Gli italiani chi butterebbero dalla torre? Spesso i nostri concittadini suscitano ed affossano nuovi protagonisti della politica, magari spesso dimenticando che i mali italiani sono antichi come i loro vizi, e che la politica, anche se non lo ammettiamo, ci somiglia e molto, diremmo che è un nostro prodotto. Dal recente passato vediamo alcuni responsabili da buttare dalla torre. E’ un gioco ma ci possiamo partecipare tutti.
Dopo due o tre anni di assenze, dovute esclusivamente a coincidenti appuntamenti di carattere familiare, ho partecipato, la scorsa settimana, all’annuale incontro di:
“ Quelli delle Diaz”.
La riunione conviviale che, da oltre trent’anni, riunisce alcuni, non più giovani, ex allievi della prestigiosa scuola napoletana di Via dei Tribunali, l’Istituto Tecnico Commerciale per Ragionieri “Armando Diaz”, nonché reduci del famigerato palcoscenico di quella “Notte della Democrazia” che andò in scena, nell’omonima scuola genovese, tra le 22 e la mezzanotte del tragico 21 luglio 2001.
Il passatempo, cui ci saremmo dedicati in quell’occasione, era rappresentato dal mai logoro “Gioco della torre » attraverso il quale i partecipanti decidono – dopo avergli contestato specifici addebiti – chi far precipitare da un’ipotetica torre.
Questa volta, presenti: a) un altro ex dirigente sindacale, la cui attività si è svolta, tra le fila della Uil, nell’arco dei miei stessi quasi quarant’anni in Cgil, b) due avvocati, esperti di diritto del lavoro, c) due ex funzionari di banca, d) due consulenti del lavoro, e) un commercialista, f) un ex promotore finanziario, g) una docente universitario di “Psicologia del lavoro”, h) un dirigente di una grande azienda tedesca che opera in Calabria, i) una ex dirigente dell’ex Ispettorato del lavoro e, per finire, la nostra “mascotte” – un collega, anch’egli Ragioniere, che, però, nella sua vita, non ha mai lavorato per il semplice motivo di essere sempre stato “disgustosamente e irreversibilmente ricco” – si trattava di decidere chi e perché buttare, per primo, giù dalla torre.
I malcapitati candidati di turno erano quattro: Giovanni De Gennaro, Capo della Polizia di Stato all’epoca dei “Fatti di Genova” – come, ipocritamente e con eccesso di pudicizia, da parte dell’establishment, ci si riferisce ancora oggi, alla “carneficina” di quei giorni – e tre politici: Maroni, Sacconi e la Fornero, che, addirittura, potranno vantare di essere stati seduti alla stessa, prestigiosa, poltrona appartenuta ai padri dello Statuto dei Lavoratori: Giacomo Brodolini e Gino Giugni.
Personalmente, avanzai subito un’obiezione. L’opportunità di “stralciare” dalla quaterna di candidati il nome di De Gennaro. Si trattava, in effetti, di un soggetto disomogeneo, rispetto agli altri tre e, tra l’altro, sarebbe stato sin troppo facile, a mio parere, ribadire un nostro giudizio di colpevolezza perché mandante della “macelleria messicana” perpetrata a danno dei presenti alla Diaz quella sera. Così come, d’altra parte, si erano già espressi i giudici del processo al termine del quale, nel 2008, fu chiesto il suo rinvio a giudizio con l’accusa di avere istigato il Questore di Genova, Francesco Colucci, a fornire falsa testimonianza ai magistrati che indagavano su quelle efferate e gratuite brutalità.
E’ vero anche che, nel 2009 – a fronte di una richiesta dell’accusa di una condanna a due anni di reclusione – l’ex Capo della Polizia, fu assolto (in primo grado). L’anno seguente, però, in appello, fu condannato a un anno e quattro mesi di reclusione. Infine, fu assolto in Cassazione perché, a giudizio della Suprema Corte, i fatti non sussistevano.
Ciò nonostante, sulla vicenda restano dubbi, perplessità e domande inevase. Inoltre, è presente un’incongruenza di non poco conto; ingombrante quanto un’inamovibile montagna. Come si concilia, in realtà, l’assoluzione di De Gennaro, dall’accusa d’istigazione alla falsa testimonianza – nei confronti del Colucci – con la condanna, per gli stessi fatti, nel 2012, dell’ex Questore di Genova, per “falsa testimonianza in favore di De Gennaro?”
Comunque, di là da qualsiasi elucubrazione e della decisione della stessa Corte di Cassazione sui vergognosi “fatti di Genova” – a eterno disonore di chi partecipò a quelle tristi vicende, tanto con ruoli dirigenti, quanto esecutivi – nell’aprile del 2015 è calato un macigno!
La sentenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo che ha condannato l’Italia per il comportamento tenuto dalle forze dell’ordine durante l’irruzione alla scuola Diaz nei giorni del G8 di Genova.
