilenza. Al contrario, più la crisi sanitaria si allontanerà e più le urne rischieranno di avvicinarsi. Il successo del governo contro la pandemia può insomma diventare l’anticamera della sua fine. Misteri della politica. O, se si preferisce, paradossi all’italiana.

Corsa all’Eliseo – Foto Ludovic MARIN / AFP)

E poi c’è la Francia, che comincia a immergersi nell’atmosfera pre-elettorale. Resta da capire a quali elezioni si stia preparando. A prima vista si tratta certamente delle presidenziali del prossimo aprile, ma la realtà è più complessa. Nella corsa all’Eliseo ci sono oggi due candidati molto forti e scontati, sostenuti dalle rispettive aree politiche: Emmanuel Macron e Marine Le Pen. Poi c’è una quantità di candidati e aspiranti candidati, alcuni dei quali (penso ad esempio a Jean-Luc Mélenchon e ad Arnaud Montebourg nel caso della sinistra) intendono assolutamente partecipare a una corsa che sanno di non poter vincere. Come dire che “l’importante è partecipare”. Spirito olimpico nell’atmosfera di Parigi 2024? Difficile immaginarlo. Per molti candidati (veri o presunti), questo è il momento di dimostrare di esistere, di contare qualcosa, di avere il proprio orticello. E poco importa se i veri beneficiari di questo loro comportamento saranno, alla fine, proprio quelle stesse persone che vengono indicate come i peggiori nemici. È evidente, ad esempio, che la moltiplicazione delle candidature a sinistra aiuta Macron ad arrivare agevolmente al secondo turno. Se, come probabile, l’atmosfera resterà rissosa sia nella sinistra sia nella destra neogollista, Macron e la Le Pen avranno un boulevard verso il remake dello scenario del 2017.
Ma sarebbe sbagliato fermarsi qui. Come nel gioco delle “matrioske”, un’elezione ne contiene un’altra. Ho la sensazione che alcuni parlino delle presidenziali d’aprile pensando in realtà alle legislative di giugno, quando verranno rinnovati i 577 membri dell’Assemblea nazionale. Singoli personaggi politici, singole correnti, singoli partiti (e micro-partiti) non pensano solo all’Eliseo, ma anche a una miriade di alleanze locali, con gli accordi di désistement per il secondo turno delle legislative. Partecipare da comparse allo spettacolo nazionale d’aprile può aiutare a salire sul palcoscenico in giugno, sperando d’essere protagonisti almeno in qualche dipartimento. Sullo sfondo c’è la contraddizione strutturale del potere macronista, forte a livello centrale e debole (talvolta debolissimo) a livello locale.
Nel 2017, la vittoria presidenziale di Macron ha creato una dinamica a lui propizia, a base di astensioni e conversioni in occasione delle successive elezioni per il rinnovo dell’Assemblea nazionale. Ma nel 2022 le cose potrebbero andare in modo assai diverso. I suoi avversari potrebbero non astenersi e i convertiti potrebbero scarseggiare (chi era disposto a convertirsi lo ha già fatto da tempo). Prendendo a prestito le immagini di quel bellissimo sport che è il rugby, si può dire che nel 2017 Macron è “andato a meta” e che gli è stato poi facile aggiungere altri punti al suo bottino grazie al conseguente calcio di trasformazione. Stavolta – se vincerà in aprile – quel risultato sarà molto più difficile. L’ipotesi di una sorta di coabitazione – che sembrava quasi assurda all’indomani delle presidenziali del 2017 – potrebbe prender corpo la sera del secondo turno delle legislative del giugno 2022. Sarebbe diversa dalle tre precedenti coabitazioni francesi: quella, estremamente tesa, Mitterrand-Chirac del periodo 1986-88 e quelle, relativamente cordiali, Mitterrand-Balladur del 1993-95 e Chirac-Jospin del 1997-2002. In quei casi l’opposizione al presidente della Repubblica aveva la maggioranza all’Assemblea nazionale. Stavolta potrebbe rivelarsi difficile trovare una maggioranza definita a priori. La situazione per Macron potrebbe insomma complicarsi nonostante la possibile (probabile) conferma all’Eliseo. Ma qui mi fermo perché altrimenti ho l’impressione di giocare alla Sibilla cumana.

