Ancora oggi, a 500 anni dalla sua composizione, « Il Principe » di Machiavelli è suscitatore di divisioni e polemiche. Dal suo contemporaneo Gentillet al sovrano di Prussia Federico II fino ad oggi, il simbolo della nascita dell’età moderna, il creatore della politologia, mantiene la sua attualità anche in confronto alla crisi della politica di oggi. Laicità e morale, Stato ed egemonia tra i temi « principi ».
Ricorrono cinquecento anni dalla pubblicazione del celebre trattato politico che ebbe così larga diffusione e tante polemiche suscitò negli ambienti colti dell’Italia e d’oltralpe. Fu pure posto all’Indice dalla Chiesa e considerato immorale. La sua contestazione creò il filone dell’antimachiavellismo cui possono ascriversi il francese Innocent Gentillet e più tardi anche Federico II di Prussia. Il primo, Gentillet (1535-1588), giureconsulto, esponente del movimento ugonotto, che a causa dei conflitti religiosi fu costretto ad espatriare a Ginevra. Egli ebbe popolarità e fama con la sua opera: Discours contre Nicolas Machiavel Florentin (1576), conosciuta come l’Anti-Machiavel. Il secondo ben noto, detto il Grande (1712-1786), fondatore della potenza prussiana e germanica, fece del suo trattato, l’Anti-Machiavel, uscito a Londra nel 1747, il manifesto del principe illuminato, quale egli si proponeva d’essere, fedele interprete degli ideali umanitari. Voltaire però, nonostante fosse suo amico, persino suo ospite per il periodo dal 1750 fino al 1753, lo contestò.
Le origini e lo sviluppo
Concepito in un momento di grandi trasformazioni politiche del Comune di Firenze, Il Principe ritorna in auge nei momenti di crisi della politica, quando le regole istituzionali d’uno stato sembrano confuse ed imminente appare il caos delle interrelazioni sociali, come nel nostro tempo.
Allora c’è chi ad esso s’appella, imputandogli l’isolamento della politica che sovrasta qualunque altra attività umana e chi invece lo chiama in causa per avvalorare la tesi della necessità di fermezza e di accortezza in fatto di tenuta d’uno stato.
Il rimedio, colto a volo rapidamente, è in quella sua strana e spregiudicata teoria d’un principe, “volpe e lione”, ossia abile, pur di governare, a sostituire alle tradizionali virtù, l’energia che è anche violenza e l’attitudine alla menzogna ed all’inganno.
La formula della dittatura è confezionata così per assicurare il ritorno all’ordine ed alla regola, espressamente voluta da uno solo contro un popolo che dovrebbe, tra battiture e repressioni, non si sa come, divenire saggio e docile. Ma ci chiediamo, considerando gli esempi a noi più vicini: è stato così per il regime dei colonnelli in Grecia, per la Spagna di Franco, per i Gulag di Stalin in Russia, per l’Italia di Mussolini, per la Polonia di Jaruzelski, per il Cile di Pinochet, per Cuba e così via ? Sicuramente no.
Nessun rifiorire di civiltà dopo le dittature, ma lacrime e sangue per asciugare i quali occorrono anni di dolorosa e drammatica fatica. All’alba d’un nuovo millennio abbiamo questa certezza: è un grande errore pensare di rifugiarsi nell’idea di un’unica figura imperante.
Pure le grandi monarchie, che s’arrogavano il diritto d’esistenza direttamente da Dio, monarca assoluto dell’universo, si sono estinte, ad eccezione di poche divenute parlamentari con un sovrano tipicamente rappresentativo di tutta l’intera comunità. Al loro posto consigli democratici,elettivi, con il compito di scegliere e fissare le leggi dopo ampia consultazione e provvedere ai bisogni d’un sistema articolato, oltre che nel potere legislativo, nell’esecutivo e nel giudiziario. Ma chi assicura l’assenza della corruzione? Secondo me, questo è il cuore del problema politico che resta molto controverso anche nei regimi democratici. Fondandosi la politica su di un’essenza prettamente umana è quasi impossibile che non ci siano pecche, deviazioni, debolezze che talvolta vengono scambiati per pregi.
