L’Appunto di Alberto Toscano – giugno 2022

Scrivo questo «appunto» il 21 giugno, quarantesimo anniversario della Festa della musica. La creatura di Jack Lang si materializzò nelle stesse settimane in cui il governo del socialista Pierre Mauroy spegneva la sua prima candelina e la Francia era al centro del mondo perché a Versailles (tutto un programma !) si riuniva il G7, col presidente Mitterrand ad accogliere Reagan, Schmidt, Spadolini e Madame Thatcher. Insieme al ministro della Cultura Jack Lang, c’erano in quel governo persone del calibro di Robert Badinter, Jacques Delors e Michel Rocard. Certo di problemi ce n’erano tanti ; e pure gravi. Al G7 si parlò di crisi energetica, Afghanistan, Medio oriente, aiuti ai Paesi «in via di sviluppo», armamenti in Europa, rapporti col Cremlino. Il pianeta Terra è andato avanti, ma forse ha continuato a girare su se stesso.

In questo giugno 2022, la Francia esce da una lunghissima stagione elettorale per entrare in un tunnel di incertezza politica, che può durare giorni, mesi e magari anni. L’opinione pubblica è stanca, delusa e nervosa dopo una campagna elettorale cominciata in realtà nell’autunno 2021 e coincisa con i problemi che tutti noi europei (e non solo) abbiamo vissuto in questo periodo : dall’ennesimo picco del maledetto Covid alle conseguenze dell’invasione russa in Ucraina. I nostri Paesi sono disorientati. Le leadership politiche sono condizionate dall’inquietudine della gente e da una sorta di sfiducia nella democrazia e nelle istituzioni. Emmanuel Macron, Olaf Scholz e Mario Draghi, leaders dei tre principali fondatori dell’Unione europea, sono andati insieme, mano nella mano, il 16 giugno a Kiev a mostrare fermezza sulla scena internazionale, ma a casa propria è con i dubbi e le incertezze che devono fare quotidianamente i conti. I problemi ci sono sempre stati, ma oggi la crisi di fiducia delle opinioni pubbliche sembra avere radici più profonde e più diffuse, generando incertezze persino all’interno di istituzioni, come appunto quelle francesi, che il generale De Gaulle aveva plasmato per favorirne la solidità anche al prezzo di qualche forzatura. Adesso aumentano gli attriti Eliseo-Parlamento ed è dunque il vecchio mito gollista della solidità istituzionale a rischiare la crisi.

Foto d’Emmanuel Macron © AFP – SEBASTIEN NOGIER

I titoli dei quotidiani francesi di questi giorni la dicono lunga. Comincio da alcuni giornali  di lunedì 20 giugno. Le Parisien : « Ingouvernable ! » (nelle pagine interne : « Séismes », « Plongée dans l’inconnu », « La macronie sonnée », « Ferrand et Castaner, ces fidèles du président, au tapis »). Les Echos : « Le séisme » in prima pagina e all’interno « Législatives : échec cinglant pour Macron et percée du RN », col commento « Ingouvernable ! ». Le Figaro : « À l’épreuve d’une France ingouvernable ». Libération parla di « schiaffo » a Macron e titola « La gifle ». Le Monde : « Macron atteint par un vote sanction. Le RN en force, l’Assemblée dans l’inconnu ». Tra i titoli di questo martedì 21, trovo quello del Figaro, che sottolinea le divisioni nella coalizione di sinistra Nouvelle Union populaire, écologique et sociale (Nupes), imperniata sul personaggio di Jean-Luc Mélenchon :  « Macron dans l’impasse, la Nupes déjà divisée ». Le Monde : in prima pagina « Assemblée : Macron en quête de majorité » e all’interno « Après le vote sanction, la grande hésitation » (che fa pure rima e sembra l’inizio di una filastrocca). Neanche le radio-tv pubbliche usano espressioni delicate : « C’est un massacre: après les résultats des élections législatives, le camp Macron sous le choc d’un vote sanction ».

Nel giorno della festa della musica, Le Parisien pubblica in prima pagina, sul volto di Macron, un titolo che tutti i lettori hanno senza dubbio, in cuor loro, il riflesso di intonare come nella celeberrima canzone « Et maintenant ». Il titolo del Parisien è questo : « Et maintenant que peut-il faire ? ». Ho voglia di riproporvi la canzone, ma non so se suggerirvela nella versione Johnny Hallyday (LINK) o in quella Gilbert Bécaud (LINK). Ditemi quale preferite, anche se le parole del vostro karaoke post-elettorale potrebbero subire qualche modifica rispetto al testo cantato da Johnny e da Gilbert. Per esempio, visto che un sorriso non ha mai fatto male a nessuna persona intelligente, quelle potrebbero essere qualcosa come:

