Dove stiamo andando? Da tempo, in Italia, si assiste a una lenta ma costante normalizzazione di posizioni politiche, provvedimenti e retoriche che, fino a pochi anni fa, sarebbero state considerate incompatibili con i principi di una democrazia matura. Non si tratta necessariamente di un ritorno al fascismo storico, ma di segnali che ne richiamano il metodo e la visione autoritaria della società.
A cominciare dal linguaggio: un lessico che, nelle dichiarazioni della Presidente del Consiglio dei Ministri e di diversi esponenti dell’esecutivo, è spesso divisivo, muscolare, talvolta sprezzante verso le voci critiche e finanche nei confronti delle istituzioni di garanzia. Ma il linguaggio è solo la superficie. Più in profondità, si rileva una serie di scelte legislative che sembrano orientate a restringere spazi di libertà, a ridefinire i confini del dissenso, a rafforzare un’idea di ordine pubblico che privilegia il controllo sulla partecipazione. È in questo intreccio tra parole e norme che si delinea una deriva preoccupante. Non un colpo di mano, ma un lento scivolamento verso un modello di società meno aperto, meno inclusivo e pluralista, più orientato alla repressione, in definitiva: meno democratico.
Le conquiste sociali e civili maturate nel corso dei decenni precedenti sembrano oggi esposte al rischio di un progressivo smantellamento, attuato non attraverso rotture evidenti, ma silenziosamente, a piccoli passi. A guidare questo processo non è soltanto un orizzonte politico tradizionalista, ma una radicalizzazione che si manifesta nella crescente centralità del controllo sociale, nell’emarginazione sistemica delle minoranze, nella stigmatizzazione della povertà e nella riduzione delle garanzie democratiche. Tali dinamiche trovano conferma in una serie di comportamenti e provvedimenti legislativi che, pur presentandosi come misure di governo ordinario, rivelano un disegno politico più profondo e meno dichiarato. In questo contesto, definire l’esecutivo semplicemente come “conservatore” appare oggettivamente riduttivo e, in alcuni ambienti anche progressisti, sintomo di una sottovalutazione del mutamento in atto.

In questo senso, non si tratta di singoli episodi o scelte isolate, ma di un orientamento sistemico che punta a ridefinire il rapporto tra Stato e cittadino, tra potere e società, tra diritti e controllo. Un esempio tra tutti può essere la cancellazione del Reddito di cittadinanza: non solo una misura economica, ma una vera e propria dichiarazione ideologica.
Provvedimenti emblematici:
La suddetta abolizione del RdC: un provvedimento che non solo colpisce i fragili, ma rappresenta la volontà di ribadire che la povertà è una responsabilità individuale e non un’emergenza sociale. Una visione molto lontana dalla solidarietà e già ampiamente affermata oltre Atlantico.
Il rifiuto del salario minimo legale: un mancato riconoscimento dei diritti fondamentali per garantire una vita dignitosa ai lavoratori più deboli, a discapito dei rapporti di potere nei luoghi di lavoro.
Gli attacchi alla libertà di stampa: gli evidenti e reiterati tentativi di limitare le inchieste di chi indaga sul potere politico, gli attacchi e le querele contro giornalisti “indipendenti” e semplici cittadini, la moltiplicazione dei “pennivendoli”, di editorialisti accondiscendenti e tanti altri – tra coloro che mantengono un’ambigua equidistanza, che si rendono complici, che fanno dell’ignavia uno stile di vita e che, purtroppo, restano indifferenti – contribuiscono a un clima di intimidazione e controllo.
Il cosiddetto “Decreto sicurezza”: un impianto punitivo che rischia di criminalizzare la marginalità sociale e aumentare la discrezionalità repressiva, spesso sfruttata per fini propagandistici.
La riforma della giustizia: la separazione delle carriere, con l’inconfessato fine di subordinare il pubblico ministero al potere esecutivo, rappresenta un potenziale stravolgimento dell’equilibrio tra i poteri dello Stato. Se il Ministro della Giustizia avesse il potere di stabilire quali reati perseguire, si aprirebbe la porta a una giustizia selettiva e politicizzata.