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Cosa c’è di più angosciante di  una serata in cui gli amici ti infliggono foto e filmini delle loro vacanze ? La vacanza è un mito e uno status symbol. Ancor oggi la Francia celebra le elezioni del 1936, con la vittoria del Fronte popolare, inneggiando con enfasi alla storica conquista sociale che ne scaturì : les congés payés. Il Parlamento del Front populaire si è dimenticato di dare il diritto di voto alle donne, ma per certe ricostruzioni attuali l’importante è che abbia “inventato le vacanze”.
Paolo Conte ha messo in musica e in rime la pulsione che spinge talune coppie di bipedi a sfoggiare davanti agli amici lo scalpo dei propri viaggi. Ecco le parole del geniale avvocato astigiano: “ Vieni, facciamo ancora unaltra foto / col colombo in man / così, sorridi bene, senza smorfie / lo sguardo fisso su di me / mentre conto fino a tre / sarai contento quando poi / tua cugina lo vedrà / che a Venezia siamo stati anche noi !” (https://www.youtube.com/watch?v=XARRpfa5JCY).

Io quest’anno non sono stato a Venezia e non mi sono fatto scattare “foto col colombo in man” (anche perché, a proposito delle mie finestre parigine, ho da tempo una controversia con quegli invadenti pennuti, che applicano a modo loro le prescrizioni dell’imperatore Vespasiano). A mia cugina ho inviato foto della zona a cavallo tra Trieste e la Slovenia, dove in luglio ho attraversato varie volte la frontiera senza mai vedere l’ombra di un poliziotto, di un doganiere o di un qualsivoglia essere umano in divisa. Ben diversa è invece la mia esperienza alla frontiera franco-italiana. Nessun controllo da parte italiana, ma sistematici (e non sempre simpatici) controlli da parte dei poliziotti e talvolta dei doganieri francesi. Compresa la fatidica domanda d’altri tempi: “Lei cosa va a fare a Parigi?”. Certo i controlli sono sempre possibili e talvolta indiscutibilmente necessari. Ma trasformare di nuovo le frontiere in barriere non mi pare una bella cosa. Lo spirito di Schengen non sta vivendo un momento facile a Modane, a Ventimiglia e negli aeroporti francesi all’arrivo di qualche volo proveniente dall’Italia. Ovviamente queste sono solo sensazioni personali e non i risultati di uno studio dalle pretese scientifiche. Ma anche le sensazioni contano. Se mi sbagliassi, sarei il primo a esserne contento.
Naturalmente il quadro italo-francese attuale è influenzato dal bisogno di rendere più efficace la lotta contro il terrorismo, che da decenni insanguina l’Europa intera. Proprio in questo settembre è cominciato a Parigi il processo per gli attentati del novembre 2015 e nelle stesse ore abbiamo tutti rivissuto la tragedia americana delle “Torri gemelle”, ricordandoci esattamente quello che abbiamo fatto nel pomeriggio e durante la serata dell’11 settembre 2001. I terroristi del Bataclan avevano un rapporto col Belgio, paese con cui si viaggia oggi dalla Francia senza alcun particolare controllo di polizia o di dogana. Le “attenzioni” francesi si manifestano alle frontiere con l’Italia e con la Spagna, da cui si teme arrivi l’immigrazione. Mi pare – correggetemi se sbaglio – che in questo caso non si tratti solo di fare un muro contro il terrorismo, ma anche (soprattutto?) di fare un muro contro l’immigrazione di chi è partito dall’Asia e dall’Africa.

Malgrado ciò, la relazione franco-italiana è oggi cordiale e costruttiva. Da decenni il quadro non era tanto sereno. Tutto è cambiato in pochissimo tempo e noi fritaliens (esseri umani a cavallo tra i due Paesi) non possiamo che rallegrarcene. Solo un paio d’anni fa, la Francia richiamava “per consultazioni” il proprio ambasciatore e Roma dopo le gaffes di alcuni altolocati politici italiani, uno dei quali è oggi ministro degli Esteri. Adesso la coppia Draghi-Macron sembra inossidabile. Tutto va bene, col dettaglio che certi problemi non sono stati risolti.
In tema d’immigrazione, un fantasma s’aggira per l’Europa: il gioco dello “scaricabarile”, consistente nel lasciare agli altri la soluzione dei problemi comuni. Oggi lo scaricabarilismo è diventato una sorta di ideologia di molti Paesi del Vecchio continente e anche dell’Europa nel suo insieme. Si paga Erdogan perché la Turchia non lasci partire i migranti che arrivano sul proprio territorio e anche tra europei si spera che un problema tanto complesso si manifesti soprattutto a casa del vicino. Questa non è la strada giusta, ma purtroppo questo non è neanche il momento più facile per scegliere una strada comune. La questione migratoria incendia le campagne elettorali e in giro per l’Europa c’è, come si è appena visto, aria d’elezioni a raffica. Comunque il problema c’è e non può essere ignorato in attesa di tempi migliori. L’ideologia dello scaricabarilismo non scioglie alcun nodo e rischia di ingarbugliarli tutti.

