Un bilancio del voto delle Europee.
Mia nonna diceva che quando c’è troppa confusione bisogna cominciare col farsi una camomilla. L’idea sarebbe saggia e la seguirei volentieri se non ci fosse il rischio di assopirsi dopo una nottata particolare, come quella che tutti quanti noi abbiamo vissuto tra domenica 9 e lunedì 10 giugno. Opto dunque per l’ennesimo caffè. Ce lo porteremo dietro a lungo il ricordo di queste ore di agitazione, apprensione e televisione.
Per una volta, i risultati francesi sono stati più ansiogeni di quelli italiani. In realtà, il verdetto delle urne francesi ha confermato l’oroscopo dei sondaggi delle settimane precedenti. «Le choc RN» è il titolo che domina il 10 giugno la prima pagina di Les Echos, apparentemente sorpreso dal 31,4 per cento conquistato dalla lista Rassemblement national (RN) del ventottenne Jordan Bardella. Non si capisce dove stia lo choc, visto che il sondaggio pubblicato il 4 giugno dallo stesso quotidiano attribuiva a Bardella il 33 per cento. Può darsi che alla redazione di Les Echos non leggano Les Echos! Lo choc dell’eclatante vittoria di Bardella, braccio destro di Marine Le Pen, era previsto e straprevisto. Lo stesso si può dire per la rovinosa sconfitta della lista della coalizione macronista, guidata da Valérie Hayer, che era data nei sondaggi dalle parti del 15 per cento e che ha effettivamente avuto il 14,6. Il presidente Macron e i suoi fedelissimi controllano la quasi totalità del potere nazionale, ma – al momento del voto – solo il 14,6 per cento degli elettori hanno espresso fiducia in loro. Non è certo un bel risultato dopo sette anni di presenza all’Eliseo e dopo due anni dall’inizio del secondo mandato presidenziale del quarantaseienne Emmanuel.
Lo choc c’è stato davvero la sera del 9 giugno, ma è scaturito da un’altra notizia, questa volta del tutto inattesa. Il terremoto è venuto dalla decisione dell’Eliseo di sciogliere l’Assemblea nazionale in reazione appunto alla Beresina elettorale del macronismo. Alcuni collaboratori di Macron hanno tentato di evitare quella decisione, che ha il sapore di un azzardo. Pare che il primo ministro Gabriel Attal abbia offerto al presidente la propria testa, proponendogli di utilizzare le dimissioni del governo per lanciare un segnale di cambiamento. Niente da fare. Proposta rifiutata e testa di Attal rimasta al proprio posto fino ad almeno il prossimo luglio. L’impatto psicologico dei risultati elettorali del 9 giugno ha scosso e sconcertato Macron, che ha scelto di giocare d’anticipo sciogliendo l’Assemblea nazionale e convocando le elezioni per il rinnovo dei 577 seggi che la compongono. Il corpo elettorale francese (49 milioni di persone) cercherà di darsi un’anima politica tornando alle urne nel giro di brevissimo tempo : le date annunciate da Macron per i due turni delle legislative sono il 30 giugno e il 7 luglio. I tempi brevissimi mettono in difficoltà tutti i partiti, macronisti compresi. Nella legislatura uscente, durata solo due anni, i fedeli del presidente avevano la maggioranza relativa con 250 seggi contro i 151 che erano stati eletti nella coalizione di sinistra NUPES (socialisti, Verdi, comunisti e soprattutto sinistra radicale di Jean-Luc Mélenchon), contro gli 88 del RN e contro i 62 neogollisti del partito dei Républicains. Adesso comincia una campagna elettorale rovente, sui cui esiti è impossibile fare previsioni. Di qui la grande incertezza delle prossime settimane.
Annunciando dai teleschermi lo scioglimento dell’Assemblea nazionale (alle 21,01 di domenica 9 giugno), Macron immaginava presumibilmente un « piano A » e un « piano B ». Il problema è che sembra mancargli il « piano C ».
