Pubblicate le lettere giovanili della Deledda, prima e attualmente unica scrittrice italiana ad essere stata insignita del prestigioso premio Nobel per la letteratura: Si scopre un carattere appassionato e un grande amore per la vita.
Non è trascorso ancora un secolo dalla morte della scrittrice, avvenuta a Roma, nel 1936, che alcuni aspetti della sua vita sentimentale divengono ora noti al grande pubblico, dopo il grande riserbo che li ha coperti per anni. Ciò dimostra la vasta eco suscitata dalle sue opere e dalla sua personalità che alimenta, a distanza di così tanti anni, la curiosità e l’amore dei lettori. Fa piacere leggere ed immedesimarsi nei suoi pensieri che, attraverso l’amicizia e lo scambio epistolare, si indirizzano ad un futuro sognato.
Ignoravo la sua vita sentimentale, ma la presentazione di qualche settimana fa, alla Biblioteca Nazionale di Roma: La quercia e la rosa. Storia d’un amore importante di Grazia Deledda, con lettere autografe, ediz. Il Maestrale, Nuoro, ha suscitato la mia curiosità e così ho rivisitato la giovinezza della grande scrittrice sarda, nata a Nuoro nel 1871.
L’epistolario narra un suo amore di quando era ventitreenne con il ventunenne Giovanni de Nava, poeta, pubblicista, conferenziere di Reggio Calabria, il quale, avendo letto le sue prime opere (aveva pubblicato da poco Fior di Sardegna), le scriveva ammirato. Lo scambio epistolare durò alcuni anni e fu fervido ed intenso. Ne nacque così una raccolta di trenta lettere autografe (1894-1898) ricevute dalla scrittrice che ora viene data alle stampe dalla nipote di lui: Ludovica de Nava, insieme ad un rimpasto, verosimilmente dedotto dallo studio degli appunti e dalle poesie a lui dedicate.
Il loro è stato un tempo magico, com’è da immaginare, fervido di aspettative e di promesse data l’età e la solitudine della scrittrice. L’amicizia ricambiata e spontanea però non si tradusse in promettente e lunga frequentazione, per via dell’opposizione delle famiglie e restò così solo un bel ricordo, con sullo sfondo la caratterizzazione storica dell’epoca, il disastroso terremoto in Calabria, i Fasci siciliani e la repressione di Crispi.
Grazia Deledda ebbe una personalità complessa ed appassionata, non fu affatto timida ed aprì il suo cuore con confidenza e verità ai suoi amici, numerosi. Si ricordano: Antonio Pau, un bellissimo giovane, bruno, dall’aria un po’ beffarda; Fortunio, poeta, figlio illegittimo d’un cancelliere; Giuseppe M. Lupini, musicista che le dedicò una romanza ed un giornalista triestino Giulio Cesari. Non nascose che la sua vita era sacrificata, chiusa prevalentemente tra le mura domestiche e desiderosa di un grande affetto.
Ma non è questo però l’unico suo epistolario amoroso.
Già in precedenza, Feltrinelli, nel 2010, aveva pubblicato Amore lontano, a cura dell’italianista Anna Folli, un altro scambio epistolare, intercorso tra il 1891 ed il 1909 tra la Deledda e Stanis Manca dei duchi dell’Asinara, giornalista della Tribuna e definito un gigante biondo. Venne appositamente a visitarla nella sua casa di Sardegna e coltivò per qualche tempo la sua amicizia però scanzonata e vivace. Lei s’illuse che la corteggiasse e continuò a scrivergli anche in modo appassionato: Io penso ancora a voi, nella tristezza di sere come questa, quando il vento fa tremare i miei nervi e mi apporta il riflesso spirituale di lontane amarezze.
Ma Stanis Manca, come lo definisce Angelo De Gubernatis un amico più anziano con cui la scrittrice si confidava, fu rude ed anche scortese. Dopo averla vista, bruna e di bassa statura, a suo dire una nana, s’allontanò da lei.
Una vita nient’affatto facile quella della Deledda giovane con l’ansia di trovare un amore che fosse corrisposto e felice.
Spesso questa sua affannosa ricerca è riflessa in alcuni suoi scritti. In Canne al vento, forse il suo capolavoro, il giovane Giacinto Pintor, nipote delle tre sorelle protagoniste, le viene suggerito dalla conoscenza di Giacinto Satta d’Orosei, politico e pittore che illustrò con quattro acquerelli il racconto Ballora della stessa. La scrittrice nuorese, diciassettenne, dovette aver preso un’infatuazione per lui che era un uomo dignitoso e bello, nonostante i vent’anni di differenza. Lo testimonia una sua poesiola: Il mio fiorellino che è il giacinto, scritta non per la bellezza del fiore in sè, ma per ricordarlo ed onorarlo[[M. Pittau. Problemi di lingua sarda. Sassari ,1975]].
