Io sarò controcorrente, ma voglio fornirvi una piccola, pratica raccolta di espressioni da bandire in italiano.
Delle due l’una. Usata da politici o giornalisti saccenti, aggressivi, petulanti, piccoli primi della classe convinti di mettere sotto scacco il loro interlocutore. (Che invece di solito se ne frega e risponderà a tono). “Delle due l’una, o è bugiardo o incompetente”. Chi usa questa espressione, di solito, delle due l’una: o è un cretino o è un cretino.
La lezione di. Usatissimo dai titolisti di Repubblica. “La lezione di” Biden, Greta, del virus, di Totti, di Papa Francesco. Di chiunque dica una banalità edificante: basta con l’egoismo, guardiamo al futuro, è il momento dei giovani, salviamo la terra. Insomma, la lezione della banalità.
Tanta roba. Odioso gergo da telecronisti sportivi furbetti e disinvolti. Sarebbe tanta roba smetterla.
Pancia a terra. Usata da politici in declino o giovanotti ambiziosetti, per acquisire meriti agli occhi dei potenti. “Abbiamo lavorato pancia a terra”. Espressione (come le altre varianti: parlare alla pancia. Ragionare con la pancia. La pancia del Paese. Malpancisti) che si addice a politici, giovani o meno, con la pancia e piuttosto terra-terra.
Con chi ci sta. Strategia di approccio sessuale usata da molti. (E a cui il sottoscritto non è stato, se vogliamo, completamente estraneo). In politica (“subito con chi ci sta”), significa che non ti considera nessuno, ma nemmeno di striscio. Da non usare mai. Neanche con chi ci sta.
Di cosa stiamo parlando. Espressa con tono definitivo, indica assenza di capacità di elaborazione, mancanza di ascolto e rispetto per l’eventuale parere dissenziente. Figuriamoci se una persona intelligente parla così, ma di cosa stiamo parlando?
Chiuso il discorso. Come la precedente. Se il discorso è chiuso, e sai tutto tu, perché mai stai parlando con me? Parla da solo allora, scusa. È chiuso il discorso.
Io sto con. Charlie. Il personale ospedaliero. Greta. Gli ultimi. Chi la usa vuole mostrarsi generoso, sensibile, giusto in un mondo popolato da bastardi egoisti. Io sto con chi non dice «io sto con».
Narrazione. All’origine, parola bellissima: l’arte antica del racconto. Nel significato moderno, massmediatico, è stata portata alla ribalta da Nichi Vendola. “Ci vuole la narrazione”. “La sinistra è orfana di una narrazione”. Nella variante anglofona di storytelling, diventa buona per sinistri e spietati corsi manageriali. Quando in politica non si sa cosa dire, si dice che ci vuole una nuova “narrazione”. La narrazione del nulla.
Chiedo per un amico. Modo furbetto di porre domande ritenute scomode o imbarazzanti (e che invece non lo sono per niente) attribuendone scherzosamente la responsabilità a qualcun altro. Va bene una volta. Due. Ma alla terza, lo avete capito che non fa più ridere? Chiedo per un amico.
Macelleria sociale. Si indicano in questo modo, con vibrante sdegno, le riforme fatte dai propri avversari politici, e che di solito nessuno poi si ricorda di abolire o cambiare una volta arrivato al governo. Perché la macelleria sociale, c’est les autres.
Resilienza. Per resistere all’inflazione di questo termine orripilante, ci vuole grande capacità di resistenza. Di resistere all’urto senza rompersi (i cosiddetti). Insomma, di resilienza.
In un paese normale. Frase cara, un tempo, a D’Alema. O a Nanni Moretti, nella versione auto-denigratoria (“l’unico paese del mondo”). In un paese normale non sarebbe permesso a un politico di possedere tre reti televisive etc etc. Ma invece di parlarne tanto, per anni, di farci sopra film, libri e sceneggiati, sarebbe bastato fare una legge sul conflitto di interessi. Come in un paese normale.