Il « piano A » è chiaramente la vittoria dei tre partiti a lui fedeli, riuniti nella sua coalizione: il partito Renaissance e gli alleati del MoDem (Movimento democratico di François Bayrou) e di Horizons. Resta da vedere fino a quando gli amici resteranno amici e gli alleati resteranno alleati. Il punto forte del « piano A » sta in un’alternativa che il presidente Macron sembra porre in modo secco e persino brutale ai suoi connazionali. Una frase che non ha mai pronunciato, ma che ha lasciato intendere tra le righe del suo brevissimo e drammatico discorso radiotelevisivo della serata elettorale : « Scegliete tra me e l’ignoto ! Tra me e il rischio del caos ! ». Macron chiede una vera maggioranza. Ha bisogno di fiducia come dell’ossigeno. Se non l’avrà, è pronto ad affidare ad altri la patata bollente del governo. Altri chi ? Viene da pensare evidentemente ai grandi vincitori del 9 giugno, ossia a quell’estrema destra che entrerebbe così in modo eclatante (e magari inquietante) nel « sancta sanctorum » del potere.
Ecco dunque il « piano B » : coabitazione con i vincitori delle elezioni, che potrebbero essere il RN di Marine Le Pen o, sull’altro fronte, una coalizione di sinistra eventualmente riesumata. Sulla base dei risultati del 9 giugno, si può dire che ambedue queste forze possano contare su circa un terzo dei voti. Per arrivare alla maggioranza assoluta, dovrebbero sperare di avvantaggiarsi dal sistema elettorale a doppio turno (cosa difficile per il RN a causa della sua difficoltà nel trovare alleati).
Se il RN o l’ipotetica (ancora molto ipotetica) coalizione di sinistra avessero la maggioranza assoluta all’Assemblea, scatterebbe la « coabitazione », già sperimentate tre volte dalla Francia durante la Quinta Repubblica. Macron resterebbe tranquillamente al proprio posto all’Eliseo, esercitando comunque una supervisione su politica estera e difesa, secondo quanto previsto dalla Costituzione. Intanto il governo dei suoi avversari dovrebbe misurarsi con i problemi della vita quotidiana, rischiando così di diventare impopolare.
Il vero pericolo nascerebbe se nella prossima Assemblea non ci fosse una maggioranza assoluta a sostegno del governo (come peraltro non c’è dal giugno 2022, cosa che ha indebolito gravemente l’Eliseo in questi due anni). Che farà Macron in quel caso ? Ci vorrebbe appunto un « piano C », che lui molto probabilmente non ha nelle proprie tasche. La Costituzione non gli permette di sciogliere nuovamente l’Assemblea a breve termine. Potrebbe cercare un Mario Draghi alla francese per dar vita a un governo più o meno « tecnico », ma soluzioni del genere sarebbero difficilissime da mettere in pratica in Francia. Non sappiamo che cosa farebbe in una tale eventualità, ma sappiamo che il rischio per le istituzioni francesi sarebbe grave.
L’incertezza politica francese sta già diventando un nervo scoperto dell’Europa intera. È la parte più visibile di un iceberg di domande in cerca di risposta. Quale maggioranza politica sarà al timone del prossimo Parlamento europeo ? Chi presiederà nelle proprie mani la Commissione di Bruxelles ? Chi si accomoderà sulle altre europoltrone più importanti, in questo momento da attribuire (presidente del Parlamento, presidente del Consiglio, responsabile della politica estera) ? Quali equilibri nasceranno tra i vari gruppi dell’Europarlamento ? Come immaginare il futuro della difesa europea e del rilancio della Nato ? Che fare, nella nuova stagione politica, di fronte alle gigantesche sfide internazionali che sono davanti a noi (Ucraina, Medio Oriente, possibile vittoria di Trump, energia e così via) ? Nella notte dell’Eliseo, tutta Europa ha guardato verso la Francia temendo una pandemia di dubbi, di liti e d’incertezza. Tanti spettri si aggirano per l’Europa in questa estate 2024, ma uno di loro rende più difficile a noi europei la gestione di tutti gli altri : quello dell’instabilità. Lo sa bene Macron, che in vista delle elezioni anticipate sembra mettere i francesi davanti all’alternativa di cui si è detto : «scegliete tra me e il caos !». Questo è il suo punto di vista. Questa è la sua scommessa. Questo è forse il suo azzardo.
