In questo articolo di Missione Poesia proponiamo l’ultimo libro di Alessandro Fo, «Mancanze», uscito per la “bianca” di Einaudi nel 2014. Nell’opera le mancanze di parole e/o di testi – cifra stilistica – appoggiano e fortificano le mancanze di situazioni, persone, certezze di assoluto e di divino che diventano il contenuto dell’opera. La necessità di affrontare la vita all’insegna delle mancanze nasce dunque da quel senso di perdita, che l’età moderna non può non sentire come proprio, anticipato da Baudelaire.
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Figlio dell’organizzatore teatrale e scrittore Fulvio Fo (1928-2010) – fratello di Dario Fo – e di Clara Nobile (1928-1982), Alessandro Fo è studioso di letteratura latina disciplina di cui è titolare di cattedra all’Università degli Studi di Siena. Oltre a essersi occupato di alcune opere di poeti latini, ha condotto anche studi di letteratura italiana contemporanea, dedicandosi a Vittorio Sereni, Dino Campana, Antonio Pizzuto, e curando in particolare la riproposizione di varie opere poetiche e saggistiche di Angelo Maria Ripellino. È anche poeta, autore teatrale e saggista. Nel 1995 ha vinto il Premio Dessì e il Premio Nazionale Letterario Pisa, nel 2004 il Premio Achille Marrazza. Nel maggio 2013 la giuria del premio intitolato a Gregor von Rezzori per la miglior traduzione in italiano di un’opera di narrativa straniera annuncia il vincitore: Alessandro Fo per la traduzione dell’Eneide di Publio Virgilio Marone. Nel 2014 vince il « Premio Viareggio » per la poesia.
Ha collaborato con traduzioni e schede all’ Antologia della poesia latina, «Meridiani» Mondadori 1993, e ha contribuito con varie voci al manuale di letteratura latina diretto da Maurizio Bettini (Firenze, La Nuova Italia 1995). Inoltre: Virgilio, Purché ci resti Mantova, Le Bucoliche I e IX tradotte e divagate insieme a Giorgio Bernardi Perini per le Edizioni degli Amici (Sargiano 2002); la traduzione con studio introduttivo e note delle Metamorfosi di Apuleio (Milano, Frassinelli 2003; rist. aggiornata Torino, Einaudi 2010); una nuova traduzione, in esametri ‘barbari’ dell’Eneide di Virgilio, con studio introduttivo, nella «Nuova Universale Einaudi» (Torino 2012; note di Filomena Giannotti). Si occupa anche di fortuna dei classici nella modernità (ha studiato in tal senso soprattutto Virgilio, Orazio, Ovidio e Rutilio Namaziano: quest’ultimo in un ampio saggio introduttivo a Rutilio Namaziano Il ritorno, a cura di Andrea Rodighiero e Sara Pozzato, Torino, Aragno 2011) e di letteratura italiana contemporanea (ha curato varie opere di Angelo Maria Ripellino, fra cui – insieme a Federico Lenzi, Antonio Pane e Claudio Vela – l’integrale delle poesie uscita in due volumi, rispettivamente presso Aragno e Einaudi, nel 2006 e 2007). Ha pubblicato il saggio Il cieco e la luna. Un’idea della poesia (Sargiano, Edizioni degli Amici 2003).
Questi i suoi libri di versi: Otto febbraio (Scheiwiller 1995); Giorni di scuola (Città di Castello, Edimond 2001); Piccole poesie per banconote (Firenze Polistampa 2002); Corpuscolo (Einaudi 2004); Vecchi filmati (Manni 2006); Mancanze (Einaudi 2014).
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Conosco Alessandro Fo da molto tempo come autore e da circa un anno personalmente. Ci siamo incontrati a Firenze, in occasione della presentazione di un’antologia dedicata alla figura di Marilyn Monroe, da lui curata insieme a Fabrizio Cavallaro e pubblicata in occasione dei 90 anni dalla scomparsa dell’attrice (Umana troppo umana, Aragno, 2016) nella quale è stato inserito anche un mio testo. Da allora l’ho apprezzato, avendo avuto altre occasioni d’incontro, anche per le sue dote umane, oltre che intellettuali. Il garbo e la sensibilità con cui si rapporta con gli altri e con la poesia – e la cultura tutta – lo rendono, a parer mio, uno degli autori con cui confrontarsi più serenamente. Questo a dimostrazione che la cultura e l’educazione possono andare di pari passo con l’umiltà e la disponibilità, senza inspiegabilmente diventare forze contrarie che si respingono.
