Palmira oggi è come una bella donna sfregiata con l’acido, solo che, nel suo caso, per deturpare il suo volto, per annullare la sua bellezza, si è fatto ricorso a distruzioni, mine e bombe. La bellezza vista come una colpa, viene da dire.
Lo splendore di Palmira non solo derivava dai suoi colonnati, dai suoi fregi, dai porticati, dai meravigliosi templi greco-romani, insomma dalla sua antichità, ma portava con sé la grandezza del mondo antico, vagheggiato come potenza, supremazia, vita soprannaturale che poco ha da spartire con gli esseri normali.
Essa evocava lotte e resistenze fin dall’epoca seleucidica (III a. C.). Fondata da Seleuco I, dopo la morte di Alessandro Magno, resistette dapprima a Roma, ma fu saccheggiata dal tribuno Antonio (41 a.C.) che voleva portare le forze romane al di là della Siria, perennemente minacciata dai Parti. Poi con Augusto finalmente ci fu una tregua. L’imperatore si accordò con i Parti ed accettò che Palmira divenisse territorio neutro e città carovaniera. Nel 129 d.C, in occasione della visita dell’imperatore Adriano, assunse l’appellativo di Hadriana. Le contese con i Parti ripresero nel prosieguo, finché Odenato, autoproclamatosi “il re dei re”, e nominato Corrector totius Orientis, cadde per una congiura che portò al potere il figlio Valballato, sotto la reggenza della madre Zenobia.
Nel III sec. d.C. il potere della regina Zenobia crebbe moltissimo. Dotata di grande abilità e cultura, arrivò a controllare la Siria, l’Egitto, parte della penisola arabica, l’Asia minore fino alla Bitinia, mentre la città diveniva un faro di attrazione, grazie anche alla presenza tra gli altri del retore e filosofo Cassio Longino.
L’imperatore Aureliano fece un accordo con Zenobia che non durò a lungo. Con la scusa che Valbellato si era attribuito il titolo di Caesar Augustus, Aureliano gli fece guerra ed occupò l’Asia minore e l’Egitto, distruggendo Alessandria e la famosa Biblioteca che era un vanto dell’umanità, dentro il palazzo reale, come testimonia Ammiano Marcellino, storico della Siria. Zenobia fuggì a Palmira, ma non si sa bene se la sua fine fu simile a quella di Cleopatra. Forse si diede la morte. Secondo alcuni andò a Roma in catene d’oro e sposò poi un senatore romano.
Fallì dunque il suo ambizioso progetto d’essere autonoma da Roma, ma il suo nome arrivò corredato da leggende fino a noi.
Dopo la resa ad Aureliano, la città fu saccheggiata e le sue mura distrutte. Cadde dunque in abbandono. Dopo la conquista araba, nel 654, decadde. Tuttavia le sue rovine, ritrovate, furono molto apprezzate dagli archeologi. Nel 1753 apparvero in un documento intitolato: Les Ruines de Palmyre, autrement dite Tedmor, au désert, di Robert Wood et James Dawkins.
Verso la fine del XIX sec. lo studio del sito fu condotto in modo scientifico e vennero rinvenute e decifrate alcune iscrizioni. Nel 1751 il viaggiatore inglese R. Wood, entusiasta scrisse: Scoprimmo allora in un solo momento la più grande concentrazione di rovine, tutte di marmo bianco, che ci fosse mai capitata prima di vedere. Il francese Constantin Francois arrivò ad affermare, quasi incredulo: L’antichità nulla ci ha lasciato, nè in Italia, nè in Grecia, che sia comparabile alla magnificenza delle rovine di Palmira.
Fu chiamata “la sposa del deserto” e dichiarata “patrimonio dell’umanità”, tanto richiamava l’attenzione per la sua bellezza, a 240 km. da Damasco, la capitale. L’arco severiano a tre fornici e la lunga via colonnata divennero il suo emblema.
Conservava ancora, prima di cadere nel 2015 in mano dei distruttori-assassini dell’Isis, due templi, di Baal, dio fenicio, paragonabile a Zeus del I sec d.C., e quello di Bel, le Terme di Diocleziano, le tombe di epoca romana.
Ma la cosa più orrenda è stato lo spettacolo della morte e dello strazio del corpo dell’archeologo di 82 anni, Khaled al-Asaad, direttore del sito archeologico di Palmira, massacrato ed appeso alle rovine, reo di non aver collaborato come gli occupanti volevano.
La recente liberazione di Palmira dall’Isis non potrà riportarla allo stato di prima e non ridarà la vita all’eroico suo archeologo che tanto l’amava. Onore a lui!
Tutta l’umanità civile piange questo esito catastrofico e pensa che non poteva esserci una fine peggiore che cadere in mano a barbari che combattono le storia, la religione dei padri e la civiltà del passato.
Dello stesso parere è Dominique Fernandez, membro dell’Académie française, che tante volte s’è recato a Palmira con il fotografo Ferrante Ferranti. È appena uscito un suo diario di viaggio: Adieu Palmyre (Editions Philippe Rey, aprile 2016) per documentare il sito di Palmira prima della sua distruzione dai Daech cui rimando. Pure in un articolo, pubblicato su “Le Figaro” del 31 marzo scorso, ha dichiarato:
«Malheureusement, Palmyre est irrécupérable tant la cité antique a été détruite. On ne peut pas reconstruire à partir de poussières.»
Gaetanina Sicari Ruffo