Alessandro Moscè ha dato alle stampe: Le case dai tetti rossi (Fandango 2022 €.17,00), un romanzo sui matti di Ancona degli anni sessanta, settanta e ottanta, rinchiusi nell’ospedale psichiatrico, una piccola città con centinaia di ospiti. Una struttura specializzata nella cura dei disturbi mentali che di fatto comportava la segregazione dei pazienti. I tetti rossi, del colore del sangue, accoglievano i barboni, i malnutriti, gli ubriaconi, gli epilettici, le prostitute, chi era tornato dalla guerra frastornato, chi aveva una deformazione fisica e chi era figlio di genitori spiritati, che assomigliavano al diavolo. Si credeva che i malefici potessero condannare le persone annientandole e riducendole a larve.
Già da questo primo spaccato si capisce che Moscè si occupa di una provincia arcaica e superstiziosa dove vivevano i “segnati da Dio” di cui diffidare. Il narratore usa espressioni del dialetto marchigiano per meglio delineare i pazienti con lo sguardo fisso, con l’orbita degli occhi sproporzionata e le braccia lungo un corpo filiforme o lievitato. “Nessuno sembrava avere una linea normale, tutti avevano un fisico allungato, striminzito, ingrassato a dismisura”. Moscè ci parla del manicomio dove stavano i violenti, gli incontrollabili, gli psicotici, ma anche di chi aveva solo delle piccole manie. Ancona temeva i suoi matti e chi transitava da quelle parti allungava il passo, non si girava, faceva gli scongiuri, chiudeva gli occhi. Alla vigilia della promulgazione della Legge 180, ed è una triste verità il fatto che: “ai bambini si proibiva di guardare i padiglioni e i pazienti che sbirciavano da una sbarra all’altra o tra le fessure del cancello d’entrata”.
Questo libro si caratterizza per le sue illuminazioni poetiche, per una sintassi un po’ cupa ma molto efficace, con toni espressionistici che catalizzano l’attenzione sui personaggi e le loro storie, i loro affetti, le loro nostalgie. La composizione procede per schegge che prendono corpo anche con i monologhi, con discorsi divaganti sugli stati d’animo del giardiniere e della caposala, sui gesti di chi teme che possano di nuovo arrivare i nazisti a mettere a ferro e fuoco Ancona. “Una cittadella di invisibili, il manicomio, che la gente del posto, negli anni del boom economico, avrebbe preferito non avere nei dintorni, come fosse un’onta, un ingombro”, ci dice ancora Alessandro Moscè.
Ma alla fine molte di quelle menti “bislacche” conquistarono un posto nella società grazie a Franco Basaglia che consentì l’abbattimento dei muri e l’istituzionalizzazione della salute mentale. Ci sembra che la riuscita del romanzo consista soprattutto nel rendere interessante l’ossessione dei “reclusi”: Nazzareno, il re del liscio che si traveste; l’uomo-giraffa che ha paura dei microbi; Franca che sogna le rappresaglie durante la guerra; Adele che non ricorda nulla se non Mussolini; Giordano che colleziona bottoni e pensa al Napoli calcio. Negli inframezzi Alessandro parla in prima persona e rievoca attentamente il passato, una volta entrato ai tetti rossi che oggi sono stati trasformati in ambulatori sanitari e in una sede delle guardie forestali.
Non c’è più la comunità dei matti, ma l’aria che si respira sembra la stessa, in quel rettangolo di casupole in parte fatiscenti. I nonni dell’io narrante abitavano nella palazzina dietro il manicomio e Moscè non perde l’occasione per addentrarsi nella saga familiare, non solo nello scenario allucinato di esistenze minime, diverse, dimenticate, eppure così vive nella spirale dell’euforia e negli sprazzi di ironia di chi si crede Sandokan e vorrebbe assaltare le giunche cinesi con i tigrotti al seguito. L’identità del luogo e della gente è pur sempre una realtà intensa dalla quale trapela emozione, paura, un pezzo del nostro secondo Novecento che Moscè definisce emblematico nella più grande conquista sociale post-Sessantotto, cioè la chiusura dei manicomi.
In una delle pagine più belle l’autore si lascia andare ad una parola nitida, commovente: “Con l’inizio dell’autunno torno nell’isola di via Cristoforo Colombo per l’ultima volta. Alzo gli occhi davanti all’ingresso dell’ex manicomio. Le luci dei lampioni si accendono e le foglie degli alberi si illuminano di traverso in un’atmosfera lattescente nel rettangolo della zona interna, ormai fredda e anonima. Mi fermo e non trovo più un conforto, un sostegno, ma il decadere da una dimensione che non mi appartiene. Eppure, è come se fossi in un punto limite, sospeso e incancellabile, tra l’adesso e l’infanzia”. Le case dai tetti rossi, nelle sue vicende allegoriche, ha molti riflessi lirici in un teatro naturale dove il testimone è lo scrittore stesso, ma il regista si nasconde nelle ombre che parlano, nella dura materia del mondo che è stato, che scioglie i nodi di una società che per troppo tempo non ha saputo interpretare il destino degli ultimi.
Elisabetta Monti
IL LIBRO:
Le case dai tetti rossi
di Alessandro Moscè
Editore: Fandango Libri
Data di pubblicazione: aprile 2022
ISBN: 8860448263
Pagine: 192 – Prezzo 17€
L’AUTORE: Per saperne di più su Alessandro Moscé
(N.d.r.) Link interni:
NATI SOTTO SATURNO, un dossier Altritaliani del 2010
Secondo il celebre storico dell’arte Rudolf Wittkower, autore del libro NATI SOTTO SATURNO (ed. Einaudi, 1968 e 1996), i filosofi rinascimentali scoprirono in alcuni artisti del loro tempo le caratteristiche del temperamento saturnino: egocentrici, lunatici, nevrotici, ribelli, infidi, licenziosi, stravaganti… A trentanni dalla morte dello psichiatra FRANCO BASAGLIA, colui che vinse la logica manicomiale dell’esclusione, Altritaliani riflette sul tema della ‘follia’, della diversità, dell’emarginazione – integrazione. Quale eredità al lavoro dell’ispiratore della legge 180 ? Quanto ha tolto o dato all’umanità il senso della diversità, dell’anormalità ? Esistono davvero i ‘pazzi’?
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