Con gli autori Donatella Alfonso e Massimo Razzi, parliamo degli Anni di Piombo e del libro «Uccidete Guido Rossa. Vita e morte dell’uomo che si oppose alle Brigate rosse e cambiò il futuro dell’Italia», uno degli episodi più drammatici della storia italiana recente. Un’intervista a cura di Maurizio Puppo.
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Oggi è un giorno di quarant’anni fa. 24 gennaio 1979, Genova. Di ponente, dove son nato e cresciuto: proletaria, industriale, d’uomini destri, Ansaldo San Giorgio Sestri. Le case, le chiese (le parrocchie, le sezioni del PCI). Le fabbriche. Alle 6 e mezza del mattino, un operaio dell’Italsider, Guido Rossa, esce di casa e muore. Gli spara un “commando” delle Brigate Rosse (Riccardo Dura, Vincenzo Guagliardo, l’autista Lorenzo Carpi). Rossa, tre mesi prima, aveva denunciato un collega, Francesco Berardi, che diffondeva in fabbrica volantini brigatisti. Ci sono tanti fantasmi, in questa storia che è la nostra. Le radici del terrorismo nel mito della “resistenza tradita” (i partigiani che invece di “fare il socialismo” hanno “fatto” la democrazia). Il linguaggio dei comunicati delle BR (“brigatese” per la Treccani): “Risoluzione”, “Direzione Strategica”, “attacco al cuore dello “Stato Imperialista delle Multinazionali”. La “zona grigia” (perché la realtà non è sempre fatta del bianco o del nero che piace a noi), quelli che non militano nelle BR ma provano interesse e simpatia per le loro tesi, anche se magari la esprimono solo al bar: “fanno bene”. Il ruolo del PCI e del sindacato. Che a un certo punto dicono: basta, non è più sufficiente il patto di Stato fatto con la DC al momento del sequestro Moro. Adesso occorre separare definitivamente il grano dal loglio dove c’è quella famosa zona grigia. (Cioè nelle fabbriche del triangolo industriale, a Milano, Torino e Genova). E occorre confermare il solco della tradizione togliattiana: il quadro in cui svolgere la lotta politica è la democrazia. Infine, tra i tanti fantasmi, c’è quello dei brigatisti. “Fascisti mascherati” per qualcuno (modo comodo di sbrigarsela), “compagni che sbagliano” per altri. Forse “utili idioti” al servizio di complotti per favorire restaurazioni. Fotografie dell’album di famiglia, come ha scritto Rossana Rossanda, con espressione folgorante.
Tre giorni dopo la morte di Rossa, ci sono duecentocinquantamila persone (così la storia) in piazza de Ferrari. Sotto la pioggia, stanno in silenzio e nel farlo dicono una cosa precisa. E cioè che la democrazia è una cosa imperfetta, altroché (“e a farle i complimenti, ci vuole fantasia”, canterà anni dopo Gaber). Ma nonostante tutto (nonostante tutto, e ci siamo capiti), resta una conquista da difendere. Una cornice che non garantisce e non protegge dall’ingiustizia, ma in cui si può fare qualcosa per ridurre le diseguaglianze e migliorare le condizioni di vita.
Sotto quella pioggia in bianco e nero, e tra quei fantasmi, finiscono gli anni Settanta. Cominciati nel 1969, con la bomba di Piazza Fontana. Un anno dopo, all’alba degli anni Ottanta, uno dei componenti del commando che ha ucciso Rossa, Riccardo Dura, sarà ammazzato dai Carabinieri, assieme ad altri tre brigatisti, nel covo di via Fracchia. A cento metri dalla casa di Rossa e dal punto in cui è stato ucciso.
Questa storia invece non è ancora finita e mai lo sarà. Adesso ce la raccontano Donatella Alfonso e Massimo Razzi. Giornalisti, scrittori. In un bellissimo libro : «Uccidete Guido Rossa» (Castelvecchi editore). Ce ne hanno parlato a Parigi, ospiti della Maison d’Italie e poi dell’Associazione Democratici. E adesso, in questa intervista.
