Trent’anni, e trent’anni sembran pochi, poi ti volti a guardarli e non li trovi più. Enrico Berlinguer è morto nel 1984, siamo nel 2014, il conto è presto fatto, e nuvole sparse di berlinguerismo si addensano dappertutto. Negli ultimi giorni sul Corriere, con una (per me, magnifica) intervista a Macaluso che ne rivendica la politica «tutta dentro il togliattismo»; su Repubblica con Scalfari che lo definisce «il comunista timido che mi ricorda Papa Francesco» (« mi ricorda », dice Scalfari, perché è fatto così : non riesce a non parlare di sé, nemmeno quando è animato dalle migliori intenzioni di parlare d’altri. Bisogna avere pazienza).
Ma quello che mi colpisce di più è che Enrico Berlinguer sia stato citato da Alexis Tsipras. Cioè dalla «stella della sinistra radicale europea» come lo definisce, sobriamente, Micromega. Cioè da colui che è «l’unica speranza per [l’Europa] solidale, dei popoli, della democrazia, della dignità» (è lui stesso, Tsipras, presumibilmente in un momento di particolare modestia, a definirsi così. Sempre su Micromega).
E fioriscono appelli a ritrovare lo spirito di Berlinguer, considerato quello della «vera sinistra» «che non si vergognava dei propri ideali», che stava «dalla parte degli ultimi», che non aveva venduto l’anima e tutto il resto all’odiato capitalismo, e du du da da da. Insomma, di una sinistra «autentica» chiaramente contrapposta, nelle intenzioni degli sbandieratori, a quella «falsa» (leggi : al PD), che invece avrebbe tradito se stessa e starebbe ormai più con le banche e con i famosi « poteri forti » che con la gente.
Tutto bello, tutto giusto il bene che si dice di Berlinguer. E del resto lo aveva detto persino Giorgio Gaber in un suo monologo, che «Berlinguer era una brava persona», e Roberto Benigni se lo era preso in braccio alla festa dell’Unita, e aveva girato un film con Bertolucci che si intitolava «Berlinguer ti voglio bene», e poi un po’ più tardi Antonello Venditti aveva pure cantato « dolce Enrico ». E insomma a Berlinguer volevano bene in molti.
A quel tempo io ero un ragazzo (che giocava a ramino e fischiava alle donne – ma poco, perché ero timido e poi non ho mai saputo fischiare come si deve), e un po’ di bene gliene volevo anch’io.
E me lo ricordo il giorno della sua morte, il titolo dell’Unità, «è morto», così, senza neppure il soggetto. E credo di ricordare anche il volto di Sandro Pertini chino sulla bara, e Giorgio Almirante in visita a Botteghe Oscure, con il viso di pietra grigia come il suo vestito, il vecchio repubblichino che trova a riceverlo il capo partigiano «Nullo» – Giancarlo Pajetta; e i funerali a Roma, e le foto sull’Espresso con le donne comuniste sbracciate con i pugni alzati e il sole accecante sull’asfalto di Roma. E sì, può darsi che davvero ancora in quel momento ci fosse nell’aria, nelle cose, un sentimento epico e popolare, che ora non c’è più. Può darsi.
Però. Però io vi devo confessare una cosa. Sarà che sono passati trent’anni e anzi di più, dai tempi in cui Berlinguer c’era davvero e non era ancora una figurina, un souvenir d’Italie. Sarà magari che allora ero un ragazzetto ed è passato del tempo e non mi ricordo più tanto bene. D’accordo, sarà tutto questo. Ma – ve lo giuro!– a me sembra proprio di ricordare che le cose stessero diversamente. A me pare di ricordare che, a quelli come ora potrebbe essere Alexis Tsipras, Berlinguer non piacesse mica tanto. Anzi. Secondo me, a quelli che si considerano i soli seduti dalla parte della ragione (perché ritengono che tutti gli altri occupino i posti del torto) Berlinguer faceva veramente schifo.