Senza se e senza ma. Frase diventata di moda all’inizio del terzo millennio nel dibattito interno alla sinistra. Contro l’intervento militare senza se e senza ma. Contro la riforma, senza se e senza ma. Ma il confronto con gli altri, la tolleranza, il cartesiano dubbio fondativo della moderna civiltà, io credo che siano fatti anche, se non soprattutto, di se e di ma. Ne sono convinto senza se e senza ma.
Piuttosto che. In italiano, equivale ad “anziché”. Se ho un problema di salute, mi rivolgo a un medico piuttosto che a un mago. Vuol dire che vado dal medico e che non vado dal mago. Negli anni Novanta del secolo scorso invece è accaduta una cosa orribile. Dalle parti di Milano, nel mondo delle aziende e degli affari. E l’espressione ha cominciato a essere usata in modo disgiuntivi: cioè come equivalente di “oppure”. Uehilà ragazzi, io i fine settimana mica sto a Milano, se non faccio il safari in Tanzania li passo a Portofino piuttosto che a Cortina. Usata in questo modo, vuol dire che un po’ vado a Portofino, un po’ a Cortina, e che ci tengo a farlo sapere a tutti. Milano è una città efficiente e dinamica, in cui anche l’ignoranza diventa un prodotto chic e uno status symbol. Da usare nel significato originale piuttosto che quello moderno.
Un attimino. L’attimo non è abbastanza piccolo. Ci vuole l’attimino. Il momentino. Tu stai lì da tre ore al freddo ad aspettare e lei ti dice: un attimino. Come dire, andiamo, un po’ di pazienza, per così poco. Oppure: nel sugo poi ci metti un attimino di pepe. Qui ci vuole un attimino di attenzione. Come dire, un nonnulla. Nonnulla è bellissimo. Attimino orrendo. Aspetto che si torni all’uso di nonnulla, ma mi sa che ci vuole ancora un attimino.
In qualche modo. Espressione molto utilizzata da Adriano Sofri, che tutto sommato se la può permettere, ma purtroppo anche da tanti molto meno bravi di lui. Sostanzialmente significa: sto parlando di una cosa complessa di cui capisco poco. Però ne parlo lo stesso. In qualche modo.
Quant’altro. Fa il paio con la precedente. Per far capire che, volendo, si potrebbe sciorinare una lista dettaglia, indice di grande preparazione. Non lo si fa per delle ragioni ben precise. E quant’altro.
Shock. Altra parola molto usata da titolisti privi di fantasia. Proposta shock. Dichiarazione shock. Notizia shock. Il governo propone sempre misure shock per l’economia e la disoccupazione. Solo che l’economia e la disoccupazione non se ne accorgono mai. Vedere come i giornali cerchino di drammatizzare notizie e dichiarazioni banali e destinate subito all’oblio, per me è uno shock.
Tutta la vita. Indice di preferenza lapidaria, assoluta, immodificabile, usata in risposta a domande banali e prive di interesse. Preferisci il mare o la montagna? “Il mare tutta la vita”. Quando ero ragazzino, ricordo che mia zia mi diceva: d’estate la gioventù bella se ne va al mare. Mentre me lo diceva, eravamo in montagna. Non so se mia zia volesse farmi capire qualcosa. Io comunque preferisco il mare tutta la vita.
In direzione ostinata e contraria. Tratta da una canzone di de André, è diventata una medaglia che molti si appuntano al petto da soli, per indicare il proprio presunto anticonformismo e smisurato idealismo. La usano tutti, al punto che viene da chiedersi se quella direzione contraria non sia piuttosto affollata. Io invece non la uso, vado in direzione ostinata e contraria.
E qui concludo. Usata da oratori verbosissimi, logorroici, che prendono la parola e non la mollano più. E per giustificare la propria lungaggine, ogni tanto dicono: e qui concludo. Normalmente, dovrebbero smettere di parlare all’istante. Invece non concludono; continuano per ore, incuranti dei loro interlocutori che non ne possono più. E qui concludo.
