“Ghetto” è una parola fortemente simbolica, che come un fiume attraversa confini, culture e lingue diverse, epoche e orrori della storia. La associamo (istintivamente, senza troppe esitazioni) all’esclusione, all’emarginazione. È un filo che lega molte città europee, la Chicago dei quartieri “neri” della canzone In the Ghetto di Elvis Presley, l’Italia degli anni di piombo in cui Alberto Radius chiede lasciatemi nel ghetto ancora un po’ (“un lavoro non me l’hanno mai trovato”). E la Varsavia simbolo della Shoah, raccontata nel Pianista di Polanski, in cui il regime nazista ammassa la metà della popolazione cittadina (ossia quasi mezzo milione di persone) in un ventesimo della sua superficie, dando inizio al processo sistematico di deportazione e sterminio.
Siamo risaliti all’origine di questa parola con Donatella Calabi, storica dell’urbanismo, che su questa lunga storia (di esclusione ma anche di sopravvivenza e identità) ha scritto un magnifico libro, Venezia e il Ghetto, uscito in Italia per Bollati Boringhieri e in Francia, per Liana Levi, con il titolo Ghetto de Venise, 500 ans.
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Maurizio Puppo per Altritaliani: Il ghetto nasce a Venezia, cinque secoli fa. Nel 1516.
Donatella Calabi: La prima edizione del mio libro infatti è del 2016, in concomitanza con una mostra a Palazzo Ducale, di cui sono stata curatrice, nel cinquecentesimo anniversario dell’istituzione del Ghetto di Venezia, considerato il primo al mondo. L’editrice Liana Levi mi aveva chiesto un libro sugli ebrei a Venezia, quindi anche sulla storia del Ghetto: dalla creazione fino alla sua riapertura, all’arrivo delle truppe napoleoniche. Il libro fu pubblicato in Italia da Bollati Boringhieri e sul mercato anglosassone da Officina Libraria. Quest’anno Liana Levi mi ha chiesto di aggiornarlo per renderlo adatto a un pubblico più ampio. Allora io ho approfondito le relazioni degli ebrei del Ghetto con il resto della città (ad esempio attraverso aneddoti sulle infrazioni alle regole di segregazione) e con il resto dell’Europa (per mestieri, relazioni economiche e culturali). Nel mese di Aprile 2023, sempre dalla bella casa editrice Liana Levi, è quindi uscita la nuova versione francese del mio libro, ampliata e tascabile, con il titolo: Ghetto de Venise, 500 ans et des poussières.
La parola “ghetto”, poi diffusasi in molte lingue, nasce proprio in quel momento.
All’origine il termine non ha nulla a che vedere con la segregazione né con gli ebrei. Già nei documenti medievali quella zona è chiamata getto nostro de rame. Lì venivano gettate le scorie della lavorazione di una fonderia. Quando viene istituito il ghetto vero e proprio, la prima ondata migratoria in arrivo è di ebrei tedeschi, la cui pronuncia trasforma getto in ghetto. La parola, oggi, è associata all’esclusione, alla segregazione. Basta pensare ai ghetti neri di Chicago. Ma lavorando sui documenti storici, si vede che questa parola nasce con un’interpretazione più articolata, legata al cosmopolitismo di una città mercantile.
Perché a Venezia viene creato questo “recinto degli Ebrei” ?
Il ghetto nasce dall’atteggiamento della Repubblica di Venezia, nel XVI secolo, nei confronti delle comunità straniere. Sono considerate utili al funzionamento economico della città, ma allo stesso tempo c’è una volontà di controllo nei loro confronti, per timore dei conflitti che possono essere scatenati dalla compresenza ravvicinata di comunità diverse in una città di alta densità, come era Venezia nel Cinquecento. C’è il ghetto degli Ebrei, il Fondaco dei Tedeschi, dei Turchi, il quartiere dei Greci, la comunità degli Armeni. Ogni comunità aveva un ruolo importante, e pesi diversi, nella vita della Repubblica Veneta. In questo senso, l’istituzione di quartieri dedicati a una comunità, come è il caso del Ghetto, è da un lato un atto di esclusione ma anche un’offerta di garanzie. Francesco Sansovino, uno degli storici della seconda metà del Cinquecento, cronista che racconta Venezia, definisce il ghetto la vera “terra di promissione” per gli ebrei. Un’espressione retorica forte, il cui intento è laudativo nei confronti della città.
Se l’obiettivo era isolare la comunità ebraica, perché la scelta non cade su una delle isole dell’arcipelago veneziano?
Quando il consiglio dei Dogi stabilisce di isolare gli ebrei, la prima ipotesi in effetti è proprio di confinarli su un’isola. Ma la comunità ebraica è un interlocutore che dice la sua, e rifiuta questa ipotesi. E ottiene l’area del ghetto. Periferica ma nel contesto urbano.
Come si viveva nel Ghetto di Venezia?