Se a questo, si aggiungono dichiarazioni (da parte di alcuni componenti la compagine governativa) sostanzialmente contrarie ad aborto e divorzio, posizioni sessiste ed omofobe, nonché attacchi ai diritti civili, si alimenta una narrazione tradizionalista che punta a restringere le libertà personali, soprattutto delle donne e delle minoranze.
Questi elementi, naturalmente, non costituiscono da soli una restaurazione autoritaria. Ma nel loro insieme, evocano un modello di governance che privilegia il controllo, la verticalità del potere e la riduzione degli spazi di dissenso. È in questa convergenza che molti analisti vedono i tratti di un “neo-fascismo” contemporaneo: non nostalgico, ma funzionale, adattato alle logiche del presente.
Legittimo, quindi, interrogarsi su come sia possibile che anche taluni che si dichiarano di sinistra sottovalutino il rischio, si accomodino, o si lascino convincere dal mito dell’equidistanza e della neutralità, credendo – erroneamente – che “tanto non succederà mai nulla di grave”. È proprio questa sottovalutazione, questo indebolimento della coscienza critica e della capacità di mobilitazione, che favorisce la deriva. Complice una società sempre più frammentata, individualista, impaurita dalle crisi e dalle emergenze, dove la solidarietà concreta e il pensiero critico fanno sempre più fatica a trovare spazio.
Politica estera e alleanze
Anche rispetto alla politica estera, alle alleanze e alle scelte di Giorgia Meloni, il giudizio resta molto critico in quanto:
L’Italia si trova oggi in una posizione di netta subalternità strategica rispetto agli Stati Uniti, in particolare all’asse rappresentato da Trump e dalla destra repubblicana. Questa sudditanza va ben oltre la tradizionale alleanza atlantica: la politica estera del nostro governo si modella, infatti, sulla volontà di compiacere e replicare posizioni estremiste su guerra, sicurezza, immigrazione, piuttosto che difendere autonomia e interessi nazionali.
L’aumento della spesa militare, spesso giustificato dal governo in chiave di sicurezza e di “ordine”, rappresenta un pilastro inquietante di ogni regime con tendenze autoritarie. Investire meno in scuola, sanità e welfare e di più in strumenti di repressione e intimidazione sociale è una scelta di campo netta, che crea le condizioni per normalizzare una società basata sulla paura e sulla gerarchia: sono logiche care sia al fascismo storico che alle sue versioni contemporanee.
La sistematica delegittimazione dell’opposizione: si accusano la sinistra, i giudici, i giornalisti critici (pochi!) e, addirittura, singoli cittadini, di complottismo o di agire contro l’interesse nazionale. Questa retorica punta a creare una divisione netta tra “amici” e “nemici”, tra “patrioti” e “traditori”, esattamente come è sempre avvenuto in tutti i regimi autoritari. Viene reso sospetto il pluralismo e delegittimata ogni forma di controllo critico sul potere.
Il rafforzamento dell’asse con le destre europee più illiberali, come quella di Orban in Ungheria, è ulteriormente sintomatico di una volontà di costruire una “internazionale reazionaria”, dove la democrazia liberale viene sistematicamente svuotata dall’interno in nome della sicurezza, dell’identità e della tradizione. L’intesa tra i due leader su temi come migranti, difesa e sovranismo culturale conferma una convergenza ideologica che va ben oltre la semplice cooperazione.
Il sostegno a Israele senza riserve, anche di fronte a gravi violazioni dei diritti umani e civili accertate a livello internazionale, fino a negare l’evidenza di un vero e proprio massacro indiscriminato, mostra una preoccupante indifferenza verso i diritti e l’etica internazionale. Tale posizione non solo isola l’Italia nel contesto dei Paesi realmente democratici, ma la avvicina a quelle potenze che fanno della forza e della sopraffazione il proprio modello.

La retorica identitaria, reazionaria e repressiva non è più un tabù: viene ammantata di modernità, di efficienza e perfino di “realismo politico”, con l’effetto di renderla accettabile o addirittura desiderabile ad ampie fasce di popolazione. Il rischio concreto è che lo spazio per la critica e il dissenso venga ridotto al minimo, e che nuovi assetti istituzionali – magari formalmente legali – mettano definitivamente in crisi lo Stato di diritto, preparandoci a possibili future svolte ancora più gravi.
Non si può allora negare, a mio parere, che ci troviamo a vivere in un contesto nel quale questi elementi – dipendenza strategica, repressione del dissenso, revisionismo culturale e alleanze con governi illiberali – concorrono a comporre un mosaico che, anche secondo l’autorevole parere di alcuni analisti, può essere letto come una forma di “neo-fascismo funzionale”, adattata ai tempi moderni. Non una dittatura conclamata, ma una forma di erosione progressiva delle garanzie democratiche, mascherata da efficienza e patriottismo.
Abbiamo quindi il dovere di opporci a queste logiche e di non accettare passivamente questa sottile “normalizzazione”. Il ricorso a una memoria storica autentica, la vigilanza sulle istituzioni e la costruzione di una narrativa pubblica – capace di smascherare la natura recondita di queste politiche di Meloni e del suo entourage – sono gli unici antidoti concreti al rischio di un nuovo autoritarismo, magari riformato nei modi (senza più camicie nere né “marce su Roma”) ma identico nei fini.
Di questa battaglia culturale e politica, le scelte e le alleanze internazionali sono parte integrante e irrinunciabile, mentre silenzio, ambiguità, equidistanza ed eccesso di realismo non rappresentano solo ingenuità, ma diventano corresponsabili di un possibile declino autoritario e post-democratico. La storia del nostro Paese ci insegna quanto possa essere breve il passaggio dalla normalizzazione alla catastrofe democratica.
Renato Fioretti
(n.d.r. D’accordo o no, benvenuti come sempre i vostri commenti in fondo alla pagina)





































Buongiorno Gigi, condivido al 100% questa analisi. Probabilmente da italiani residenti all’estero abbiamo una visione piu’ oggettiva della situazione italiana.
Ma quando leggo che l’informazione è sempre più sotto controllo del governo, e che una grossa fetta degli italiani créde ciecamente alla propaganda fatta in televisione o sui social tipo X, mi domando come fare per far tornare al governo dei partiti più moderati e democratici
E per rimanere in tema, la delegittimazione sguaiata delle rappresentanze sindacali e del terzo settore. Grazie, un timore oramai reale e subdolo. Ma è il momento di reagire.