INTERVISTA
Maurizio Puppo: La vasta zona grigia. Cosa succede, a Genova, in quegli anni e in particolare tra l’ottobre 1978 e il gennaio 1979 ?
Donatella Alfonso: A Genova si costituisce la prima banda armata (la banda Rossi poi diventata XXII Ottobre), c’è il rapimento del giudice Sossi, l’assassinio del procuratore generale Coco. E poi, dopo l’assassinio di Moro, all’interno del PCI e della CGIL (e in particolare della FIOM, sigla sindacale dei metalmeccanici) c’è grande attenzione, e una mobilitazione per capire se nelle fabbriche c’è una presenza di brigatisti o persone a loro vicine. Perché nelle fabbriche esisteva una vasta zona grigia di persone che potevano essere interessate ai temi delle BR. Molti sindacalisti e attivisti prendono parte attiva a queste ricerche e sono disponibili a dare informazioni alla polizia. Uno di questi è un operaio di 44 anni, si chiama Guido Rossa. È un aggiustatore meccanico, un operaio più che specializzato. Alpinista, iscritto al PCI, autodidatta che legge, appassionato di fotografia e tante cose. Uomo molto stimato sia nel partito sia nel sindacato, anche per la capacità di dialogo con i giovani e per la sua chiarezza nell’analizzare e spiegare le cose. Il 25 ottobre 1978 Rossa, che è uno dei delegati sindacali dell’Italsider, viene chiamato da altri operai che gli consegnano dei volantini. Manifestini di propaganda brigatista, ritrovati all’interno dell’officina. A diffonderli è stato un altro collega, che si chiama Francesco Berardi.
M.P.: Chi è « il prigioniero politico » Francesco Berardi?
D.A.: Si comincia a cercarlo all’interno della fabbrica (Berardi è uno che gira i reparti in bicicletta), quando viene trovato dice: “mi dichiaro prigioniero politico”. È la conferma che Berardi è un brigatista a tutti gli effetti. A questo punto Guido Rossa viene invitato dalla vigilanza della fabbrica a firmare una denuncia. Ed è questo l’elemento che per le BR farà di Rossa un “infame”. Berardi è un personaggio abbastanza curioso. Uno che racconta cose strane, non si sa se vere o inventate, ad esempio dice di essere stato rapinato sul treno per Istanbul. Ha militato nel PCI e in Lotta Continua, si è avvicinato ai gruppi extra parlamentari, poi (dice chi lo conosce) si è messo a credere sinceramente nelle posizioni delle Brigate Rosse. I suoi ex colleghi di lui dicono che racconta sempre cose un po’ esagerate. Durante le assemblee dice che le BR hanno ragione e bisogna appoggiarle. La reazione che suscita però non è di preoccupazione; gli altri lo consideralo un esaltato, uno che parla a vanvera.
Massimo Razzi: Nel suo libro “Armi e bagagli – Un diario dalle Brigate Rosse,” Enrico Fenzi (professore universitario a Lettere, condannato nel 1981 per militanza nelle BR, da cui si è dissociato nel 1982, ndr) racconta di un incontro con un capo delle BR a Genova, forse Rocco Micaletto (membro del Comitato Esecutivo e dirigente delle colonne di Torino e Genova, arrestato nel 1980, ndr). I due parlano di Berardi. Fenzi sembra esaltato, “finalmente abbiamo reclutato un operaio”, e Micaletto risponde qualcosa del tipo: “mi dicono tutti che è scemo”. Quel che è certo è che Berardi era un personaggio ai limiti. Che nello stabilimento ogni tanto venissero ritrovati dei volantini delle BR è sicuro, che Berardi fosse considerato uno dei possibili volantinatori è probabile. Però questa volta la situazione era cambiata, PCI e sindacato avevano detto basta. E infatti, di fronte ad uno come Guido Rossa, che non aveva nessuna intenzione di far finta di nulla, Berardi viene quasi subito individuato. Viene interrogato dalla vigilanza interna (per errore: il sindacato aveva deciso che episodi di quel tipo dovevano passare prima per il Consiglio di Fabbrica), e si dichiara (abbastanza inopinatamente) prigioniero politico. Quasi non vedesse l’ora. Passano alcuni giorni e in fabbrica si discute cosa fare. Una parte del sindacato (soprattutto la FIM, dove si trovavano i cattolici e anche molti extraparlamentari) è poco propensa alla denuncia. Alla fine Guido Rossa in tribunale ci va da solo, o meglio, accompagnato da poche persone. Durante il processo avviene uno strano episodio. A un certo punto Berardi indica Guido Rossa a qualcuno che è in aula, e fa un segno, come a dire “tagliare la gola”. Un segno di eliminazione. I giornalisti se ne accorgono. Una collega dell’Unità, Rossella Michienzi, si accorge anche di chi è la persona a cui è rivolto il gesto. Ne va a parlare con un magistrato che conosce bene, al pomeriggio, durante l’udienza, e racconta quello che ha visto. Le fanno vedere le foto delle persone in aula; ma la persona a cui è stato rivolto il gesto non c’è. In tribunale alcune persone non venivano fotografate, avevano un un tesserino che li proteggeva dal rischio di essere identificati. Questa cosa si è saputa, i giornali ne hanno parlato; ma nessuno pensava davvero che si potesse andare verso una vendetta.