A paragone con i toni vivi e persino drammatici della svolta francese, il «day after» delle elezioni italiane ha l’aria di una tranquilla giornata primaverile. Queste elezioni europee nascondevano in Italia una duplice sfida : quella tra le coalizioni e quella dentro le coalizioni. Nel rapporto di forza tra le coalizioni non ci sono stati grandi cambiamenti. La maggioranza resta tale, ma non sfonda ed è chiaro che per Giorgia Meloni sarà difficile far passare la sua amata riforma costituzionale sia per via parlamentare sia per via referendaria. Prima rinuncerà ai suoi progetti su questo terreno (progetti confusi e generatori di confusione) e meglio sarà per tutti.
La battaglia in seno (rispettivamente) alla maggioranza e all’opposizione si è rivelata, la sera del 9 giugno, non meno interessante di quella tra i due campi.
In seno alla maggioranza di Palazzo Chigi si rafforza il legame tra Giorgia Meloni e Antonio Tajani. Il partito della prima (Fratelli d’Italia) ha ottenuto alle europee il 28,8 percento, confermandosi cosi la principale forza politica nazionale. Il partito di Tajaini, Forza Italia, sale dall’8,8 al 9,6 per cento e supera una Lega in caduta libera, precipitata al 9 per cento dal 34,3 del 2019. L’estremismo, la xenofobia e la demagogia di bassa lega non hanno certo aiutato Salvini ad affermarsi come seconda forza della coalizione di governo. L’altro grande sconfitto di queste elezioni europee in Italia è stato Il Movimento 5 Stelle (M5S) di Beppe Grillo, oggi guidato da quel Giuseppe Conte che fu alla testa (2018-2019) del governo composto da Lega e M5S. Si direbbe che la memoria degli italiani ha castigato i due partiti che hanno formato sei anni fa uno dei governi più disastrosi dai tempi dell’eruzione che distrusse Pompei (e che peraltro non fu causata dal governo dell’epoca). Giuseppe Conte voleva guidare l’insieme delle opposizioni al governo di Giorgia Meloni sognando di riprendersi in mano l’Italia. La sera del 9 giugno ha capito di aver perso la sua sfida, mentre il PD, guidato da Elly Schlein, supera il 24 per cento e si afferma chiaramente come principale rivale del tandem Fratelli d’Italia-Forza Italia, che dirige la maggioranza governativa di destra. Resta da dire una parola sul suicidio politico delle forze più apertamente europeiste (guidate rispettivamente da Renzi e Calenda), che restano fuori dal Parlamento europeo perché non sono state capaci di far prevalere l’interesse comune sulle rivalità reciproche. Nessuna delle due ha superato il quorum del 4 per cento, che in Italia garantisce il biglietto per Strasburgo. Anche questa è una lezione per il futuro. I bei discorsi servono a poco se non c’è una seria volontà politica.
Infine qualche parola su un problema gravissimo. Le elezioni italiane hanno evidenziato un calo della partecipazione rispetto alla serie delle precedenti europee, che si svolgono a suffragio universale dal 1979. È tristissimo constatare che meno della metà degli elettori italiani ha fatto lo sforzo di recarsi ai seggi. Il vero problema della nostra democrazia è proprio lì : nella disaffezione per la politica, che si trasforma a una rinuncia a partecipare alle scelte collettive. La politica perde il suo significato se perde il proprio legame con i cittadini. La libertà è partecipazione. Se non c’è partecipazione, ci sarà sempre meno libertà. Non dimentichiamoci l’ultima scena di un bellissimo film che abbiamo tutti quanti visto recentemente: « C’è ancora domani », di Paola Cortellesi.
Alberto Toscano
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