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© Foto : CC-BY-NC-SA 3.0 IT / Governo italiano

All’inizio di questo settembre, Mario Draghi è stato a Marsiglia per cenare col presidente Macron e “parlare del futuro”, come è stato detto con una buona dose di enfasi. Parlando “del futuro”, Draghi e Macron devono aver parlato anche del passato e del presente di un Paese che dai tempi di Alessandro Magno è legato alla politica estera europea: l’Afghanistan. Dopo l’11 settembre di vent’anni fa, gli americani lo hanno invaso e la Nato (Organizzazione del Trattato dell’Atlantico del Nord) li ha sostenuti anima e corpo malgrado la scarsa familiarità di Kabul con l’Atlantico settentrionale (e pure meridionale). Molti soldati di altri Paesi (tra cui 53 italiani) hanno perso la vita in quella guerra, decisa senza pensare abbastanza alle sue conseguenze. Battersi per la democrazia e per i diritti umani è una gran bella cosa, ma bisogna essere pronti e capaci di farlo fino in fondo. Altrimenti si rende un pessimo servizio alla causa che si dice di voler sostenere. Negli ultimi vent’anni, abbiamo combattuto tante (troppe) guerre per poi pagare noi stessi il prezzo dell’instabilità che abbiamo contribuito a generare.
Ricordo come se fosse oggi i discorsi del presidente Nicolas Sarkozy che (purtroppo) riuscì a tirarsi dietro gli alleati europei e americani nella disastrosa avventura libica del 2011. Adesso cerchiamo faticosamente di rimettere insieme i cocci di Tripoli, mentre la destabilizzazione della Libia ha favorito quella dell’Africa nordoccidentale (dove in Mali e dintorni stiamo combattendo un’altra guerra), ha creato nuovi varchi all’influenza russa e turca nell’area mediterranea, ha moltiplicato le migrazioni dall’Africa all’Europa, ha aumentato i problemi umanitari e ha complicato quelli politici ed economici.
Adesso l’umiliante ritiro americano e il trionfante coro dei talebani vincitori avranno molte conseguenze, a cominciare dalla perdita di credibilità internazionale degli Stati Uniti e dell’alleanza occidentale. Questa guerra è stata cominciata sulla base di comprensibili emozioni, ma il problema è che scelte del genere rischiano di rivelarsi drammatiche se vengono prese a partire più dalle emozioni che dall’analisi della realtà.

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L’Afghanistan non è un Paese come gli altri, ma un immenso miscuglio di popoli e tradizioni in cui è più facile organizzare una guerriglia che far rispettare qualsiasi potere centrale. È dagli anni Settanta che i tentativi di compattare e modernizzare l’Afghanistan falliscono tragicamente. Mohammed Daoud Khan rovesciò la monarchia col colpo di Stato del 1973 e si illuse di riunire il Paese, ormai trasformato in Repubblica, dando voce a tutte le sue componenti. Fu un tentativo generoso e per certi aspetti pittoresco. Ecco come un’alta personalità italiana a Kabul, firmando con uno pseudonimo, raccontò per il settimanale Relazioni Internazionali (5 marzo 1977) la Loya Jirgah, ossia la Grande assemblea convocata per simboleggiare quell’illusoria svolta storica: “ I turbanti tagichi, turcomanni, hazara, i berretti nuristani ed i copricapo pashtu nell’aula modernamente costruita ed arredata ove si riunisce la Loya Jirgah, o Grande assemblea dell’Afghanistan, rappresentano plasticamente il contrasto fra il vecchio e il nuovo, fra la tradizione e il rinnovamento, fra la fedeltà ai costumi ancestrali e l’ansia di una vita migliore”. L’ansia è finita nel nulla, o per meglio dire nel golpe con cui, meno di due anni dopo la pubblicazione di quell’articolo, gli amici dell’URSS presero il potere a Kabul innescando una catastrofica spirale di guerre, invasioni e guerriglie. La spirale di violenza in Afghanistan ha favorito il diffondersi del terrorismo in Europa e negli Stati Uniti. Russi, americani ed europei hanno pagato tutti quanti un prezzo enorme per gli errori compiuti in Afghanistan. Adesso a Kabul comandano i talebani e noi abbiamo interesse a capire le lezioni derivanti da questa “guerra dei Vent’anni”. Così magari staremo più tranquilli nei prossimi venti.

