Da Montréal, Canada. Il professore poliglotta, Sergio Gilardino, è di fronte a me. Siamo nel suo studio. Le pareti sono interamente tappezzate di libri. Quante lingue parla? Non meno di otto. E forse più di dieci, latino compreso. E le conosce tutte in profondità.
Grazie alla moglie ha imparato il greco moderno. Il serbo-croato è stato un suo amore di gioventù. Il tedesco non sembra aver segreti per lui: ha conseguito una laurea in Lingue e Letterature germaniche alla Bocconi. Il suo inglese è preciso e ricco: ha ottenuto il dottorato in Lingue e Letterature romanze ad Harvard. Poi ha tenuto la docenza di Lingue e Letterature comparate all’università McGill di Montréal. È un piacere sentirlo parlare in francese. In italiano è un fuoco pirotecnico. Le altre lingue ve le risparmio…
Ecco un vero internazionalista, dico fra me. Se è vero che le lingue sono finestre aperte sull’anima altrui, allora costui è il “Palazzo di vetro”…
Conversiamo. La mia intuizione è puntualmente confermata da quanto mi dice. La sua mente spazia oltre le frontiere. Ha vissuto in tanti luoghi. Cita personaggi, scrittori di altre lingue, di altri luoghi, di altre culture. Mi parla del gusto oratorio che ha trovato, tra contadini e pastori, in Grecia dove si reca spesso. Mi spiega che Montreal gli piace perché è una città cosmopolita. Insegue mille idee nella sua maniera esuberante, da mattatore. Mentre conversiamo il telefono spesso squilla ed egli risponde ogni volta in una lingua diversa.
Quest’uomo è veramente un figlio del pianeta, penso ammirato. È riuscito a superare i confini, si è aperto ai venti delle culture più diverse… Mi sento fiero che sia di origine italiana un uomo così brillante. Dicono che gli Italiani stentino ad imparare le lingue… e guardate questo qui!
Nello stesso tempo però, al suo cospetto, i miei già modesti successi in questa terra adottiva, linguistici o di altra natura, escono crudelmente rimpiccioliti. Avverto che quest’uomo è una critica vivente alla mia essenza più profonda, fatta di amor di patria, di nostalgie napoletane, di rimpianti per le terre adriatiche perdute… Mi dico: egli sì che vive nel presente, senza complessi, senza inutili “sensibleries”. Mi viene addirittura il sospetto che un uomo come lui forse non mangi neanche più all’italiana. E il suo sacrificio mi appare immenso. Ma quando si è cittadini del mondo non si può certo restare ancorati alle pappardelle al sugo di coniglio… Comunque sia, una cosa è certa: quest’uomo vive non all’ombra del gracile campanile, ma dei vigorosi grattacieli di un mondo senza patrie.
Continuiamo a parlare. Ecco che esprime un giudizio su un suo collega, che anch’io conosco, un’eccellente persona, però accomodante, forse troppo, e portato al compromesso. Mi spiega che tutto ciò è da imputarsi all’origine meridionale di costui. “Noi Piemontesi siamo fatti in maniera diversa!” proclama con orgoglio. “Quando conduciamo una guerra non accettiamo le mezze misure. Noi andiamo fino in fondo!”
D’un colpo è emerso il Piemonte e noto che il tono del professore poliglotta non è più lo stesso. Il suo parlare si è fatto intimo, quasi accorato. Mi esprime il rammarico che non tutti capiscano, come lui, l’importanza di salvaguardare il dialetto. Anzi la lingua, perché il piemontese è una lingua.
Poco prima del commiato mi chiede un favore. Dato che l’indomani partirò per l’Italia, non potrei fargli il favore d’imbucare per lui un plico, al mio arrivo a Roma? Contiene un manoscritto per il suo editore piemontese. Acconsento con vero piacere. Mi consegna il pacchetto. Gli do una sbirciata. Riconosco il nome del professore poliglotta nello spazio dell’involto dove è indicato il mittente. Vedo che però non è scritto nella maniera abituale.
“È il mio nome scritto in piemontese”, mi spiega. Mi accorgo che anche il nome e l’indirizzo del destinatario sono scritti in piemontese. Sto finalmente per andarmene, ma mi trattiene. “Non hai visto l’ultima mia pubblicazione?”
“No, non l’ho vista”, gli rispondo. Me la porge. Sono non meno di 100 pagine. Le sfoglio. Mi concentro qua e là su qualche riga, ma non ci capisco niente. “Di che lingua si tratta?”
Mi risponde con il tono che hanno i padri affettuosi quando parlano dei figli: “È in piemontese. Ma in vero piemontese: in piemontese sabaudo. Non in quello di oggi…”
Claudio Antonelli
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Proposta di approfondimento su Sergio Gilardino e il piemontese:
[vert]Sergio Gilardino e la differenza tra lingua e dialetto[/vert]
“Io parlo, leggo e scrivo il piemontese prima di tutto perché è la lingua dei miei genitori e dei miei antenati, secondariamente perché – tra tante lingue studiate ed utilizzate – è l’unica che mi sia veramente spontanea e, in terzo luogo, perché mi alimenta con una letteratura che è densa dei luoghi della mia infanzia, dei detti della mia gente, delle figure retoriche classiche, ma risonanti di vita radicata in un luogo, perché mi rigenera e mi salva dall’alienazione e dall’estraneamento. È lingua mia, fatta poesia. Senza il piemontese sarei letterariamente, identitariamente e linguisticamente solo una frazione di quello che invece mi sento di essere con questa lingua abbinata alle altre nel mio dialogo ininterrotto con popoli e scrittori”. Così Sergio Gilardino, cittadino canadese e grande conoscitore di lingue ancestrali, descrive la propria passione per il piemontese.
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