I giudici hanno dichiarato, all’unanimità, che è stato violato l’articolo 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, che recita: “Nessuno può essere sottoposto a tortura né a pene o trattamenti inumani o degradanti”. Ancora oggi, però, la nostra legislazione è inadeguata perché non prevede né il reato di tortura né si è dotata di norme capaci di prevenire in modo efficace il ripetersi di tali violenze. In questo senso, è significativo che gli addetti alle forze dell’ordine in Italia, a differenza di quanto avviene in tutti i Paesi civili del mondo, non sono identificabili attraverso alcuno strumento.
Accolta la mia proposta, il gioco procedé abbastanza speditamente.
Sin dalle prime battute, percepii, da parte di una piccola maggioranza tra i colleghi convenuti, una sorta di naturale predisposizione a ingigantire le responsabilità – e la latente volontà di (simbolicamente) buttarlo, quanto prima, giù dalla torre – del leghista Maroni.
L’accusa più frequente era quella di aver rappresentato, di là dal merito e dai contenuti delle scelte di natura politica operate – una per tutte, il famigerato “Libro bianco sul mercato del lavoro italiano” – l’iniziatore e teorico dei cd. “accordi separati”.
Una strategia – irresponsabilmente condivisa e resa operativa, con tenacia degna di migliore causa, anche da Cisl e Uil – tesa a “isolare” nel Paese la Cgil e indebolirne la “forza d’urto” contrattuale per operare scelte antipopolari ammantate di “nuovissimo” ma, in sostanza, a spese dei lavoratori; al solo scopo di eroderne i diritti. Quelli che Cisl e Uil pretendevano di essere in grado di rappresentare meglio.
Attraverso un “modo nuovo” e al passo con i tempi, che invece, alla fine, si è rivelato – nella sua letale sostanza – un fatale bumerang.
L’attuale peso, politico e contrattuale, di Cisl e Uil – come quello della Cgil, pari quasi allo zero – ne rappresenta la clamorosa e sconfortante conferma; soprattutto agli occhi di coloro che non erano indifferenti alle sorti del Sindacato e al futuro dei lavoratori.
Altrettanto pesanti gli addebiti a carico di Maurizio Sacconi, Ministro del Lavoro del IV governo Berlusconi (maggio 2008/novembre 2011). Sul suo capo, tra l’altro, pendeva la non irrilevante accusa di aver operato – quale primo atto concreto del suo mandato – l’abrogazione della legge 188/2007. Infatti, mentre per il precedente Esecutivo (Prodi) la legge aveva rappresentato un primo, concreto, tentativo di arginare la vergognosa procedura della sottoscrizione – spesso, contemporanea all’assunzione – delle c. d. “dimissioni in bianco”, Sacconi si era impegnato, sin dall’inizio della campagna elettorale, ad abrogare “La nuova e demenziale disciplina delle dimissioni volontarie”.
Personalmente, però, facevo notare di aver sempre ritenuto che – come indicato nel proemio de “L’Iliade”, circa “L’ira funesta di Achille” che avrebbe prodotto infiniti lutti agli Achei – il vero “Inizio della fine”, per l’agibilità sindacale nel nostro Paese e le sorti dei suoi lavoratori andasse ricercato nell’azione di “normalizzazione” praticata dal governo Monti; in particolare, attraverso la funesta opera, in materia di lavoro, della sua ministra piangente.
Di conseguenza, al momento della decisione finale, dopo l’ampia e particolareggiata discussione, la comune (allettante) tentazione fu di, addirittura, “prendere tre piccioni con una fava”. Non buttare giù nessuno dalla torre; ma limitarci a segarne le basi!
Solo la serietà del confronto che avevamo sostenuto ci consentì, sulla scorta dei numerosi capi d’accusa condivisi, d’individuare un solo e unico soggetto da sacrificare.
In virtù, soprattutto, delle sue sistematiche e reiterate scelte a sostegno delle ragioni delle imprese, piuttosto che dei lavoratori – dalle vittime di losche filiere di appalto e sub-appalti lasciate senza stipendi e contributi (leggi 35 e 92 del 2012) a quelle di licenziamenti senza “giusta causa” (legge 92/2012) – la nostra preferenza andò alla dispensatrice di Sali minerali.
Fu così che Maroni, che era inizialmente sembrato il maggiore indiziato al sacrificio, finì per salvarsi a spese dei due – a mio avviso – peggiori ministri del lavoro che l’Italia abbia mai avuto.
L’uno, tanto filo-datoriale e neo ultra liberista, capace di definire – senza un minimo di pudore, almeno rispetto ai suoi antichi trascorsi socialisti – perfino “vergognosa” la procedura prevista dalla legge per impedire le dimissioni in bianco e l’altra, più diplomatica, quando non addirittura passionale – se a beneficio delle telecamere – ma non per questo, meno consona al ruolo di “quinta colonna” della classe imprenditoriale italiana.
Renato Fioretti