L’influenza dell’Afghanistan sulla nostra stessa vita è da decenni superiore a quanto comunemente si immagini. Un’influenza soprattutto indiretta, verificatasi “di rimbalzo”. Ma comunque reale. L’invasione dell’Afghanistan da parte dell’Armata rossa, cominciata nel dicembre 1979, ha contribuito alla crisi e alla disintegrazione della vecchia Urss. La fine della minaccia sovietica e la riunificazione tedesca hanno cambiato l’atmosfera anche all’interno della nostra Europa comunitaria. Questo “effetto collaterale” delle trasformazioni all’est è risultato gradevole per alcuni più che per altri. Pur dicendo di non temere la riunificazione tedesca, il presidente François Mitterrand ha osservato con sospetto quella dinamica, innescatasi nel 1989 con la caduta del Muro di Berlino. Mitterrand pensava che la riunificazione tedesca non fosse una buona notizia per la Francia.
Il 3 ottobre 1990 i territori dell’ormai defunta Deutsche Demokratische Republik vengono incorporati nella Bundesrepublik Deutschland e in quelle stesse ore il cancelliere Helmut Kohl scrive a Mitterrand, sottolineando l’importanza storica della riunificazione. Mitterrand reagisce dicendo questa frase al suo braccio destro Jacques Attali: “Le chancelier est sincère. C’est un homme de très grande valeur. Mais après lui? Il faut arrimer l’Allemagne, la dissoudre dans l’union politique de l’Europe avant que Kohl ne passe la main. Sinon, l’arrogance allemande – cette fois bavaroise, et non plus prussienne – menacera de nouveau la paix en Europe”. Ecco da dove vengono gli euro che (chi più, chi meno!) abbiamo oggi nelle nostre tasche. Vengono da quella precisa volontà di François Mitterrand di “ancorare la Germania sciogliendola nell’unione politica dell’Europa”. La Francia di Mitterrand si è battuta con grande determinazione per la nascita della moneta unica, concepita come atto di fede nel nostro comune destino europeo. Una scommessa politica ancor prima che un calcolo economico. Una scommessa politica molto più che un calcolo economico.

Questi ragionamenti, questi sottintesi e anche qualche malinteso s’intrecciano – esattamente trent’anni fa – nelle relazioni tra i dodici membri della Comunità europea durante il secondo semestre del 1991, in cui la presidenza di turno spetta all’Olanda (che in dicembre ospita lo storico vertice di Maastricht). Diversamente da quanto accade in altre riunioni internazionali, preparate in anticipo con molta cura, il Consiglio europeo di Maastricht è teatro di una vera e talvolta agitata discussione tra i partecipanti. Si parla di moneta unica, di difesa comune, di rapporti con Mosca e soprattutto di integrazione europea. Chi nel dicembre 1991 rifiuta la logica della moneta unica (la Gran Bretagna) si colloca in una spirale da cui uscirà trent’anni dopo col materializzarsi della Brexit. Desta una certa ironia rileggere oggi il commento del Premier britannico John Major, che – dopo essersi dissociato dalla logica dell’integrazione comunitaria – dice di aver vinto “game, set e match” al vertice europeo di Maastricht. L’idea dello “splendido isolamento” non è certo una novità per gli abitanti di quelle isole. Per fortuna il rifiuto britannico non è che un dettaglio nella storia di Maastricht.
Il punto fondamentale è la scommessa della maggioranza degli europei  sulla moneta unica, che avrebbe certo potuto essere organizzata meglio, ma il cui successo è sotto i nostri occhi, visto che il prossimo primo gennaio celebreremo i vent’anni da quando gli euro sono fisicamente entrati in circolazione. È vero che si sarebbe potuto far meglio, ma certe volte il meglio è nemico del bene e in quelle giornate di Maastricht l’importante è stato dare il segnale della svolta. Concordato al vertice del 9-10 dicembre 1991 (a cui partecipano tra gli altri il presidente della Commissione europea Jacques Delors, il tedesco Kohl, il francese Mitterrand, il britannico Major e il presidente del Consiglio italiano Giulio Andreotti), il trattato viene firmato, sempre a Maastricht, il 7 febbraio 1992 dai ministri degli Esteri. Il suo testo istituisce “un’Unione Europea … che ha il compito di organizzare in modo coerente e solidale le relazioni tra gli Stati membri e tra i loro popoli« .