Probabilmente non così male, visto che ci sono ondate migratorie da paesi diversi fino alla fine del Seicento. Certo, la notte, o in periodi importanti per i cristiani come la Settimana Pasquale, si devono chiudere le porte e gli Ebrei non devono andare in giro per la città. Ma le infrazioni sono frequenti. Inizialmente si era previsto che il ghetto fosse circondato da mura, che però non sono mai state costruite. Molte persone entravano e uscivano per rapporti di mestiere. I documenti riferiscono frequenti casi di infrazione, puniti con delle multe: ad esempio un panettiere di Santa Maria Formosa che vuole assolutamente vendere il pane azzimo e va in Ghetto per imparare. O gli ebrei tagliatori di diamanti che vanno a Rialto per mostrare come si fa. Le corporazioni veneziane hanno regole rigide, e quindi gli ebrei non vi possono entrare, ma tra loro e la comunità ebrea c’è sempre stato questo tipo di scambi. Siccome gli ebrei erano considerati bravi per la musica, molti di loro andavano nei palazzi privati a fare concerti. Una certa Rachele canterina, con suo padre e fratello, andava a cantare nelle case dei mobili. E commetteva un’infrazione terribile: si fermava anche la notte.
La Venezia del tempo è una città cosmopolita anche dal punto di vista culturale.
Venezia nel Cinquecento è uno dei luoghi più importanti per la stampa di libri in ebraico. Venivano stampati libri sacri, i Salmi, rifacimenti del Talmud, che venivano poi mandati in Grecia e a Costantinopoli. Un tipografo cristiano di nome Giustinian, con una tipografia importante a Rialto, non solo stampa libri in ebraico (e certamente non conosceva la lingua, quindi c’erano degli ebrei che uscivano dal ghetto per andare a lavorare con lui) ma realizza una dépendance nell’isola greca di Cefalonia, dove si stampano, di nascosto, senza l’imprimatur della Repubblica veneta, libri in arabo ed ebraico, destinati al mercato Ottomano.
Gli ebrei del ghetto vengono da luoghi diversi. Come parlano tra loro?
Difficile dirlo. L’ebraico conta fino a un certo punto. Gli ebrei si ritrovano tutti dentro a un recinto, ma in realtà a seconda delle origini sono molto diversi tra loro, per abitudini e modi di parlare. C’è il giudaico spagnolo, molto diverso dall’yiddish. Nel ghetto c’era una quantità incredibile di botteghe, tutte sicuramente casher, ma assai diverse tra loro. Frequentano sinagoghe diverse, vanno in botteghe distinte, e parlano lingue diverse. Sono convinta che non si capissero facilmente tra loro. A legarli non c’è solo l’ostilità altrui, ma anche la cultura della solidarietà. Gli ebrei hanno tra i loro doveri quello dell’assistenza. Ad esempio, c’era una casa per le fanciulle orfane, una per le vedove. Una specie di “welfare”.
Ci sono anche ebrei convertiti al cristianesimo. Che navigano tra le due identità.
Molti di volta in volta si fanno passare per ebrei o cristiani, per ragioni di mestiere. Segretamente continuano a essere ebrei, ma in pubblico, per convenienza, devono fare i cristiani. Ad esempio, diverse testimonianze riportano la storia di un vetraio nel Seicento ufficialmente cristiano, ma che torna ad avere abbigliamento e comportamenti da ebreo non appena passa vicino al ghetto. Questi episodi sono frequenti. Ad esempio ci sono due ragazzini, forse quattordicenni, dell’Europa dell’Est, uno boemo e l’altro cecoslovacco, che arrivano a Venezia, nel Ghetto. Sono dei poveretti, non hanno genitori, vivacchiano facendo mestieri di bassa lega, come portare l’acqua con i secchi a chi non ha il pozzo in casa, o sbattere i tappeti. La Casa dei Catecumeni, che a Venezia contava molto, offre loro un tetto. Ma i ragazzini fanno un sacco di gaffes. Uno di loro racconta, in una deposizione: mi hanno buttato dell’acqua in testa, ma non sapevo che era il battesimo. Finiscono in prigione perché giocando a pallone spediscono la palla sull’immagine della Vergine durante la processione. Peccato gravissimo. Uno dei due si cambia la camicia perché è sporca, ma lo fa di sabato, anziché di domenica come era d’uso per i cristiani.
Poi il Ghetto diventa una storia comune a molte altre città.
Ci sono tanti ghetti nelle signorie italiane: Ferrara, Modena, Parma, Mantova, Firenze, Siena. Nello stato Vaticano c’è un ghetto di Roma e uno ad Ancona, perché è un porto, e la presenza degli ebrei è importante per i traffici. A differenza di un’altra città portuale, Livorno, nello stato dei Medici, in cui c’erano gli ebrei ma non il ghetto.
Quante persone abitavano nel ghetto?
All’inizio circa settecento, nel Ghetto Novo che contrariamente al nome è il primo a essere istituito. Poi ci sono due aggiunte successive, il vecchio e il novissimo. Alla fine saranno tremila persone.
Le porte del ghetto vengono aperte quasi tre secoli dopo. Nel 1797. All’arrivo delle truppe di Napoleone.
