Il patrimonio culturale italiano sempre più apprezzato all’estero: dall’attrattività del patrimonio universale di Pompei, della Campania, di Napoli alla cucina italiana nel mondo. Il riconoscimento in due recenti manifestazioni a New York e all’Istituto Italiano di Cultura di Parigi per dire dell’impossibilità di separare il patrimonio culturale “materiale” da quello “immateriale” che sono sempre più presenti nella richiesta di Made in Italy nel mondo e particolarmente nelle società emergenti. Napoli e tutta l’Italia, con il forte rilancio dello export, segnano profondamente e positivamente questi nostri tempi.
Il patrimonio culturale italiano all’estero è ormai riconosciuto non solo per i monumenti, le opere d’arte e gli artisti in tutti i settori e tutte le ere, ma anche per gli stili di vita e il know how ereditati e sviluppati nel corso delle generazioni.
A tal punto che mentre la Francia esporta più vistosamente il patrimonio materiale (esempio: la sezione del Louvre ad Abu Dhabi), che di origine non è propriamente suo – tenendo conto della parte d’artisti stranieri nei suoi musei -, all’Italia è sempre più richiesto anche quello immateriale.
Recentemente il Ministro dell’Industria e Commercio del Bahrein a Milano ha dichiarato di volere dall’Italia il know how della produzione d’alimenti (food processing) per lo sviluppo dell’agricoltura, e gli esempi d’intraprendenza per bar, ristoranti, negozi e altri servizi per lo sviluppo del turismo (oltre al know how delle nostre società, già di successo da decenni all’estero, per quanto riguarda le infrastrutture).
Altri esempi del meglio dell’italianità esportata negli ultimi decenni sono quelli in Sud America, con le innovazioni dagli emigrati di prima e dopo la seconda guerra mondiale nelle fincas o fundos: questi, acquisiti da loro quando erano dei deserti negli spazi immensi di quel continente, sono poi diventati i luoghi delle grandi industrie alimentari con nomi italiani.
E oggi la presenza di piccoli imprenditori italiani anche nei negozi e negozietti, ristoranti o luoghi di spuntini in Asia ed Estremo Oriente non è meno lusinghiera di quella di Armani, Dolce e Gabbana e simili o di quella delle catene dei fast foods americani (e rimane sempre rilevante la parte all’estero delle nostre imprese nelle infrastrutture e nel settore energetico: per esempio, è di 1 miliardo di dollari l’ammontare delle nuove commesse della SAIPEM in Arabia Saudita, Kazakhstan e Messico). Il successo sempre più mondiale di “Eataly” (che ha intanto organizzato dal 15 novembre a Bologna la più grande fiera dell’alimentare italiano) non sarà comunque meno onorifico di quello di Mac Donald!
Tutto ciò significa che culturalmente anche l’Italia è diventata “trend setter” nel mondo, com’è stato riconosciuto recentemente anche « dall’US News & World Report”.
Un’ulteriore conferma si è avuta con l’accoglienza del 13 novembre a New York della 2a edizione del volume “La rete italica” (Italic Digital Editions) del giornalista d’“America Oggi” Niccolò d’Aquino. Scritto nel quadro del “think tank” di Piero Bassetti (autore come il Presidente Mattarella d’uno degli articoli interni di testimonianza della “civilizzazione italica” nel mondo), è stato lì presentato con la collaborazione della Rappresentanza italiana all’Onu e dell’ambasciatore Sebastiano Cardi e descrive ormai come unico il patrimonio italiano “della cultura, dell’arte, dell’ingegno, del gusto, dello stile, dell’eleganza e dell’imprenditoria”.