La Deledda, nella sua opera autobiografica, Cosima, composta nella tarda età, non racconta tutte le sue infatuazioni. Ma tra le più importanti c’è quella di Andrea Pirodda, maestro elementare, più tardi divenuto ispettore, con cui scambiò epistole lungo l’arco d’un anno da 1892 al ’93. Ma neppure con lui andò in porto il suo progetto di matrimonio. Appassionate sempre le sue parole: Oh,vieni,vieni, io t’invoco nella mia solitudine, vieni. Abbracciami, oh abbracciami forte, più forte ancora …più forte fino ad uccidermi …così, Andrea, mio adorato, Andrea.
Sembra una sceneggiatura contro le parole scialbe e sfuggenti di lui:
Io penso a te, mia cara lontana e ti vedo con la fantasia a me dinanzi, silente e bella nelle fresche trasparenze dell’alba, vedo i tuoi occhi neri fissi sui miei, i tuoi profondi occhi dove splende sereno il mistero del nostro mondo ideale.
Ma il rapporto rimase ideale appunto e la Deledda giudicò non adatto a lei un uomo, poeta sì, ma poco ambizioso. Erano anni quelli in cui il suo scambio epistolare con Angelo De Gubernatis, direttore di “Natura ed Arte”, rivista quindicinale, illustrata, di scienze, lettere ed arti, era al culmine del loro rapporto di amicizia che durò fino al 1909, testimonianza feconda di gratitudine da parte di lei e di devozione quasi paterna da parte di lui che ricordò sempre la freschezza e la sincerità della scrittrice agli albori della sua carriera. La coinvolse pure in un grande suo progetto nazionale: la Società per le tradizioni folkloriche in Italia, a cui la Deledda collaborò molto fino ed oltre l’inaugurazione del Congresso che si tenne il 21 novembre del 1893.
Infine il 22 dicembre del 1899 la scrittrice incontrò il suo futuro marito in casa di Maria Manca, direttrice della prima rivista femminile in Sardegna “La donna sarda”: si trattava di Palmiro Madesani, impiegato dell’Intendenza di Finanza. I due si piacquero e si sposarono nel 1900 e dopo qualche tempo andarono a risiedere a Roma. Si realizzò finalmente così il grande desiderio di Grazia Deledda di poter frequentare la capitale che aveva sempre sognato ed essere a contatto con critici, scrittori, artisti. Ma un certo suo innato riserbo la tenne lontana dai salotti di società. Tuttavia ben presto nacquero pettegolezzi per via dell’intraprendenza di lui che voleva che la moglie fosse meglio valorizzata per i suoi scritti.
Pirandello, acuto osservatore dei fenomeni sociali e dei rapporti di coppia scrisse, con chiari riferimenti alla loro situazione, il romanzo Suo marito (1911) in cui rappresentò con altro nome la coppia, Silvia e Giustino Roncella, nato Boggiòlo, non senza una punta di maschilismo, polemizzando da par suo sull’inconciliabilità della vita familiare e del lavoro specialmente da parte della donna.
Intanto la fama della Deledda cresceva e lei veniva a contatto con altre forme artistiche, con il teatro ed il cinema. Una sua opera Cenere divenne un film, recitato da Eleonora Duse, la più famosa attrice del tempo.
Prima del premio Nobel, del 1926, che la consacrò interprete d’un mondo poco conosciuto, la Sardegna, con i suoi racconti e romanzi ed interventi numerosi per la stampa (anche sul Corriere della Sera), la scrittrice dimostrò una sua grande dignità, disdegnando tutti i presunti attacchi e continuando a scrivere fino alla sua scomparsa, avvenuta nel 1936.
I suoi due figli, uno tenuto a battesimo dal De Gubernatis a Roma, dal nome Sardus Angelo e l’altro Franz dichiararono che, quando la mamma scriveva, solitamente nelle prime ore pomeridiane, bastava che dicesse loro: “Bambini ora zitti perché la mamma scrive” perché si facesse un grande silenzio, un misterioso silenzio, riempito solo dalle sue grandi ed immortali creazioni.
Gaetanina Sicari Ruffo