“Ligabue, una vita d’artista” (Zurigo, 1899 – Gualtieri, 1965) titola la retrospettiva con più di 100 opere attualmente in corso a Palazzo dei Diamanti a Ferrara dedicata alla figura di questo pittore singolare e unico nel panorama dell’arte italiana del 900. Un’esistenza difficile dominata da marginalità, solitudine e malattia ma, tanto più profondamente immersa e trasmutata nell’espressione istintiva della sua arte, unica via di riscatto. Tale appare nella mostra ferrarese il connubio quasi inscindibile tra l’opera pittorica e vitale, a tratti selvaggia dell’artista e il mondo intimo, personale, spesso relegato alla reclusione dell’uomo Ligabue.
Agli antipodi di ogni avanguardia e astrazione artistica del primo novecento Ligabue incarna in maniera propria e originalissima con la sua arte la forza della natura, l’impeto o la foga del vivente, di cui i soggetti più ricorrenti restano il volto nell’auto-ritratto ma, soprattutto, gli animali selvaggi o domestici che siano. Dunque, il suo lavoro si posiziona al di fuori di tutti i movimenti artistici del primo novecento, perlopiù anti-figurativi, dominati da un diffuso nichilismo esistenziale. Resta impresso come il marchio singolare di un artista solitario, marginale, in parte compromesso da una malattia psichica contro la quale l’arte emerge come unico spazio di libertà e di catarsi.
Segnaliamo in parallelo della mostra ferrarese l’uscita nelle sale francesi, il 7 luglio, del film “Volevo nascondermi” di Giorgio Diritti, un biopic pluripremiato su Antonio Ligabue, splendidamente interpretato da Elio Germano. Recensione QUI.
1- Antonio Ligabue, Self-Portrait
L’autoritratto è diario intimo per Ligabue, in primo luogo necessità interiore, senza dubbio unica forma di rispecchiamento del sé nei diversi momenti e stadi esistenziali di una vita segnata dalla sofferenza e dalla reclusione. La figurazione serrata e introspettiva del volto racconta a tratti il malessere, l’angoscia o lo smarrimento dell’io sempre più soggetto nel corso degli anni a una deformazione espressionistica dei tratti. È l’emozione che lacera o dilania la realtà in quanto percepita a dare tale visione sempre più estrema del sé.
Due ritratti
1957– Il volto è impresso sulla tela emergendo dal resto della figura in piedi, a mezzo busto. Espressivo, segnato da profondi solchi sulle guance, esso appare scarno, scavato da rughe marcate sulla fronte mentre il naso prominente emerge insieme agli occhi grandi, aperti sul mondo, infiammati di follia o di ardore verso la vita. Le orecchie a dismisura sono lì per captare la realtà con i sensi, gli occhi immensi per assorbire il mondo attraverso il suo sguardo.
1962– Il paesaggio diviene mosso alle sue spalle, sfuggente, instabile come il fluire incontrollato delle sue emozioni. Gli occhi sono ora trasparenti, lavati di pianto, grandi e vitrei come lagni immobili d’estate. Riflettono una realtà dolorosa, a tratti violenta percepita all’esterno in ogni suo angolo o abisso dove lasciarsi precipitare. Il volto solo appare in primo piano nel piccolo ritratto come in un ingrandimento voluto mentre il resto della figura tende ad eclissarsi. Emergono in evidenza il naso imponente, gli occhi brillanti e vuoti e i capelli neri, corti e radi. Le scavature sulle guance sempre più profonde.
2- Diario intimo
Paesaggi del cuore, memorie dei luoghi d’infanzia in Svizzera. Memorie di quello che era nei primi anni di vita trascorsi prima del ritorno in Italia dove iniziano per Ligabue con la giovinezza i ripetuti ricoveri negli ospedali psichiatrici. Eppure la memoria confonde, l’occhio interiore trasforma e i colori divengono quelli della mente, del cuore: i campi si colorano di gialli e aranci, i buoi appaiono giocosi e chiazzati, il villaggio fiabesco con le case irreali, gialle, celesti o rosate.
3- “Ritratto di donna” (1960)
Ligabue era solito dipingere ritratti di amici, benefattori e conoscenti; li ritraeva a mezzo busto, soffermandosi sulla dimensione intima del volto, sull’espressività di un dettaglio, cercando l’intuizione sulla loro più autentica natura.
La vede come una maschera imperturbabile e severa, immobile di fronte a lui, ricoperta di bianca cipria come fosse dipinta in quel colore. Si offre a lui con uno schermo seducente e distanziante: il volto pallido, i capelli neri e corvini raccolti in un’impalcatura solenne sulla testa, la camicetta sobria. Da quel volto-maschera emergono due occhi neri increduli sul mondo e labbra rosse e carnose, sole, contro la fissità austera della figura. Segni oscuri alle spalle, uccelli neri sorvolano di tanto in tanto un cielo mercurio e stagnante in un paesaggio che cede sempre più, immancabilmente, all’emozione soggettiva e lacerante. Ancora, in un altro ritratto, gli occhi azzurri e limpidi di Fanny Kessler emergono sul volto scavato e rugoso dell’amica anziana oppure quelli intensi e perspicaci del critico Vigorelli. Mazzi di fiori allo stesso modo si animano al centro di altre tele; esplodono in vasi colorati carichi di vibrazioni audaci e policrome.