Sarò controcorrente ma. Usato per dire “io sono «diverso». Di solito da chi ripete luoghi comuni adottati da schiaccianti maggioranze. O da chi non ha capito di cosa si sta parlando e quindi va fuori argomento. La variante “fuori dal coro” è spesso usata da giornalisti o politici potentissimi, frequentatori instancabili delle stanze del potere. Io sarò controcorrente ma queste espressioni mi danno subito voglia di scappare e non vedervi più. Mai più.
Maurizio Puppo
(nel logo: Dylan Dog, l’indagatore dell’incubo, in una serie a fumetti edita in Italia dalla Sergio Bonelli Editore e incentrata sull’omonimo personaggio creato da Tiziano Sclavi).
Commenti in fondo alla pagina
Vorrei « un attimino » complimentarmi anch’io con Lei: bell’idea e bell’articolo ! Accidenti, abbiamo usato anche noi (ma solo una volta) l’espressione (carina però…!) « senza se e senza ma », parlando di cure mediche, incondizionate (focus su Gino Strada). Ma non dimentichiamo il valore del dubbio in mille altri casi! Perdonati?
Direi “assolutamente si”
Bravissimo, e molto spiritoso. 😊
Le frasi fatte
Ho voluto fare, per voi, un breve inventario di certe frasi fatte e direi « ben fatte », autogratificanti e buone per ogni occasione, di cui tutti noi ci serviamo. E ad esse noi ricorriamo senza accorgerci di denunciare i limiti evidenti della nostra psiche e gli ampi confini della nostra vanità. Lo scopo di queste frasi tipiche italiane è di « portare avanti il discorso… »; un discorso beninteso in cui ciò che conta non è lo scambio d’idee ma l’autopromozione di chi per primo ha la prontezza di far ricorso a queste frasi « passe-partout ».
« Sì però… »
Cominciamo con il modesto “Sì, però… » che ci permette di non sembrare negativi, anche se in realtà intendiamo dire: “Dimmi quello che tu vuoi, ma io penso in maniera un po’ diversa. Anzi ad essere sincero, penso proprio il contrario di quello che mi stai raccontando. »
« Non so se mi spiego… »
L’icastico intercalare “Non so se mi spiego…” vuol dire semplicemente: “Io mi sto spiegando molto chiaramente… Ma non penso che tutti – tu compreso – possiedano l’intelligenza necessaria per capire la verità di quello che sto dicendo con tanta convinzione e chiarezza. Affrettati quindi a riconoscere che ho ragione, senza che io debba sgolarmi! »
“Sì, però adesso anche in Italia…”
“Sì, però adesso anche in Italia…” è una frase il cui compito principale è di contraddire l’interlocutore. Si fa ricorso ad essa per respingere le argomentazioni di chi, provenendo dall’estero, racconta che le cose, nel paese dove lui ormai vive, sono sostanzialmente diverse da come – egli constata – esse si svolgono in Italia. Quindi è inutile che voi, in vacanza in Italia, vi mettiate a raccontare che in Canada le cose sono molto diverse. Colui che vi ascolta, da buon italiano, è pronto, sì, a parlare in qualunque momento male dell’Italia, ma nello stesso tempo arde dal desiderio di aver ragione e quindi se voi, convinto di interessarlo, gli raccontate di certe caratteristiche del Canada e dei canadesi, lui immediatamente vi correggerà precisando: “Sì, però anche da noi le cose non sono più come prima, e quello che tu mi stai raccontando succede ormai anche da noi in Italia…” Il fisco è molto severo in Canada? “Sì però adesso anche in Italia…” Chi in Canada supera i limiti di velocità, dopo non molto provoca l’intervento della polizia? « Sì, però adesso anche in Italia… » In Canada guai a non voler aspettare disciplinatamente in coda? « Sì, però adesso anche in Italia… »
« Io qui non ci vivrei! »