M.P.: Nel vostro libro, a Fenzi è attribuita questa frase: “Riccardo Dura non avrebbe mai ucciso un operaio se all’interno dell’Italsider non gli avessero detto che si poteva fare”.
D.A.: Il discorso della zona grigia è proprio questo. A Genova, nell’Italsider, ci sono persone considerate vicino ai brigatisti ma non degli operativi della colonna genovese. Però le indicazioni ai brigatisti per sapere chi fosse Rossa, dove abitava, quelle sono arrivate dalla fabbrica. Nel famoso covo di Via Fracchia (strategico tra altre cose perché a 100 metri dalla casa di Guido Rossa e altrettanti dal punto in cui è stato ucciso), al centro di questo triangolo del quartiere di Oregina, sulle alture di Genova, vengono trovate 3500 schede di persone che potrebbero essere obiettivi delle BR o “nemici del popolo”. Per arrivare a 3500 schede ci vuole una quantità di persone che ti diano informazioni in tutti i settori.
M.R.: Detto onestamente, quello che dice Fenzi è una belinata (sciocchezza in genovese, ndr). Riccardo Dura non risulta abbia detto a nessuno delle sue intenzioni.
D.A.: A parte Berardi, in Italsider l’unico brigatista riconosciuto come tale è Angelo Rivanera. Arrestato e poi prosciolto. (Aveva preso uno sbandata per Isabella Ravazzi, moglie di Fenzi).
M.R.: La colonna genovese delle Br alla fine si rivelò molto fragile. La Digos arrestò 63 brigatisti e 48 si pentirono. Erano sanguinari e uccisero tante persone del tutto inutilmente, ma dal punto di vista politico non ne azzeccarono una. E uccidere Guido Rossa fu l’ultimo e il più grave dei loro errori. Però, nonostante tutto, era abbastanza improbabile che qualcuno di quella colonna potesse andare a dire in giro, a dei fiancheggiatori, o a Berardi, di uccidere Guido Rossa. Fenzi del resto in altri momenti si contraddice: dice che non sapeva che le BR avrebbero ucciso Rossa. Anzi, dice proprio che dovevano limitarsi a gambizzarlo, o rapirlo e legarlo a un cancello dell’Italsider.
M.P.: Chi ha detto: Uccidete Guido Rossa?