Il questo articolo parleremo di “Mancanze”, il suo ultimo libro. Alessandro Fo sarà ospite e Bologna, presso il Grand Hotel Majestic, all’appuntamento di febbraio della rassegna Un thè con la poesia da me curata.
MANCANZE
Capita spesso che, dopo la lettura di un libro di poesia, ci sia la necessità di lasciar passare del tempo – un tempo fatto di ritorni e riletture, di silenzi e ripensamenti – prima di poterne affrontare con lucidità, se pure mai disgiunta da commozione e compartecipazione, il commento e l’analisi, a qualunque livello possibile di interpretazione. Ci sono lavori che pur nella loro apparente linearità di linguaggio, nell’immediatezza delle emozioni che suscitano, nella leggerezza delle immagini che visivamente rappresentano, hanno tali substrati culturali da determinarne una lettura a più livelli, tanto da renderne indispensabile la loro sédimentation. Uno di questi è senz’altro il libro “Mancanze” di Alessandro Fo, uscito nella bianca di Einaudi nel 2014, di cui proponiamo una lettura in quest’articolo.
Quasi a ricordare manzonianamente le avvertenze al lettore, lo stesso Fo inserisce un appunto di lettura, in chiusura del suo lavoro, che è bene leggere per riuscire a cogliere tutti i riferimenti, i collegamenti, le citazioni che l’autore evidenzia, in quanto parte integrante della costruzione del libro, nonché utili alla presentazione di una metodologia di ricerca, rielaborazione, scrittura e riscrittura dei testi che rendono il lavoro del poeta come collocato in una sorta di officina della poesia, sempre aperta a revisionare l’opera, che non può mai dirsi completamente compiuta, in specie grazie agli strumenti che permettono di sottrarre – parole, versi, testi interi – ritenuti non più necessari (almeno in questa nuova collocazione) e che diventano quindi mancanti, o meglio mancanze.
Le mancanze di parole e/o di testi – cifra stilistica – appoggiano e fortificano le mancanze di situazioni, persone, certezze di assoluto e di divino che diventano il contenuto di senso dell’opera suddivisa in tre sezioni: Libro d’oro, Il tono blu, Figure d’angeli.
La necessità di affrontare la vita all’insegna delle mancanze nasce dunque da quel senso di perdita, che l’età moderna non può non sentire come proprio, e tanto ben rappresentato da Baudelaire laddove, nel Cygne, si ritrae come viandante malinconico che, ripercorrendo i cambiamenti della sua Parigi, avverte l’inesorabile passare del tempo, non potendo che affermare Tout pour moi devient allégorie. Così avviene nel testo di Fo, Ma giocare è molto difficilissimo (collocato nella prima sezione, nato dalla pericope del Padre Nostro, liberaci dal male), dall’apparente titolo ironico (rubato, come lui stesso dice nella nota, al poeta Tiziano Rossi), dove l’allusione alla perdita avviene attraverso la metafora del furto, (l’occasione è uno scippo), quasi a simboleggiare la ripresa a posteriori dell’idea baudelairiana, di un malinconico senso di trasformazione, di cambiamento attraverso l’inevitabile, l’ineludibile Ti hanno scippata./ Piangi./ Sostituisci le chiavi di casa./ Tutto si fa intanto allegoria:/ il furto si abbina a cose che se ne vanno,/ valori, e feticci futili / traslocati già nell’aldilà […] La tua pena turbata/tracima in una mia. […]
E molte sono le allegorie proposte da Alessandro Fo nei suoi testi, così come le metafore, le similitudini che diventano validi alleati retorici per permeare il discorso intorno alla perdita e alle mancanze, che non possono non essere evidenziate.
In primis la mancanza – spesso intesa – di un supporto divino. Infatti, ora che la conversione ha reso necessaria la presenza di Dio, il poeta avverte come – se viste dalla ferialità dell’esistenza – le cose umane abbiano bisogno del divino e quanto, pur tendendo verso questo, spesso ne percepiscano la lontananza, l’assenza, la mancanza.