« Io qui non ci vivrei! » permette all’italiano di elevarsi al di sopra di un’area geografica, una città, un Paese intero, persino un continente, poiché la frase sottintende: « Quelli che qui vivono sono inferiori a me. » È una sentenza di condanna, insomma, che noi emettiamo da visitatori frettolosi che non hanno capito niente di quell’angolo di mondo che frettolosamente stiamo visitando e nel quale nascono, vivono e muoiono milioni di esseri umani, assai simili a noi. In certi casi, ma molto più ridotti, il « qui io non ci vivrei! » può essere un’affermazione utile per nascondere, invece, l’invidia verso un posto nel quale noi ci vivremmo eccome, se solo ne avessimo la possibilità. Possibilità che purtroppo non abbiamo… Ma ci guardiamo bene dal fare questa confessione. E allora non ci resta che abbassare il luogo in questione con questa utile « frase fatta » che ci innalza al di sopra di tutti…
« Il vero problema… »
Il « vero problema » per il vostro interlocutore è immancabilmente un altro e non quello che preoccupa voi, e che voi gli state penosamente esponendo… Gli italiani eccellono nel ricorso al sofisma del « vero problema » che permette loro di demolire qualunque cosa l’altro stia dicendo, dal momento che le idee di quest’ultimo – e ti pareva – riguardano un falso problema. E qual è allora questo vero problema? È colui che per primo brandisce la frase del « vero problema » a stabilire quale sia in definitiva il vero problema. E nelle discussioni all’italiana, dal barbiere, al bar, in TV o al parlamento, è tutto un parlare esagitato del vero problema. E per ognuno dei partecipanti alla discussione, il proprio « vero problema » diverge dal falso « vero problema » altrui.
« Bisogna fare qualcosa! »
« Bisogna far qualcosa… » è una frase che udii spessissimo durante un triste periodo della mia vita quando tornai dal Canada in Italia per far fronte ad un serio problema familiare. Ma dovetti rendermi ben presto conto, con costernazione, che il voler « fare qualcosa » di tanti – conoscenti o amici – si riduceva, nei fatti, a un « Parliamone, Claudio! Raccontami tutto, perché sono curioso, anche se vedo fin d’ora che non potrò fare nulla per aiutarti ». Perché, quando si tratta di problemi altrui, l’italiano medio vuol, sì, fare assolutamente qualcosa, ma questo « qualcosa » per lui è soprattutto parlare, parlare… Parlarne all’infinito. Parlarne facendo possibilmente ricorso ad altre frasi fatidiche del conformismo verbale italiano, quale ad esempio: « Ma tu ti sei mai chiesto perché…? » I punti sospensivi sono da completare con il problema che affligge voi e che il vostro interlocutore si affretta ad attribuire, implicitamente, attraverso questa frasetta, alla vostra intera responsabilità.
« La società è malata… »
« La società è malata… » La tremenda diagnosi è ricorrente. Quale società? La società nella quale vive colui che emette la triste sentenza. E non c’è società dalla più ricca alla più povera, che non sia giudicata « malata ». E per quale ragione è giudicata malata? Per le ragioni più diverse. Quindi « una società che permette che avvengano ‘queste cose’ è una società malata… » E « queste cose » sono le più disparate. La denuncia della società malata permette a chi la emette d’indossare il camice del medico-specialista. Un medico cui, in verità, io non affiderei la cura di un mio caro…
« Generazione perduta » (« sacrificata »)
« È una generazione perduta! » Quale? A giudicare dall’uso ricorrente che si fa, in ogni paese e in ogni epoca, di questa lugubre, apocalittica, stupida frase, si direbbe che la sola generazione « non sacrificata » o « non perduta » sia stata la generazione che ha preceduto immediatamente quella « sacrificata ». Si dimentica che anch’essa invece fu, a suo tempo, dichiara « perduta » innumerevoli volte e per le cause più varie che però nessuno oggi ricorda. L’unica cosa « perduta » oggi sono le ragioni che ci spinsero, ieri, a parlare di « generazione perduta ».
