L’umanità ha debellato tante piaghe (peste, colera, vaiolo…). Ce n’è una però che è in piena salute e anzi si rafforza sempre di più. È il turismo. Più o meno è come la peste: dove arriva (e purtroppo arriva dappertutto) distrugge ogni cosa. Ma, a differenza della peste, temo che i suoi danni siano irreversibili.
Sto esagerando? Un po’, certo. Ma, dietro il paradosso, credo ci sia una verità. Guy Debord diceva che nella “società dello spettacolo” (ed è evidente che ci siamo dentro) la realtà è progressivamente sostituita dalla sua rappresentazione. E questa sostituzione comporta, io credo, una mutazione, una trasformazione profonda della stessa realtà rappresentata.
Quando torno nella mia città natale, Genova, l’aeroporto mi accoglie (si fa per dire, visto il carattere notoriamente ospitale di noi genovesi) con muri tappezzati di fotografie di focaccia, basilico, scritte del tipo “pesto ti amo”. Un emporio che vuole vendere la sua merce a chiunque passi di lì (gli amministratori locali chiamano orgogliosamente questa pietosa offerta di mercanzia “valorizzare le nostre eccellenze”).
Nel centro storico, i carruggi, scompaiono poco a poco i vecchi negozietti ombrosi e scontrosi; quelle mercerie con padrone in maglioncino giallo e cravatta (dove si trovava ogni cosa al mondo, ma occorreva pazienza) e quei bar spogli dove, se non si era conosciuti, non si veniva mica serviti subito, bisognava fare anticamera ad ascoltare gli interminabili discorsi degli habitués, speranzosi di fare colpo sulla barista. Questi negozi vengono sostituiti da commerci che si vorrebbero moderni e spiritosi, con in vetrina la maglietta con scritto “Belin!”, e che propongono l’“esperienza” (tutto è ormai diventato esperienza, Dio solo sa perché) della “vera” colazione alla genovese: focaccia inzuppata nel caffelatte. (Mia nonna a dire il vero a colazione la focaccia la accompagnava con il vino bianco). Un teatrino che mette in scena la realtà, che pretende di rappresentarla nella sua autenticità (altro termine divenuto insopportabile), al punto da trasformarla in una baracconata, ad uso di quelli che scendono a frotte dalle navi da crociera (come dei galeotti) per l’ora d’aria.
Non mancherà, nell’offerta turistica, anche il pellegrinaggio nei luoghi “poetici” (o pseudo- tali): la Spianata Castelletto di Giorgio Caproni («quando mi sarò deciso di andarci, in paradiso, ci andrò con l’ascensore di Castelletto»), la Via del Campo di de André, la Boccadasse della fidanzata di Montalbano. Perché il turista (cioè ognuno di noi quando viaggia, inutile far finta di nulla) nella sua infinita voracità vuole tutto. Applicando a modo suo i precetti marcusiani, domanda l’impossibile: sentirsi, oltre che turista, anche intelligente. E così facendo, trasforma persino la poesia (inconsumabile, secondo Pasolini, e inutile, nel senso di non asservita a nulla, per Montale) in materiale di consumo. Spezzando, in questo modo, ogni incanto che abitava quei luoghi.
In molte città, i quartieri popolari di un tempo, dove viveva gente normale, inconsapevole di essere un’attrazione turistica, si sono dapprima “gentrificati” (come si dice con orrido anglicismo); cioè divenuti (fuor di anglicismo) chic e carissimi. E ora quegli stessi quartieri si stanno convertendo in luoghi di fantasmi, con le case affittate lucrosamente a turisti che vanno e vengono, tutti uguali. Il turismo è una belva insaziabile e cerca sempre nuove vittime (che chiamerà “nuovi orizzonti”).
Un tempo in Italia i visitatori si ammassavano soprattutto a Roma, Firenze e Venezia, sulle isole e in generale sulle spiagge d’estate (e neanche tutte). Ma i turisti (soprattutto quelli “intelligenti”) vogliono cambiare, non amano la routine, sono rimbambiti dalle giaculatorie tipo la poesia di Martha Medeiros: «lentamente muore chi non viaggia». (Ma figuriamoci. Semmai, come dice Pascal, tutti i nostri guai nascono dal non poter trascorrere la vita quietamente nella nostra stanza).
Per variare l’offerta, sono state fatte diventare turistiche anche città scostanti e ombrose (e proprio per questo misteriose, sfuggenti, magnifiche) come appunto Genova, o Torino, Trieste. Il turista «insegue il suo sogno», come gli impone il mantra della felicità obbligatoria. Ma in realtà non è interessato a vedere ciò che esiste, a cogliere la realtà, anche nei suoi aspetti eventualmente deludenti o urticanti. Vuole, soprattutto, trovare ciò che conosce già, fare il selfie con il volto sorridente vicino a qualcosa di facilmente riconoscibile. Non sopporta di essere deluso: ha pagato e quindi rivendica il suo diritto alla felicità. Al ritorno da vacanze barbose ed estenuanti, in coda per ore sotto il sole per vedere piazze, monumenti o quadri di cui non gli importa nulla, pieno di fotografie digitali uguali a tutte le altre e che non guarderà mai più, dirà a parenti, amici e colleghi: c’était super! Perché nel suo mondo non esistono espressioni che non siano superlative.
Jean Mistler definiva il turismo « l’industrie qui consiste à transporter des gens qui seraient mieux chez eux vers des endroits qui seraient mieux sans eux ». Vero. Ma pensando a noi, al nostro essere turisti per forza, anche quando ci crediamo viaggiatori, verrebbe voglia di parafrasare Sartre: “I turisti, sono gli altri.”
Maurizio Puppo
Quanto ha ragione Maurizio Puppo! Da napoletana, non ho più voglia di tornare nella mia città, che tanto adoro. Anche Napoli, generalmente l’ultima della classe, è invasa, svuotata presto della sua anima, che tanto affascina gli artisti !
(Per quanto tempo ancora?). Ora i « turisti » magicamente, non hanno neanche più paura dei ladri e della camorra, che facevano la felicità dei pennivendoli di tutto il pianeta.