Come fare? La poesia aiuta. L’autore mette in campo tutta la sua abilità nel tentativo, non tanto di colmare quella mancanza né di spiegarla, ma di renderne conto per farne catarsi, rito di purificazione e liberazione attraverso le cose che parlano. E qui tutto parla, parla al cuore, parla alla mente, parla al lettore che si immerge da subito in una scrittura che vuole partire da ciò che già c’è e che non si può – questa volta no – sottrarre. Ecco che l’Ave Maria, il Padre Nostro, il Gloria al Padre, in quanto preghiere necessarie, offrono – attraverso l’uso di minute pericopi – incipit per improntare il percorso, tracimando in altro da sé. Così le occasioni di poesia, rubate alle esperienze, propongono passaggi sul Figlio mancato (in al Figlio, con pericope dal Padre Nostro) dove l’ascesi di Sant’Agostino nell’estasi di Ostia e il salto in alto dell’atleta Fosbury si fondono in un tutt’uno per raccontare momenti di vita nei quali si auspicava la nascita di un figlio, di una vita dove nulla è mai davvero come sembra,/ ma almeno sette volte più complesso (numerologia di riferimento sacro, che ritorna in vari testi); sulla lontananza di Dio (in che sei nei cieli, con pericope dal Padre Nostro) dove il pianto di un bambino (che di nome si chiama Alessandro, come il poeta) rimasto chiuso fuori da un cancello, e che si tenta di rassicurare, diventa occasione allegorica per rappresentare, nell’episodio, la disperazione dell’uomo che, sentendosi solo e smarrito, rinnega la possibilità di sentire Dio Un attimo, la mano sopra gli occhi, non mi trova, si scorda dell’aiuto / non sente più, stravolge in una smorfia / dolorosa la bocca, grida forte, implora il padre, e ormai rinnega pure / la pura verità di avermi udito; reinventano poesie su passaggi evangelici (in Stagioni, ripreso dal Vangelo secondo Luca 13,6-9) dove la parabola del fico che deve essere tagliato perché non dà frutti, e che viene salvato per un ultimo tentativo, diventa speranza per un futuro migliore; offrono inusuali novene alla Madonna, attraverso un percorso generato dalle pericopi dell’Ave Maria, laddove l’inizio (Ave Maria), dato dall’attenzione prestata ad una statua lignea, riprodotta nell’Ospedale di Sant’Eugenio a Roma, della quale si osservano le mani grandi e tozze / due pale,/ tirate via mette in gioco la simbologia dei modesti tentativi umani di trasformazione e/o conservazione del corpo umano, partendo proprio da quell’immagine posta nel reparto di Ortopedia che, al tempo stesso, diventa anche icona di simbiosi tra spirito e corpo. La chiusura, invece, (in della nostra morte), vuol essere una ripresa del finale delle Georgiche di Virgilio, in quanto il poeta, dopo aver sottolineato come il far poesia sia per lui un lavorare sui bordi, un glossare gli altri, fiorendoci attorno – un memorabile esempio è dato dalla ripresa del versi del coro dell’Edipo a Colono, tradotti da un amico e citati da Fo – dimostra la propria consapevolezza affermando, come Virgilio, che nessuna gloria arriverà dalla divulgazione letteraria, poiché questa è un dono degli Dei e non il fine della poesia Ma lentamente la figura che una volta / parlando in me si dava nome «io»/ collimerà in rima piena con l’oblio.
Anche nella seconda sezione del libro, Il tono blu, dedicata a Chopin sono le mancanze a fare da protagoniste metaforiche dell’opera poetica. Qui, in una sorta di interludio tra le altre due sezioni, a mancare sembra quasi la musica, mentre sono fatti rivivere alcuni momenti della vita e della morte del musicista – il primo testo si riferisce al necrologio rinvenuto nella biografia scritta da Beghelli – ai quali si abbina la riproposta di resoconti saggistici sulle composizioni, chiamando in causa André Gide – in quanto autore di Note su Chopin – e figurando un suo incontro con l’Abate di Montecassino, intento a leggere mentalmente una partitura, a immaginarne il suono, immerso in una gioia perfetta data dall’assenza proprio della musica, estasiato dal silenzio perfetto e felice di questa incompiutezza. Sono variazioni, come le chiama lo stesso Fo, costruite sugli incontri e le reazioni tra Chopin e altri personaggi (A Delacroix: E’ vero, Eugène, che sono spesso solo./ Ma sono un solitario…); tra Chopin e i suoi affetti (Moja biéda: Lega le lettere con un nastro rosa./ Su quella tomba assicura una rosa / secca. Vi scrive due parole: «mia pena»…); per i ritratti dei pittori, mai uguali, sulla figura del musicista (Fuga: Il volto è inafferrabile. Ogni volta / in un nuovo ritratto è un altro uomo…). La sezione è suddivisa in diciassette testi e il titolo ricorda la ricerca a cui tendeva il compositore, indirizzata a quel tono di blu che diventa quasi un respiro naturale, mentre scorrono tra i versi i volti di personaggi quali Mozart, Del Piero, Leopardi e Carrai ai quali il poeta si rifà per indicarne la somiglianza con Chopin e delinearne – data la diversità – l’impossibilità di definirlo, proposito nel quale è racchiuso lo stesso senso della musica.