Et maintenant, que vais-je faire
De tout ce temps que sera ma vie
De tous ces gens qui m’indiffèrent
Majorité, tu es déjà partie

Et maintenant, que vais-je faire
Vers quel Guéant[1] glissera ma vie
Marine Le Pen est toute entière
et Mélenchon n’est pas plus petit

Vous mes amis, soyez gentils
Vous savez bien que l’on n’y peut rien

Riascoltate la canzone e ne riparliamo ! Visto che stiamo chiacchierando tra amici, lasciatemi dirvi che (da qualsiasi punto di vista si voglia osservare il verdetto delle legislative) la cosa principale non è, a mio avviso, la composizione del prossimo emiciclo di Palais Bourbon. La cosa più grave è un calcolo elementare quanto impressionante. Su circa 49 milioni di iscritti alle liste elettorali, i votanti del 12 giugno sono stati 22,7 milioni, di cui mezzo milione si è espresso con scheda bianca o nulla. La quota di circa 25 per cento dei voti, andata alla coalizione macronista Ensemble, corrisponde dunque al 12 per cento circa degli aventi diritto al voto e a meno del 10 per cento dei francesi. L’uomo e il partito che per una legislatura (dal 2017 al 2022) hanno concentrato nelle proprie mani la quasi totalità del potere nazionale hanno avuto, alla fine di quel periodo, la fiducia di meno di un cittadino su dieci. Rilevare questa verità significa dire (ci sarebbe bisogno di gridarlo !) che tutte le nostre democrazie hanno un assoluto bisogno di ritrovare la propria anima. Il fossato popolo-istituzioni non smette di allargarsi e anche la scarsa partecipazione elettorale italiana alle urne del 12 giugno (quando i cinque referendum sulla giustizia sono stati invalidati dal mancato raggiungimento del quorum) va nello stesso senso. La soluzione non può essere trovata in qualche furbizia e in operazioni di maquillage. Di cose del genere ne abbiamo viste fin troppe. Le nostre democrazie sono malate (malate di « cuore ») e la soluzione non è un lifting. Dobbiamo ritrovare i valori alla base del nostro vivere insieme. Questa è la vera sfida dell’avvenire. Se permettiamo alle nostre democrazie di rinsecchire, potremmo svegliarci quando sarà tardi per correre ai ripari. Affermazioni del genere sono state usate spesso come parole al vento. Stavolta, in tutt’Europa, sarebbe bene prenderle molto sul serio.

Sia nel 2017 sia in questo confuso 2022, i francesi hanno eletto Macron scegliendolo (al secondo turno delle presidenziali) contro Marine Le Pen. Ma allora Macron ottenne – subito dopo essere entrato all’Eliseo – la conferma del proprio successo in occasione delle legislative: gli elettori diedero ai suoi sostenitori una schiacciante maggioranza assoluta all’Assemblea nazionale. Adesso la vittoria contro la Le Pen al secondo turno delle presidenziali è stata molto meno ampia che nel 2017. Poi gli elettori hanno negato alla coalizione macronista la maggioranza assoluta all’Assemblea nazionale. Le opposizioni si sono rafforzate, ma sono divise tra loro. Non esistendo una maggioranza assoluta alternativa a quella dei fedeli del presidente – è impossibile dar vita  a un governo di « coabitazione », come quelli che hanno guidato la Francia nei periodi 1986-1988, 1993-1995 e 1997-2002.

Jean-Luc Mélanchon et la France insoumise

I veri vincitori di queste ultime legislative sono alle estreme dell’emicilo parlamentare. Il loro successo ha un gusto completamente diverso e forse anche il loro atteggiamento a Palais Bourbon sarà diverso. Il successo di Jean-Luc Mélenchon (72 deputati per la sua France Insoumise nel contesto di una coalizione Nupes, accreditata di 131 seggi) era scontato ed è stato in realtà inferiore alle previsioni (da 180 a 210 seggi nel caso del sondaggio Ifop-Fiducial per la rete tv LCI). Il successo di Marine Le Pen (89 deputati per il suo Rassemblement national) non era invece assolutamente scontato, come dimostra il fatto che quello stesso sondaggio situava questo partito in una « forchetta » tra 20 e 40 seggi. Piaccia o non piaccia (a me non piace, ma questo è affar mio) il vero vincitore di questa primavera elettorale francese (che è forse l’autunno della Quinta Republica) è Marine Le Pen. Il RN aveva otto seggi nella scorsa legislatura e non poteva neppure disporre di un gruppo parlamentare, non arrivando all’indispensabile soglia dei quindici membri. In una sola elezione ha moltiplicato di undici volte la sua rappresentanza all’Assemblea nazionale. Piaccia o non piaccia, la barriera psicologica della società francese nei confronti del RN si è rotta e potrebbe adesso crollare completamente. Molto dipenderà dal modo in cui i deputati RN si comporteranno dentro e fuori Palais Bourbon.