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President Joe Biden speaks about Afghanistan from the East Room of the White House, Monday, Aug. 16, 2021, in Washington. (AP Photo/Evan Vucci)

Oltre alla moneta unica, un altro tema delle discussioni e del trattato di Maastricht è oggi di grande attualità: la difesa e la sicurezza dell’Unione. Nella notte finale delle discussioni del vertice, Mitterrand riassume a caldo le decisioni appena prese. Una sua frase è rimasta scolpita nella mia memoria: “On aura une monnaie unique et, à terme, une politique étrangère et de défense commune”. La moneta unica l’abbiamo. Quanto all’integrazione europea nella politica estera e della difesa, mi pare chiaro che non sia stato fatto abbastanza. Vale la pena di rifletterci oggi che gli americani lasciano in modo umiliante l’Afghanistan dopo la “guerra dei vent’anni”. A differenza dell’America di Trump, che aveva rapporti molto tesi con l’Europa, quella di Biden dialoga e sorride, ma per noi europei resta chiaro che – se vogliamo avere sonni tranquilli in un mondo agitato – dobbiamo fare affidamento un po’ più su noi stessi e un po’ meno sull’alleato transatlantico. Questo settembre 2021 ha spinto tutti quanti a interrogarsi sui limiti del futuro impegno internazionale dello zio Sam. “Voi europei non siete mai contenti: quando interveniamo all’estero dite che ci comportiamo come i poliziotti del mondo e quando non interveniamo dite che c’è il pericolo dell’isolazionismo americano!”, mi ha detto una volta – non senza qualche motivo e qualche sorriso – un interlocutore a stelle e strisce. Stavolta, però, è diverso. Stavolta Washington s’è impegnata a fondo in un conflitto in cui ci ha coinvolti nel nome della Nato e a cui ha posto fine lasciando completamente il potere ai nemici della democrazia e dei diritti umani. Non sta scritto da nessuna parte che si debba fare le guerre nel nome dei diritti umani, ma – quando le si fa – bisogna sapere che le nostre sconfitte sono anche quelle della causa per cui abbiamo detto di voler combattere.
Una volta di più, il ragionamento rimbalza tra l’Afghanistan e la nostra attuale Europa. Trent’anni fa, a Maastricht, ci si poteva permettere il lusso di non trarre tutte le conseguenze dei discorsi (e anche degli accordi) circa la politica estera e la sicurezza comuni. Tanto sapevamo che lo zio Sam non ci avrebbe lasciati soli in caso di minaccia vitale. Forse lo sappiamo ancora adesso. Ma ne siamo un po’ meno convinti.

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La storia non smette mai di rotolare. John Major diceva d’aver vinto a Maastricht la sua partita contro gli amici-rivali. Ma l’11 luglio di questo 2021 un’altra partita è stata giocata nella cattedrale londinese di Wembley, in cui la gran sacerdotessa Uefa celebra in pompa magna (malgrado il Covid) i riti pagani della Dea Palla. L’ultima parata di Donnarumma – davanti all’ultima pallonata dell’ultimo minuto della drammatica liturgia – ha fatto gridare di gioia gli italiani e non solo loro. Quella notte ho visto la gente festeggiare nelle strade di Parigi come se azzurro e bleu fossero lo stesso colore. Sogno europeo in una notte di mezza estate.

Alberto Toscano

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Alberto Toscano
Alberto Toscano est docteur en Sciences politiques à l’Université de Milan, journaliste depuis 1975 et correspondant de la presse italienne à Paris depuis 1986. Ex-président de la Presse étrangère, il est l’un des journalistes étrangers les plus présents sur les chaînes radio-télé françaises. A partir de 1999, il anime à Paris le Club de la presse européenne. Parmi ses livres, ‘Sacrés Italiens’ (Armand Colin, 2014), ‘Gino Bartali, un vélo contre la barbarie nazie', 2018), 'Ti amo Francia : De Léonard de Vinci à Pierre Cardin, ces Italiens qui ont fait la France' (Paris, Armand Colin, 2019), Gli italiani che hanno fatto la Francia (Baldini-Castoldi, Milan, 2020), Mussolini, "Un homme à nous" : La France et la marche sur Rome, Paris (Armand Colin, 2022), Camarade Balabanoff. Vie et luttes de la grand-mère du socialisme (Armand Colin, 2024)

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