L’ultima sezione del libro, Figure d’angeli, promuove più apertamente l’idea di ricerca di un altrove, percepita attraverso le mancanze fisiche, ma soprattutto spirituali, della vita, aprendo la tematica con l’exergo dantesco dalla Vita Nova (34,3) Onde partiti costoro, ritornaimi a la mia / opera, cioè del disegnare figure d’angeli laddove le intenzioni di Fo, così come riportate nelle note di fine lavoro, sono quelle di fermare schegge d’incontri con persone di diversa età, natura e condizione che sembrano, nella loro identità, schiudere un raggio di sostanza angelica. Ecco che compaiono angeli ripresi in figure come Simonetta Cattaneo Vespucci (in Angelo del Botticelli); angeli ripresi in racconti come la piccola Torun in Dopo molte migliaia di radiazioni di Reidar Ekner (in Angelo caduto in Svezia); angeli ripensati quali figure abbinate alla tradizione degli auguri di Natale, quali Marcellina Guindani e Amelia Ferrari, in una ripresa iniziale da un testo di Angelo Maria Ripellino (in Angelo di ritorno per Natale), laddove l’incontro con il figlio di Amelia e lo scambio di auguri con lui riporta alla mente del poeta un tempo lontano, e il ricordo della donna com’era; ragazze angeli, diversamente rappresentate (in Angeli su scala) dove la preziosa luminescenza bianca con foulard di una ragazza down, evidenziata nell’atto di misurare lo spazio che ha intorno, con lo sguardo e il portamento, è messa in relazione con gli occhi bruni acuti e luminosi di un’altra ragazza vestita di scuro presente nello stesso luogo, quasi a significare la peculiarità delle relative bellezze. Spicca, ad avviso di chi scrive, in quest’ultima parte, il testo Padre già quasi angelo per l’intensità data dalla scelta del dialogo, affettuoso e quotidiano, con il padre, dei gesti e dei momenti ricordati, in afflato con la Dottrina cristiana di Agostino dov’è menzionata l’importanza di un bicchiere d’acqua, che può salvare la vita. La necessità di utilizzare citazioni così colte, riprese dalla tradizione cristiana, ma anche pagana – pensiamo a Virgilio – in contesti così umili e familiari denota la sintonia che l’autore intende comunicare per consegnare, alla riflessione del lettore, quanto certe visioni possano essere affrontate dal basso dei nostri giorni, del nostro vivere, delle nostre esperienza per renderle più vicine che mai al nostro sentire: perché nelle scie angeliche visibili anche in un palloncino o in un pettirosso, o promosse da una coppetta di plastica rosa, è ancora possibile cogliere qualcosa per contrastare l’assenza, o per aiutarci a colmare la mancanza, se ciò che sentiamo è una mancanza divina.
Alcuni testi da: Mancanze
Il prato metafisico
fiat
Ha piovuto nel prato. Con i cani
cammino e il lastricato
è cosparso di chiocciole.
Le schiaccio
involontariamente,
e mi dispiaccio
di sterminare vite,
anche minuscole.
Più semplici dei cani,
a muso basso
vaganti,
più semplici di me.
Non sono loro ad aver steso il selciato.
E né chiocciole,
né cani,
né noi
il prato
col brulichio infinito delle vite
radici
larve
chiocciole
formiche
due cani
e me,
che ce ne andiamo al passo
fra le innumeri forme qui fiorite
parallelamente
sistematicamente
gerarchicamente, e fra le nebbie
del dubbio casomai di questo passo
si dimostrasse niente…
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Diciassette
Come lenta si addensa nei licheni
e opaca si coagula la linfa
(secondo Montesquieu), ed evolve in stelo,
così la melodia nel la bemolle
minore del preludio 17.