M.R.: Quello che si sa è che c’è stata una riunione della direzione di colonna. Poche persone. Rocco Micaletto e alcuni altri, tra cui Riccardo Dura. Decidono cosa fare, e poi chiedono il parere della direzione strategica nazionale. Secondo Moretti, non erano tutti d’accordo sulla decisione da prendere. Qualcuno della direzione nazionale, forse Moretti, potrebbe avere detto a Riccardo Dura, in separata sede: la decisione è di ferirlo, ma tu uccidilo. C’era un’area grigia di gente che al bar la sera diceva: “Belin, le BR hanno ragione”. Ma questo non vuol dire molto. Non si può pensare che le BR organizzassero il ferimento di Rossa dicendolo in giro. Si sarebbe saputo in tre giorni. Riccardo Dura decide per conto suo? Perché glielo ha detto qualcuno? Questo è il mistero. Secondo dei brigatisti pentiti della colonna genovese, Dura magari l’aveva detto, o lo pensava, che sarebbe stato giusto ucciderlo, ma doveva limitarsi a gambizzarlo. Invece Dura ammazza Rossa, quindi commette un errore grave; e poi viene nominato capo della colonna.
D.A.: E non esiste che uno che ha rischiato di mettere la colonna in una condizione difficile, contro tutti, venga “premiato”.
M.P.: Gli opposti estremismi. A Genova nel 1970, in una villa sul mare di Boccadasse, si era parlato di colpo di stato.
D.A.: In realtà a Genova in quegli anni non c’è una presenza molto forte di estremismo di destra. Anche se è proprio a Genova che muore Ugo Venturini, ucciso per sbaglio, tranviere iscritto al MSI. Colpito da una bottiglia a un comizio di Almirante (la sera prima la banda Rossi aveva fatto la prima interferenza di radio Gap chiedendo di boicottare il comizio). e morto di tetano dopo due settimane., nell’aprile 1970. Viene considerato il primo morto degli opposti estremismi.
M.R.: L’unico possibile legame tra la vicenda di Guido Rossa e quella di Capo Santa Chiara, (in una villa di Capo Santa Chiara, nel 1970, c’è una riunione di sostenitori del progetto di colpo di stato di Junio Valerio Borghese, ndr), è questo: il segretario regionale del PCI Bisso avrebbe affidato a Rossa il compito di tenere sott’occhio tutti i due lati del problema in Italsider. Da un lato, tra gli operai, i brigatisti; dall’altro, tra i dirigenti, eventuali simpatizzanti di destra che potessero essere coinvolti nell’episodio del golpe. Ma in realtà mi sembra difficile che le vicende siano collegate. Un’altra lettura di tipo “complottistico” è che a livello internazionale ci siano state pressioni su Moretti perché si arrivasse a una cosa così grave da portare alla distruzione finale delle BR stesse. Ma sinceramente mi sembrano ipotesi tirate per i capelli. Possibile anche che Dura abbia potuto decidere sul momento. Magari perché ha capito che Rossa avrebbe potuto riconoscerlo.
M.P.: “Saldare gli obiettivi di sviluppo economico con quelli di trasformazione democratica”. Una frase dei diari di Rossa. Scritta da un operaio autodidatta.
D.A.: Questo era il risultato delle scuole di partito. Che oggi non ci sono più, ed è un grande limite. Le scuole di partito garantivano il livello di preparazione dei quadri intermedi della politica e del sindacato.
M.R.: Rossa ha una grande capacità di analisi. Da una parte è severamente deciso a denunciare le BR; dall’altra però è consapevole che se partito e sindacato non riescono ad affrontare e risolvere i problemi di occupazione e condizioni di vita in fabbrica, c’è un grave rischio che persone o aree della sinistra e del movimento operaio si avvicino alle posizioni brigatiste. Il suo allarme è quello: alcuni dei temi sollevati dalle BR possono attirare la gente, perché anche se sono soluzioni semplicistiche, toccano problemi reali, gravi.
M.P.: Nel libro si ricorda un’altra frase: “La fabbrica non era l’inferno ma spesso gli assomigliava”.
D.A.: L’Italsider era una fabbrica gestita in maniera un po’ paternalistica. Stava molto attenta al “welfare”, con colonie, gruppi per il tempo libero, teatro. Ma l’altra faccia della medaglia era il lavoro nell’altoforno. Gianni Barabino, collega di Rossa, racconta di quando lo hanno assunto e si è trovato davanti a delle temperature di 1200 gradi. La gente stava male, gli incidenti sul lavoro erano tantissimi.