22 giugno – Arrivo dei deputati RN all’Assemblea nazionale – Foto Europe 1

Marine Le Pen lo sa benissimo e per questo (per tenere a bada i suoi e per approfittare fino in fondo della vetrina parlamentare) ha scelto di rinunciare alla presidenza del suo partito (che già nel periodo elettorale aveva ceduto ad interim al suo braccio destro Jordan Bardella) concentrandosi sulla guida del gruppo. Il suo avvenire (compresa la possibilità di entrare un giorno all’Eliseo) dipende dal fatto che il suo partito riesca a sgretolare la barriera, invisibile e reale al tempo stesso, del «soffitto di cristallo», il famoso «plafond de verre». Ottenere questo risultato è difficile perché si tratta di essere credibili al tempo stesso come partito di opposizione radicale e di governo potenziale. Per Marine Le Pen gli esami non finiscono mai. Tanto meglio.

La maggioranza macronista (che gli elettori hanno degradato da assoluta a relativa) ha l’aria di un pugile « suonato » che si rialza dopo un ko e che, malgrado i suoi bei muscoli, continua a traballate. L’Eliseo ha un bisogno assoluto di ricompattarla e di darle fiducia, ma non è chiaro se stia attribuendo a questo obiettivo la dovuta importanza. Nel 2017, il partito En Marche (guarda caso le iniziali di Emmanuel Macron) ebbe da solo 314 seggi, a cui andavano aggiunti i 47 dell’alleato MoDem. Avendo En Marche la maggioranza assoluta dei seggi all’Assemblea nazionale, Macron non dipendeva granché dalla fedeltà degli alleati (che c’è comunque stata). Adesso la situazione cambia e il peso specifico degli alleati del partito macronista (il MoDem di François Bayrou e Horizons dell’ex primo ministro Edouard Philippe) potrebbe aumentare. Sullo sfondo, molto in lontananza, ci sono le prossime presidenziali del 2027, quando comunque Macron non potrà più essere candidato a un terzo mandato consecutivo.

Nell’immediato, Macron ha davanti a sé tre strade :

a) governo di coalizione con i Républicains ; b) governo minoritario in Parlamento (lo è già al Senato, lo sarebbe anche all’Assemblea nazionale) ; c) elezioni anticipate. La prima ipotesi è la più logica, la seconda è la più probabile, la terza la più pericolosa.

Se i risultati del 19 giugno, fossero stati in Germania, oggi sarebbero in corso trattative Ensemble-Républicains per mettere a punto un programma di governo, destinato a essere poi firmato e rispettato. Se i risultati del 19 giugno fossero stati in Italia, oggi sarebbero in corso trattative per mettere a punto un programma di governo, destinato a essere firmato e rispettato solo fino a un certo punto. Essendosi svolte in Francia, le elezioni legislative danno luogo a invettive più che a trattative. In Francia i riflessi ideologici sono una cosa seria. Anche troppo. Anche quando occorrerebbe una buona dose di pragmatismo o magari di vecchio buon senso contadino. La politica francese preferisce le rivoluzioni ai compromessi. Alla fine, i compromessi si devono fare e se ne fanno pure tanti. Ma se ne parla il meno possibile. Come nel caso delle relazioni extraconiugali, bisogna sempre far finta di niente. Esistono senza esistere. Diventano un problema solo quando se ne parla.

21 giugno. Incontro Emmanuel Macron e Christian Jacob, presidente dei Républicains

A seguito della duplice tornata elettorale di quest’anno, i Républicains si sentono in un fortino assediato, più o meno come il generale Custer alla battaglia di Little Bighorn. Però, a differenza del gen. Custer, sono fortunati. Non solo hanno salvato la pelle del partito neogollista, ma hanno persino pescato il jolly. Sempre che siano capaci di servirsene. Dopo aver pervicacemente cercato l’obiettivo della propria disgregazione (riuscendo persino a star sotto il 5 per cento dei voti al primo turno delle presidenziali e perdendo poi, alle legislative, 36 dei propri 100 seggi), i Répubblicains potrebbero – se volessero – vestirsi con i panni di Ghino di Tacco. Chi era ? Siamo nella Toscana a cavallo tra un secolo e l’altro (il XIII e il XIV) quando Ghino ottiene cospicui vantaggi dalla sua rendita di posizione, che domina un luogo sperduto da cui tutti, pellegrini o commercianti che siano, devono transitare. Lui applica a modo suo il concetto del casello autostradale, riscuotendo una sorta di pedaggio con l’aiuto di qualche complice in armi. Nell’Italia di qualche secolo dopo, Ghino di Tacco diventa lo pseudonimo giornalistico di Bettino Craxi, che nell’Italia degli Anni Ottanta ironizza così sulla « rendita di posizione » del proprio Partito socialista : piccolo, ma indispensabile agli equilibri politici. Oggi Gino di Tacco (pardon, Ghinò de Taccò) potrebbe diventare lo pseudonimo del presidente dei Républicains, Christian Jacob. Potrebbe, ma ben difficilmente accadrà.