Due volte, nelle due modulazioni
in tonalità con diesis, Chopin
tocca la vetta della gioia, al limite
in cui può rovesciarsi nelle lacrime.
Ma da un capo all’altro la tastiera
non conosca disomogeneità.
Limosoque palus obducat pascua iunco.
Sotto giunchi e palude, melodia
chiusa in fondo a una sua propria sfera,
avvolta in amicizia da altre voci.
Un brumoso paesaggio immateriale,
sogni e vita in assidua pulsazione.
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Vesti di un angelo
Per un abito bianco a fiori neri
stampati sulla seta,
con una sopravveste trasparente
che su vi coincideva
preziosissimamente,
si schiudeva – nella tenerezza
simbolica, geometrica,
di una flora d’Aprile che ha sparso orme
su di un prato gentile nella neve,
mosso a morbidi colli dalle forme –
un frammento del già perduto Eden.
Né lei, probabilmente,
saprà mai quanto deve
alla sua veste il minimo bagliore
che ne riflette forse questa via
d’inchiostro e carta in metrica:
ispira diffidenza la poesia,
non convince la delicatezza,
poca gente è all’altezza dell’affetto,
quasi niente è il rispetto dell’amore.
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Angelo minacciato
Di notte, a fine di un assurdo viaggio,
anch’io speravo nella coincidenza
là dove esasperati pendolari
coniano la variante
che «si è fermato a Empoli».
Sul parapetto del sottopassaggio,
col volto al muro, una ragazza orientale
si rigirò un secondo a guardare
con un’infinita aria di pena.
Già affondando lungo le mie scale
ne scorsi ancora, che ornava la schiena,
l’imprescindibile ormai tatuaggio
e, frammento di stella, già perduto
l’umido, obliquo lampo di uno sguardo.
Implorava un aiuto?
…………………………Ero in ritardo
sull’impatto,……….o mi mancò il coraggio.
Non prese treni. Forse si vendeva.
E di lì a poco dileguò nel buio
(la vidi dal binario)
col suo sacchetto di plastica blu.
Angelo nell’inverno
Alta, delicata e molto bella,
come quando cammina,
nutre in grazie soavi femminili
dolci sbilanciamenti
che virano a infantili
sbadataggini i quieti movimenti.
Bruni capelli, in cima
le scendono copiosi sulla spalla.
Brevi conversazioni
sulle scarpe sporcate dal cantiere,
sulla macchina all’improvviso guasta.
Istantanee, poi basta,
di nuovo ci si perde
fino a un altro frammento lungo sere
programmate già diversamente.
E chissà se una lente
su quei pallidi nulla,
a ingrandire sorrisi e sensazioni
di uno schiudersi breve,
non dissigillerebbe
la fredda, concolore
agli abiti invernali,
neve del cuore.
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Padre già quasi angelo
I. Difficoltà improvvise a deglutire
Nella Dottrina cristiana Agostino
scrive dell’importanza,
così inattesa, di un bicchiere d’acqua;
questo, perché «chi avrà dato anche solo
un semplice bicchier d’acqua
a uno di questi miei fratelli più piccoli…»
Così, a salvarsi, basta un bicchier d’acqua.
«Stai meglio?» «Sì, sto molto meglio, guarda»
e afferra il bicchier d’acqua
da sopra il comodino,
beve due sorsi quasi con noncuranza
(chi l’avrebbe mai detto: un sorso d’acqua
potesse assumere tanta importanza):
«Facile come bere un bicchier d’acqua!»
II. È importante la progettualità
Prima, come un bambino
si spreme in bocca dalla punta un formaggino
che si è fatto scartare appena appena.
«Ma l’altro non andava bene lo stesso?»
«No, troppo aperto. Ormai è già compromesso.
Lo metteremo poi nella minestra».
Aspettiamo la cena.
Riassume un lungo racconto di insetti
nei dettagli, sdraiato sulla schiena,
gli occhi azzurri stupiti e spalancati.
«Non va giù la pastiglia per il colon».
Fuori dalla finestra
bel tramonto sul Tevere
con l’Eur colore rosa,
nubi grigie sui tetti.
«O’, Raisport li ha già annunciati:
a ottobre i mondiali di pallavolo.
Ricordi quando già ci furono a Roma?
Io sarò qui per la cura…
……………………………….Sai una cosa?
Ci ritorniamo insieme».
Cinzia Demi
Bologna, febbraio 2018