È un momento importante, contrariamente a quanto pensino la maggior parte dei veneziani, visceralmente antinapoleonici. Napoleone dichiara l’apertura delle porte del Ghetto con una festa, di cui restano immagini e poesie, con gli ebrei che ballano attorno all’albero della libertà. È una data significativa anche per una ragione istituzionale: per la prima volta, il ghetto, area relativamente periferica della città, non deve più essere mantenuta dalla comunità ebraica, dall’università degli Ebrei, ma dalla municipalità. Il comune di Venezia si trova quindi a dover intervenire su strade, pozze, ponti, e a controllare la consistenza di edifici costruiti in partenza in modo precario. La densità abitativa era molto alta, con edifici altissimi, il che ha implicazioni importanti in una città come Venezia che ha un suolo sabbioso e case basse, con un’altezza tra pavimento e soffitto di due metri, due metri e venti.
Cosa succede dopo l’apertura del Ghetto?
La caduta della Repubblica è un momento di crisi per Venezia, e l’effetto dell’arrivo di Napoleone è duplice: da un lato il comune deve occuparsi del ghetto, di case che “minazano ruina”, come dicono i documenti, perché costruite male e praticamente abbandonate per tre secoli; dall’altro, alcuni famiglie di ebrei ricchi, banchieri o imprenditori, con crediti molto forti da parte degli aristocratici veneziani, riescono a investire nell’immobiliare. Prima nell’area vicina al ghetto, forse per ragioni di vicinanza alla sinagoga o di insicurezza, e progressivamente in tutto il contesto urbano. È il caso della famiglia Treves: banchieri che acquistano un palazzo importantissimo vicino a San Marco, sul Canal Grande. Comprano anche due statue importanti del Canova, la famiglia diventa la principale collezionista di arte moderna dell’epoca, cioè la pittura dell’800. Fanno ristrutturare i giardini di Padova a Giuseppe Jappelli. È un momento di modernizzazione del modo di intervenire sulle città.
Il ghetto di Venezia durante la II Guerra Mondiale.
Il mio libro si ferma all’Ottocento. Ma durante la II Guerra Mondiale ci sono stati 400 deportati. Erano stati portati via i testi sacri e i registri. Anche se il famoso rabbino Giuseppe Jona si era suicidato per non dare al regime fascista i registri con i nominativi dei membri della comunità. Dopo la Liberazione, c’è stato un ritorno commovente. Ci sono fotografie che mostrano la riapertura della sede, la riappropriazione del luogo.
Il Ghetto di Venezia oggi.
A Venezia ci sono circa 400 ebrei, non necessariamente nel ghetto. E c’è un aspetto un po’ pittoresco: ci sono comunità di Lubavitcher, immigrati recentissimi che vengono dagli Stati Uniti, o dalla costa meridionale del mediterraneo. Sono ebrei ortodossi che hanno relazioni difficili con il resto della comunità ebraica.
Cosa spinge un ebreo, oggi, a trasferirsi dagli USA a Venezia?
La riscoperta di una supposta originarietà del ghetto. Un ritorno alla terra promessa. È abbastanza incredibile. Gli ebrei della comunità storica sono di fatto integrati. Gli ebrei Lubavitcher invece sottolineano la loro diversità, dall’abbigliamento al comportamento.
Qual è il tuo rapporto con l’ebraismo?
Non sono iscritta alla comunità, non sono religiosa. La mia famiglia è ebraica per quattro quarti, ma nessuno di noi ha mai praticato la religione. Al massimo abbiamo conservato le abitudini alimentari, e neanche in modo molto rigoroso. Però ho riscoperto un sentimento di appartenenza soprattutto ricostruendo la storia della mia famiglia. Io sono nata in Brasile proprio a causa delle leggi razziali del regime Fascista. Mio padre aveva perso il posto di architetto dell’ufficio tecnico dell’Università di Padova (“famiglia di origini ebraiche”), e così decise di andare in Brasile. Lui parlava pochissimo di queste cose, ma ho trovato delle lettere nell’archivio dell’Università di Padova. Nel 1938 l’allora rettore, Carlo Anti, archeologo antichista di valore, che Bobbio definisce “un fascista tutto d’un pezzo”, aveva scritto delle lettere di raccomandazione agli architetti più fascisti che c’erano: Marcello Piacentini o Arnaldo Foschini, presidente del sindacato fascista degli architetti. Scriveva che c’era un giovane molto bravo, chiedendo di prenderlo a lavorare all’EUR. Scrive anche al governatore dell’Eritrea dicendo: questo architetto sarebbe disposto a lavorare nell’Impero. Gli rispondono tutti di no. La cosa che mi ha colpito in queste lettere è che di mio padre dicono sempre: “nonostante la razza”, è una persona perbene.
L’antisemitismo è un incubo della storia che a tratti riemerge con forza.
È così. Siamo in un periodo in cui le cose riesplodono.
Grazie da Altritaliani. A cura di Maurizio Puppo.
LINK INTERNO:
E così è nato a Venezia il primo ghetto ebraico della Storia, 500 anni fa… (articolo del 2016, a firma di Massimo Rosin) con un video YouTube di Donatella Calabi.