Questa considerazione vale anche per la tavola rotonda “Pompei e Campania: un patrimonio universale” organizzata il 14 novembre dal Direttore Fabio Gambaro all’Istituto Italiano di Cultura a Parigi alla quale hanno tra gli altri partecipato:
oltre all’Ambasciatore Giandomenico Magliano, l’ex Ambasciatore all’UNESCO e Consigliere del Presidente della Regione Campania Francesco Caruso;
il Direttore generale della Soprintendenza di Pompei Massimo Osanna: gli si deve in gran parte il risultato di più di 3 milioni di visitatori nel 2016 dopo gli ultimi restauri (Case dei Vettii, di Sirico, dei Casti Amanti, domus dell’Efebo, macellum/mercato) e l’organizzazione a seguito delle sue esperienze negli altri siti archeologici del Sud e delle sue attività accademiche in Italia, Francia e Germania;
il Direttore generale dell’ICCROM (Centro Internazionale di Studi per la Conservazione e il Restauro dei Beni Culturali) ed ex Direttore Generale per le Antichità al Ministero dei Beni Culturali Stefano De Caro: la sua competenza sulla Regione, oltreché per esservi nato, è dovuta agli altri incarichi avuti sui suoi siti archeologici;
il Presidente del Museo d’arte contemporanea “Madre” di Napoli, Pier Paolo Forte;
per l’UNESCO: il Consigliere della Direttrice Generale Mounir Bouchenaki, algerino e archeologo di formazione e il Vice Direttore Generale per la cultura Francesco Bandarin, architetto specializzato in urbanistica.
La Campania ha dunque non solo i “patrimoni dell’umanità” così classificati dall’UNESCO: Pompei, Ercolano, Torre Annunziata, Il Cilento, Paestum, Velia, la Costiera Amalfitana, la Reggia di Caserta e il Centro storico di Napoli, ma soprattutto quelli che riflettono in questo il passaggio dei Normanni, degli Aragonesi, degli Spagnoli, dei Borboni, dei Francesi, ognuno con i propri valori culturali e di vita aggiuntisi ai preesistenti. Ossia ha come patrimonio universale il dinamismo ereditato da tutte queste vicissitudini e sempre attuale: tanto nell’architettura (come la Reggia di Caserta è stata realizzata alla fine del ‘700 dai Vanvitelli sull’esempio di Versailles, così oggi il centro direzionale di Napoli non ha un interesse inferiore a quelli di altre città), quanto nelle attività culturali (ancora fino a non molti anni fa Napoli contribuiva a rendere l’editoria al sud non meno importante di quella al nord, allo stesso modo in cui oggi le fictions e le altre realizzazioni cinematografiche girate lì e al sud sono -anche per l’organizzazione predisposta- più frequenti di quelle al nord).
E rispetto ad altre città il dinamismo di buon gusto si è manifestato perfino nella realizzazione della metropolitana di Napoli.
D’altronde Napoli è stata oggetto delle rivalità della Storia del periodo napoleonico non meno dell’Europa.
Conviene ricordarlo: Dopo l’appoggio del 1799 di Nelson a Ferdinando IV di Borbone nello stroncamento brutale della Repubblica napoletana (e il suo rifiuto di lasciare subito Napoli per andare a contrastare la flotta franco-spagnola nel Mediterraneo occidentale, perché intanto “cornifica” lì l’Ambasciatore Hamilton), e dopo il rientro dei Borboni da Palermo a Napoli nel 1802 e un loro periodo di alterna neutralità, nel 1805 Napoleone, in conseguenza della vittoria ad Austerlitz sui russi e austriaci e la Pace di Presburgo, oltre al controllo dell’Europa centrale, vuole per sé il “Regno di Napoli” (i Borboni filoinglesi tornano a Palermo) e vi mette a capo il fratello Giuseppe.
Inizia allora la modernizzazione della parte della penisola su cui si estende questo Regno: si creano le province e le proprietà passano dai feudatari e dal clero ai privati. Si cercano anche investitori francesi. Nel 1808 Napoleone nomina Giuseppe Re di Spagna e suo cognato Gioacchino Murat Re delle Due Sicilie.