Per tutto un complesso di cose. Perché era l’architetto del «compromesso storico» (orrore!) e il compromesso storico, sempre a quelli della «vera» sinistra, ispirava ribrezzo; figuriamoci, come si poteva pensare di allearsi con la Democrazia Cristiana, considerata dai puri e duri, senza distinguo, «un’associazione a delinquere», «la rappresentante degli interessi degli americani e dello stato imperialista delle multinazionali» ? E che dire del suo suo partito, il PCI ? Per gli avanguardisti di sinistra, quel partito altro non era che un «oggettivo» alleato dell’odioso sistema capitalistico, che pretendeva di rappresentare gli interessi degli operai ma in realtà li ingannava, imbrigliando la loro naturale e spontanea forza rivoluzionaria. Un partito che impediva di fare la rivoluzione e che si riconosceva nelle istituzioni democratiche, cioè nel «comitato d’affari della borghesia».
Insomma, sicuramente mi sbaglio, ci dev’essere senz’altro un piccolo errore; eppure a me sembra proprio di ricordare che, per quelli che sono «oltre», anzi, «più oltre», Enrico Berlinguer, con rispetto parlando, fosse uno stronzo. Praticamente, a sentir loro, un «fascista».
A me Berlinguer piaceva – perché era colto, riflessivo, tormentato, e mi sembrava ombroso e umano, e perché era pragmatico, razionale, e perché era rispettoso delle tradizioni politiche diverse dalla sua, perché ascoltava con rispetto e attenzione Ugo La Malfa o Aldo Moro o ancora altri avversari politici. Mi piaceva ; liberamente e criticamente, intendiamoci, perché non era una figurina da venerare, un’icona, un santo. E allora mi interrogo pensoso. Sugli scherzi che gioca il tempo. Quegli scherzi che consentono a molti che gli sputavano addosso da vivo (o che magari lo avrebbero fatto, anagrafe permettendo) di usare Berlinguer, adesso, come immaginetta votiva.
Maurizio Puppo
Il Berlinguer di tutti.
Storia e agiografia
Ho letto l’articolo devo dire che dopo il brivido d’indignazione per la frase scalfariana che parla di Berlinguer come «il comunista timido che mi ricorda Papa Francesco» la lettura è stata interessante. Detto questo penso che per approfondire storicamente , e senza fare agiografie fuorvianti, la figura di Berlinguer, non si può fare a meno che capire il vero ruolo del Pci togliattiano del dopoguerra. Una chiave si trova nel libro di Ermanno Rea Mistero napoletano, in cui sono documentati con nomi e cognomi fatti e misfatti del Pci e della sua classe dirigente.Questo per capire fino in fondo quali furono le matrici che hanno portato, dopo trent’anni, quel partito molto lontano dalla « questione morale ».
Gian Carlo
La felicità non è, ma era…
…e quindi non sarò certo io a doverti ricordare gli inganni della memoria, gli scherzetti del tempo, la ricostruzione selettiva del ricordo, e poi, in tempi magri, i miti vengono su dal niente, anche se devo dire che Enrico, il suo mito, se l’è coltivato bene da subito.
Povero, non è colpa sua (o forse è merito suo?), ma gli altri gli hanno cucito il cappottino in tempi quasi non sospetti, e tu li hai citati, che dire del (pessimo) Bertolucci, senza addensarci in paragoni cinematografici con i film che sono stati « cagate pazzesche » ma divinate (vedi anche storia recentissima, almeno per me).
E allora. Quando la politica è religione. Ma la politica, è religione?
A quel tempo, anch’io ero un ragazz – accio, e passavo le estati a Porto Santo Stefano, a pescare polpi, con la mia famiglia, e i nostri amici. E la mia vita odorava di felicità. Sai, quell’odore intermittente, ma inconfondibile. Però, forse anche questo, semplicemente « era ». La folla di ricordi mi fa deviare verso un presente recente, e ti dico solo che quando vado a Roma, e devo dare un appuntamento a qualcuno, dico: ci vediamo in via delle Botteghe Oscure, non dal PCI, ma davanti a quel bel ristorante, hai presente?
La felicità non è, ma era…
Grazie, Irene – ed è vero, ci sono « gli inganni della memoria, gli scherzetti del tempo, la ricostruzione selettiva del ricordo », c’è tutto questo – ed è anche questo, talvolta, ad aiutarci a vivere, almeno credo, almeno un po’. Quando si ricorda tutto, come l’Ireneo Funes, « el memorioso » di Borges,(per il quale il mondo altro non è che la somma di un numero mostruoso di dettagli)non si ha più memoria di nulla. Ciao, maurizio