La « comunità internazionale »…
« La comunità internazionale dovrebbe intervenire… » altra formula trasudante senso etico, sdegno e compartecipazione degli affanni altrui, e ciò sul piano mondiale. Giusto, sacrosanto: la comunità internazionale dovrebbe intervenire per impedire certe gravi ingiustizie. Ma occorrerebbe prima creare questa comunità internazionale, che non è mai esistita e che non penso stia per nascere in un futuro prossimo o lontano.
« Disapprovo… ma difenderò fino alla morte… blablablà… »
La citazione della frasetta falsamente attribuita a Voltaire: « Disapprovo ciò che tu dici, ma difenderò fino alla morte il tuo diritto di esprimerti… » dilaga attraverso il pianeta. La si trova quasi sempre in bocca a gente molto intollerante che vuole in realtà mettere sotto, moralmente, l’interlocutore tramite questa falsa generosità diretta semplicemente a far apparire superiore colui che la pronuncia per primo. Perché in realtà occorrerebbe combattere sì, anche fino alla morte, ma proprio per impedire ai tromboni di pavoneggiarsi con queste dichiarazioni di falsa tolleranza, di generosità fasulla e di eroismo cialtrone… Provate per un istante ad attentare alle verità storiche sanzionate per legge in diversi paesi, insomma azzardatevi ad essere solo un po’ revisionisti nei confronti di certi tremendi avvenimenti della seconda guerra mondiale, e vedrete che solo il vostro avvocato di fiducia oserà difendervi, dietro lauto compenso, cercando d’impedire, senza riuscirvi, la vostra rapida, ineluttabile « morte civile », o anche peggio.
« Te l’avevo detto io! »
“L’avevo detto io”… o « »Te l’avevo detto io! » È la frase cui tutti noi ricorriamo con voluttà, quando possiamo; il che, purtroppo, avviene molto spesso, anche se per egoismo, per cretineria e narcisismo questa è la frase suprema. Ma ogni volta che la fortuna permette a qualcuno di pronunciarla, il « L’avevo detto io! » gli causa una tale ebbrezza di felicità, che anche l’evento luttuoso, la disgrazia, la catastrofe, che lui, per « lungimiranza e straordinaria intelligenza » aveva vaticinato, gli appare come una vera benedizione del cielo. Per lui e solo per noi…
Attraverso questo « Te l’avevo detto io… » – torno a ripetere – anche chi aveva previsto un lutto o un disastro, oggi si frega le mani gongolante, incapace di nascondere il proprio trionfo. Chi dice che la felicità non esiste? Esiste, sì, e forse non vi è frase al di fuori di questa che ne attesti con altrettanto vigore l’esistenza.
Osservazione finale.
Basta leggere i quotidiani della penisola o guardare la TV italiana, anche solo un paio di volte, per rendersi conto di certi elementi patologici della maniera in cui in Italia vengono trattati gli avvenimenti di cronaca, di politica, o di altra natura. I mass media svolgono la funzione che hanno nelle discussioni il bar, l’ombrellone da spiaggia, il salone del barbiere, o il parlamento: fungono da luoghi deputatati e da cassa di risonanza per discussioni concitate in cui tutti vogliono avere ragione. Tutti, dal più umile portaborse ai politici di spicco, propongono una soluzione al problema dell’ora, italiano o mondiale.
Tutto lo spazio disponibile, sulle onde o sulla pagina scritta, è consacrato in Italia al tema del momento, che naturalmente dà la stura al gusto dell’esagerazione e dell’allarmismo ad oltranza che caratterizzano, all’unanimità, gli italiani. Poi il giorno dopo si passa ad altro. Subentra infatti un nuovo fatto capace di eccitare le corse vocali e di incitare gli “spettatori” al protagonismo- narcisista. E quindi di nuovo tutti a parlare, parlare…