Questi prosegue nella modernizzazione delle infrastrutture (esempio: Via Posillipo a Napoli oltre a quanto fatto in altre città) e del sistema giuridico (1809: Codice Napoleonico); tenta invano nel 1810 la conquista della Sicilia; partecipa nel 1812 alla campagna di Russia finché, dopo la sconfitta di Lipsia dell’anno prima, nel 1814 con la firma del trattato d’alleanza fra Austria e Regno di Napoli (in parte predisposto dalla moglie Carolina Bonaparte, Reggente a Napoli, mentre egli è in Russia) – che gli garantisce anche la Sicilia – tradisce il cognato.
Nel 1815, dopo il rientro in Francia di Napoleone dall’Elba, temendo la restaurazione dei Borboni nel suo regno (sancita infine dall’alleanza dell’Austria con questo e dal Congresso di Vienna) combatte contro i presidi austriaci a nord dello Stato Pontificio e poi cerca invano di raggiungere Napoleone in Francia. Ma dopo la sconfitta di Waterloo, sbarcato dalla Corsica in Calabria per riconquistare il Regno, è lì fucilato dai Borboni (Carolina intanto è trasportata su una nave inglese a Trieste, poi vive in Austria come Contessa di Lipona – anagramma di Napoli -, infine dal 1831 al 1839 a Firenze dov’è sepolta a Ognissanti).
Allora, tenendo conto dell’ostinazione di Murat e delle rivalità di allora per Napoli, il suo regno, la Campania, i loro tesori (Carolina seguiva personalmente i lavori degli scavi) e il piacere di viverci, non erano questi luoghi già in quel periodo pieni anche di fascino e attrattività, ossia pieni anche del patrimonio immateriale che li determinava?
Al di là della sindrome di Stendhal quando questi ha scritto (1817): “Non dimenticherò né la via Toledo né tutti gli altri quartieri di Napoli; ai miei occhi è, senza nessun paragone, la città più bella dell’universo » e “In Europa ci sono due capitali: Parigi e Napoli” , e al di là delle contraddizioni della città che sono (com’è stato scritto il 29 gennaio scorso nel “Controcanto” d’”Altritaliani”) “un unicum culturale che non ha modelli paragonabili”, bene ha fatto Gambaro a presentare il patrimonio della Campania come “unicum”, come quello dell’Italia presentato da D’Aquino a New York.
Così, d’altronde, è ormai considerato anche dall’UNESCO, dove la delegazione della Campania era stata precedentemente ricevuta e dove proprio in considerazione di tutto l’indotto intorno ai suoi scavi, monumenti, musei e alle architetture di tutte le epoche è apparso ancora maggiore lo sforzo d’adattamento delle infrastrutture: tanto più continuando a irradiarsi anche da lì il “regime mediterraneo”, ossia un altro dei “patrimoni dell’umanità” riconosciuto come tale dall’UNESCO nel 2010.
Questo infatti non consiste solo nell’alimentazione ma rappresenta altresì le tradizioni agricole e sociali e le evoluzioni negli stili di vita, come s’è visto pure nei rispettivi padiglioni all’Expo nel 2015 a Milano e come, per quanto riguarda l’Italia, all’estero ne devono ormai tener conto non solo i produttori e distributori grandi e piccoli ma anche le istituzioni: infatti all’Istituto di Cultura è stata poi offerta una degustazione dei prodotti e vini più genuini della Campania e anche lì, come al Consolato Generale d’Italia con il contributo della titolare Emilia Gatto, sono state organizzate le manifestazioni della “Settimana italiana della cucina nel mondo” dal 20 al 26 novembre: sia con professionisti delle specialità regionali che con accademici come Lorenzo Kihlgren Grandi, che insegna la diplomazia culinaria a Sciences Po.
Per l’Italia nel mondo vale allora non solo il continuo Rinascimento imprenditoriale e artistico, ma anche quello applicato alla quotidianità (come quando Caterina dei Medici ha portato in Francia cuochi e pasticcieri, e vi ha introdotto a prescindere da tutte le rivalità belliche forchette e verdure fino ad allora sconosciute), e vale proprio per l’impossibilità di separare il patrimonio culturale materiale da quello immateriale.