Caduta l’« ipotesi a », si passerà al « piano b ». B come buona sorte. B come Borne. Un governo minoritario, per di più guidato dall’attuale prima ministra Elisabeth Borne, sarebbe una continua lotteria. I macro-ottimisti fanno un paragone col periodo 1988-1991, quando Michel Rocard governò egregiamente avendo solo 275 deputati, ossia 14 meno della maggioranza assoluta. A Macron ne mancano 44, non 14. E per di più non è facile trovare un collaboratore geniale come il costituzionalista Guy Carcassonne (scomparso nel 2013 all’età di 62 anni), che al fianco di Rocard metteva a frutto i propri contatti e le proprie capacità di dialogo per trovare i voti necessari a far passare leggi e  riforme. Stavolta, anche nell’ipotesi più ottimistica di sopravvivenza di un governo minoritario, sarebbe davvero difficile immaginare vere riforme. Galleggiare è una cosa, riformare un’altra.

La stessa idea del galleggiamento sarebbe tutt’altro che semplice, dato che – rispetto ai tempi di Rocard – un’altra differenza è rappresentata dalla limitazione del ricorso ai voti di fiducia. In base alla Costituzione, nel frattempo modificata, il cosiddetto « 49-3 » (la « fiducia alla francese », molto più vantaggiosa per i governi in carica rispetto alla « fiducia all’italiana ») non può più essere utilizzato con la frequenza di un tempo. Questo aprirà nuovi spazi all’ostruzionismo parlamentare.

In caso di fallimento (prima o poi) del « piano b », si tornerebbe per forza di cose a parlare di una riesumazione del « piano a » o del passaggio al « piano c ». C come convocazione di elezioni anticipate. Ci sono democrazie in cui questa è una cosa normalissima. Israele ha deciso in questi giorni lo scioglimento della Knesset. La Spagna è andata alle urne quattro volte di fila. La regina Elisabetta ha sciolto tante volte la Camera bassa senza abbassare il prestigio delle istituzioni. Ma la Francia della Quinta Reppubblica è un’altra cosa. Se un presidente scioglie l’Assemblea nazionale (come Mitterrand nel 1981 e nel 1988 o Chirac nel 1997), mette in gioco la propria responsabilità politica. La regina d’Inghilterra firma un documento e torna a bere il té accarezzando i cagnolini. Il presidente francese entra in un campo di battaglia e rischia di farsi male. Chiede al popolo qualcosa di preciso, sollecitando un certo tipo di voto. Se poi il popolo vota in un modo diverso, per lui la situazione si fa delicata, molto delicata. Nel caso dei due « scioglimenti », decisi da Mitterrand subito dopo le sue vittorie presidenziali, il popolo gli ha dato risposte favorevoli. Nel caso di Chirac, la risposta è stata negativa, ma è comunque emersa una maggioranza (di segno politico opposto) con cui il presidente ha coabitato e collaborato per cinque anni in un clima costruttivo. Che cosa accadrebbe se Emmanuel Macron sciogliesse l’Assemblea e alla fine il quadro parlamentare restasse più o meno quello di oggi ? Allora davvero la Francia rischierebbe una seria crisi istituzionale. Su questo terreno, il paragone tra Francia e altre democrazie va formulato con prudenza.

Qui mi fermo e, per cercare un po’ d’allegria, esco a fare due passi in mezzo alle note della Festa della musica.

Alberto Toscano

[1] Claude Guéant è stato ministro dell’Interno e braccio destro di Sarkozy negli anni della sua presidenza.

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Alberto Toscano
Alberto Toscano est docteur en Sciences politiques à l’Université de Milan, journaliste depuis 1975 et correspondant de la presse italienne à Paris depuis 1986. Ex-président de la Presse étrangère, il est l’un des journalistes étrangers les plus présents sur les chaînes radio-télé françaises. A partir de 1999, il anime à Paris le Club de la presse européenne. Parmi ses livres, ‘Sacrés Italiens’ (Armand Colin, 2014), ‘Gino Bartali, un vélo contre la barbarie nazie', 2018), 'Ti amo Francia : De Léonard de Vinci à Pierre Cardin, ces Italiens qui ont fait la France' (Paris, Armand Colin, 2019), Gli italiani che hanno fatto la Francia (Baldini-Castoldi, Milan, 2020), Mussolini, "Un homme à nous" : La France et la marche sur Rome, Paris (Armand Colin, 2022), Camarade Balabanoff. Vie et luttes de la grand-mère du socialisme (Armand Colin, 2024)

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