Gli antichi, con Platone in testa, avevano pensato ad una scuola di filosofi cui delegare il potere, proprio per assicurare imparzialità, saggezza, equilibrio e trasparenza. Ma era l’epoca delle utopie e della sopravvalutazione della filosofia che oggi a stento riesce a spiegare il principio dell’esistenza, figuriamoci della politica.
Nel Seicento e Settecento il dilemma coinvolse i teorici della cosiddetta Ragion di Stato con Botero ed i suoi seguaci, convinti che, se ai filosofi si fossero sostituiti politici illuminati dalla fede cristiana, il dilemma dell’assenza della morale nel pensiero di Machiavelli si sarebbe risolto a tutto vantaggio dei cittadini governati. Ma neppure questa ipotesi fu avvalorata, perchè andava a ritroso, ricollegandosi all’antica trascendenza, contro il pensiero del segretario fiorentino imperniato su di un potere politico sganciato da ogni condizionamento e fondato sull’utile.
Di Machiavelli si poteva accettare l’idea della politica come scienza e come arte del governare, anche se essa restava fredda affermazione, molto lontana dalla prassi che è tumulto e sregolatezza di sensazioni.
Nella Storia della Letteratura italiana di De Sanctis, infatti, si legge una frase che dice tutta l’emozione d’un liberale nel momento della liberazione di Roma, il 20 settembre del 1870:
In questo momento che scrivo, le campane suonano a distesa e annunziano l’entrata degli Italiani a Roma. Il potere temporale crolla e si grida Viva all’Unità d’Italia. Sia gloria al Machiavelli !
Un’espressione che compendia il culto del pensiero di Machiavelli che attraversò il Risorgimento.
Tutti i liberali si riconoscevano nell’opera sua che aveva rivendicato in senso moderno la lotta ai particolarismi e alle interferenze estranee alla politica per il bene della patria che allora era la nazione unita.
Conclusioni
Oggi non è più così: sono intervenuti profondi cambiamenti strutturali nei popoli e negli stati, flussi migratori si alternano dentro i confini di quello che prima era considerato terreno sacro di una Nazione. Siamo andati al superamento del concetto d’una terra che appartiene di peculiarità solo ai nativi. Stiamo allenandoci al multiculturalismo ed alla multietnia. E’ l’epoca della globalizzazione che vuole che una terra sia di tutti e dentro cui tutti debbano poter stare, possibilmente senza razzismi, odi e contese. Potremmo dire è giunta l’epoca dell’internazionalismo. Ma le regole ci vogliono e la temperanza pure. I governi devono sapersi raccordare e procedere ad uno sviluppo ordinato.
Allora ritorna Machiavelli, ma riveduto e corretto: alla categoria dell’utile, bisogna aggiungere come contrappeso la giustizia e l’equità. In che misura e secondo quali itinerari non è ancora dato per acquisito. Fondamentale è però il concetto che la politica è un’arte difficile, d’equilibrio tra esercizio di saggezza, prudenza, energia, clemenza e solidarietà e, considerati i molteplici contrasti dell’attuale società, impossibile che possa essere gestita da una sola parte.
Ma la reductio ad unum, di messianico sapore, tornata in auge con l’avvento del nuovo Papa Francesco, s’affaccia quale ultima utopia ad insidiare la realtà che vede una pluralità multietnica dilagante nel mondo.
Allora Machiavelli non è dimenticato, ma come succede sempre per i grandi geni, il suo pensiero fermenta sotterraneamente e s’adegua ai nuovi modi d’essere e di praticare il governo dei popoli. Ammonisce chi è succube e lo aiuta a comportarsi con prudenza, a privilegiare la razionalità all’insensatezza ed al caos. Il positivo ed il negativo delle sue teorie sul potere si combinano insieme, quasi con effetto paradossale, ora per sradicare i difetti, ora per incoraggiare crescita e sviluppo. Il suo pensiero non vale solo per piccole entità statali, ma per quanti hanno in mente aggregazioni di stati e confederazioni, onde assicurare loro compiutezza di programmi e continuità di durata nel tempo.
Anche la questione che attualmente si discute dell’unità politica europea, nel nostro occidente, passa attraverso il filtro delle sue ammonizioni e delle sue proposte, rinviando sine die la discussione dell’utilità o meno del suo farsi, prima che divenga realtà.
Gaetanina Sicari Ruffo