M.R.: Che in fabbrica non fosse una bella vita, è chiaro. Però i lavoratori dell’Italsider di quel tempo non avevano la percezione precisa di vivere in una situazione drammatica dal punto di vista della salute. E il sindacato tendeva a dire che quello che contava erano i posti di lavoro.
M.P.: Come hai fatto a diventare così? Donatella, nel tuo libro “Animali di periferia” (Castelvecchi) sembra che ci sia quasi tenerezza per Mario Rossi, Augusto Viel e gli altri della XXII Ottobre (primo gruppo extra-parlamentare a passare alll’azione terroristica, ndr). Qui la tenerezza è per Rossa. Che non era un animale di periferia e quelli come Rossi li disprezzava. (in realtà, la domanda è suggerita da Gianni Priano, insegnante di filosofia e scrittore, ndr).
D.A.: Empatia apparente. Io racconto delle storie. Un occhio disincantato racconta le persone. Non prendo una posizione né su Guido Rossa – di cui per inciso non posso che avere la massima stima – né su Mario Rossi della XXII Ottobre, a cui ritengo sia stato giusto e necessario dare voce.
M.R.: A me è capitato di scrivere un libro sul contrabbando di sigarete, il re delle bionde. Mi hanno accusato di avere simpatizzato per lui. Poi sai, se incontri Mario Rossi per la strada o al bar, lo trovi simpatico.
D.A.: Mario Rossi è uno che ti dice: “ho ucciso una persona, e ho pagato, e comunque non ero un terrorista ma un cospiratore contro il golpe”. Quelli della XXII Ottobre avevano forti limiti, non riuscivano neanche a fare un attentato perché mettevano la sigaretta sbagliata per cui non si accendeva neanche la miccia di un candelotto.
M.R.: Nel libro su Rossa, può uscire una certa mia simpatia per Lorenzo Carpi (autista del commando, sparito da quarant’anni, ndr). Carpi era mio compagno di scuola al liceo d’Oria. Impossibile non voler bene al tuo compagno di scuola con cui hai studiato per cinque anni al liceo. Mentre il Carpi che va in giro a uccidere, l’odio, è un’altra cosa. L’assieme delle due cose crea il racconto. Il racconto su umanità e disumanità. La mia ossessione è poterlo incontrare per chiedergli: come hai fatto a diventare così?
Vincenzo Guagliardo è stato arrestato nel 1980 e ha trascorso 32 anni in carcere. Riccardo Dura è morto durante il blitz dei carabinieri del generale Dalla Chiesa in via Fracchia; sempre nel 1980. Di Lorenzo Carpi, vecchio compagno di scuola (compagno di niente) di Massimo Razzi, sono state perse le tracce.
Maurizio Puppo
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IL LIBRO: Uccidete Guido Rossa. Vita e morte dell’uomo che si oppose alle Br e cambiò il futuro dell’Italia. Di Donatella Alfonso, Massimo Razzi.
Editore: Castelvecchi, Collana: Stato d’eccezione, gennaio 2019.
GLI AUTORI:
Donatella Alfonso
Giornalista, ha lavorato per «Il Lavoro» e «la Repubblica». Tra i suoi libri: Animali di periferia. Le origini del terrorismo tra golpe e resistenza tradita (Castelvecchi, 2012); Fischia il vento. Felice Cascione e il canto dei ribelli (Castelvecchi, 2014); Un’imprevedibile situazione. Arte, vino, ribellione: nasce il Situazionismo (2017); con Nerella Sommariva, La ragazza nella foto. Un amore partigiano (2017). Premio “Memoria e Verità – Franco Giustolisi” 2017.
Massimo Razzi
Giornalista, ha lavorato a «l’Unità», «Corriere Mercantile», «Il Lavoro», «la Repubblica »; è stato tra i costruttori del sito di Repubblica.it e di RE Le Inchieste. Dal 2012 al 2016 è stato direttore di Kataweb. Attualmente è responsabile dell’area web dell’agenzia di stampa «La Presse». Ha scritto Il re delle «bionde» (1997). Autore e cosceneggiatore della serie televisiva Il Capitano (Rai 2, 2005).
Si ringrazia con gli autori, Gianni Priano per la consulenza sulle domande.