4- Animali selvaggi
Leoni, leopardi, iene, uccelli rapaci; gli animali sono simbolo di forza, energia, virilità per Ligabue ma anche, altrove, di un’istintualità incontenibile e selvaggia. Possono incarnare una natura insidiosa e subdola, quella dell’umano, l’animale più feroce della specie all’indomani della seconda guerra mondiale oppure divenire emblemi di liberà e riscatto, simboli positivi di potere.
Alter-ego all’artista per spezzare le catene della reclusione e dell’isolamento.
Rapaci predatori come i leopardi o le tigri incarnano l’istinto di sopravvivenza e di dominio, la lotta verso l’affermazione della vita e del potere incondizionato dell’uno. Per esempio nel desiderio predatore dei leoni o delle tigri sulle gazzelle.
“La tigre con gazzella” del 1959 rappresenta perfettamente questa animalità pura e istintuale, “buona” o innata dell’essere umano: la forza dell’animale di potere, guida totemica per l’umano.
La tigre qui è anche la gioia della voracità del felino sulla più piccola preda: le fauci digrignate, pronte a divorare la gazzella mentre il momento è vissuto pienamente senza colpa né coscienza sullo sfondo di una giungla irreale che veicola e dà libero corso a questo istinto selvaggio dell’essere umano.
La tigre è la regina ( “Testa di tigre”, 1956)
Su uno sfondo diviso tra cielo e terra il felino in primissimo piano guarda d’avanti a sé con le fauci spalancate. La bocca emerge come una voragine ingigantita e aperta sul fondo dell’abisso, senza dubbio in chiaro punto di contatto con le forze viscerali della sua pittura. Evoca l’abisso, il tabù inesplorato della forma sessuale femminile ma, anche la forza prima e distruttiva che veicola e sublima la sua arte. Tutto è centrato su quell’abisso per Ligabue: la follia, l’irrazionalità, la pulsione di vita e quella sessuale contro il suo opposto di morte. Tutto converge in quella bocca e fauci anatomicamente disegnati al centro della tela nella cromia possente dei colori, rosso, marrone e nero che riprendono il manto colorato dell’animale e lo reinventano in una semantica propria.
5- Scene di caccia: “Lotta di cervi”(1955)
La tensione emotiva cresce portata all’estremo dall’espressionismo figurativo dei due animali. Testa contro testa, morte contro vita, gli occhi piccoli e brillanti in primo piano, i due cervi si fronteggiano in un faccia a faccia violento e vitale. Alle loro spalle è una tigre vorace dalle fauci spalancate. I cani impauriti retrocedono. Gli alberi esplodono in vegetazione rigogliosa e fantastica dando vita a un paesaggio lunare. Un mondo alla rovescia si lascia plasmare dalla violenza della scena, dalla visione vivida di un duello tra vita e morte. Sempre, in queste tele qualcosa esplode e cede, lascia aprire i propri cardini in una lotta all’ultimo respiro; qualcosa lacera i sigilli della razionalità e lascia fluire la lotta prima tra coscienza e forze oscure al di sotto: violenta esplosione di irrazionale.
Tutte le tele di Ligabue in definitiva dilatano in primo luogo una necessità di espressione personale, istintiva e non costruita che si pone agli antipodi di tanta arte del ‘900 astratta e d’avanguardia della stessa epoca. Incarnano una natura, la sua, dove animali selvaggi o domestici sono alter-ego all’umano, creature antropomorfe che danno vita a un mondo fantasioso specchio della sua personalità. La pittura è per Ligabue l’ unica forma di sopravvivenza e riscatto dalla marginalità e dalla malattia, forse anche un modo per veicolarne gli istinti più distruttivi e trasformarli in energia creatrice. Un’arte catartica, visionaria e assolutamente impregnata della sua sofferta condizione esistenziale.
Elisa Castagnoli
IL SITO UFFICIALE DELLA MOSTRA
fino al 18 luglio 2021 A Palazzo dei Diamanti – Ferrara
Descrizione ufficiale della mostra con qualche precisazzione bio su Ligabue:
Antonio Ligabue (1899-1965) è stato uno degli artisti più originali del Novecento, capace di emozionare con una pennellata di colore e di trasportarci all’interno del suo mondo.
Nato a Zurigo, dopo un’infanzia e un’adolescenza difficili viene espulso dalla Svizzera e giunge nel 1919 a Gualtieri, in provincia di Reggio Emilia, patria del padre adottivo. Anche qui la sua vita resta durissima, segnata da ostilità, incomprensioni e ripetuti ricoveri negli ospedali psichiatrici. Ma Ligabue resiste, trovando nella pratica artistica quel “luogo sicuro” che non ha mai avuto. La pittura e la scultura diventano il mezzo per trasformare le difficoltà in opportunità e per dar voce ai suoi pensieri.
La mostra documenta tutta l’attività di Ligabue attraverso oltre cento opere, tra dipinti, sculture e disegni, alcune mai esposte sinora. Nel percorso emergono i temi fondamentali della sua ricerca: dal diario intimo degli autoritratti ai paesaggi del cuore, dai ritratti alle nature morte, dagli animali selvaggi a quelli domestici, dai paesaggi agresti alle scene di caccia e alle tormente di neve. Un racconto che pone l’accento sulla singolarità della sua poetica e rivela la forza naturale, pura e istintiva del suo genio.