I biglietti cinesi di Puppo. Da Hong Kong a Pekino passando per Lamma e Macao

Per la rubrica “Italiani in giro” dell’estate 2025, ecco che ci arrivano mano mano dalla Cina brevi cronache di viaggio a firma di Maurizio Puppo, illustrate dalle sue splendide foto. Godetevi con curiosità questo viaggio a puntate!

I – Hong Kong: l’impero del consumo

Hong Kong è stata la capitale dell’oppio; ora lo è del consumo. I quartieri centrali sembrano un gigantesco centro commerciale, fatto di modernità e cemento, con una luce di cristallo che dai grattacieli si riflette sull’acqua. È una città che non si ferma mai: tanta gente che lavora, tanta gente che produce. E acquista.

Hong Kong, capitale del consumo.

Mi sembra che la vetta sia raggiunta dai negozi di Don Don Donki, catena giapponese. Dentro c’è qualunque cosa di cui tu non abbia bisogno, e a prezzi stracciati. I corridoi sono labirintici e stretti, per trattenere i clienti e ammucchiare più merce possibile (i costi immobiliari a Hong Kong sono vertiginosi: la media è di oltre 40.000€ al metro quadro). Gli altoparlanti diffondono una canzone ossessiva: Don Don Don, Donki, Don Don Donki. Consumo nostro che sei nei cieli, I’m in paradise, it’s a wonderful place for me.

La chiave di ingresso a questo paradiso (all my dreams come true) è una schedina chiamata Octopus: si compra dappertutto, e permette di pagare ovunque, in pochissimi istanti (nel business model di questi negozi, studiato da spietati esperti, abbattere i tempi di pagamento è fondamentale). Whatever I want, anything I need, I can find it for sure. Alla fine della canzone, pochi secondi di silenzio. Illusione: la musica riparte subito, implacabile ed entusiasta. Le persone che lavorano qui, alla fine di un altro giorno, l’avranno ascoltata oltre 150 volte. Sorridenti e gentili, come da disposizioni aziendali. Chissà se la canticchiano, tornando a casa, nelle periferie. Forse anche loro, come il protagonista di 1984 (e probabilmente come tutti noi, ciascuno a suo modo) hanno imparato ad amare il loro Grande Fratello.

negozi di Don Don Donki, catena giapponese
Hong Kong, negozio Don Don Donki, catena giapponese

All’impero del consumo ci si sottrae andando sul versante sud dell’isola, nel meraviglioso quartiere di Aberdeen: con la silenziosa passeggiata sul mare, i pescatori, le case galleggianti, un uomo che si esercita a ping pong su una panchina, palleggiando a ritmo velocissimo sullo schienale. Da qui, un traghetto porta a Lamma: l’isola degli expat.

Hong Kong, quartiere di Aberdeen
Hong Kong, quartiere di Aberdeen

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II – Lamma: l’isola degli expat

Basta mezz’ora, da Hong Kong, per arrivare sull’isola di Lamma: ed è bellissimo perdersi in questo incantesimo. Case basse, niente automobili, solitari sentieri, spiagge silenziose di sabbia rossiccia. Come in un sogno, sul mare, sorge, imprevista e spettrale, una centrale elettrica.

Lamma, isola post-hippy e industriale, è piena di expat; termine usato per indicare gli emigranti chic, con soldi e stili di vita sofisticati. Molti sono inglesi e francesi. Uno di loro ha lavorato per anni a Hong Kong nel campo dei prodotti di lusso. Si è fatto licenziare (j’avais fait le tour, si dice così), preso un po’ di soldi, comprato una casa da affittare a prezzi anch’essi chic, e realizzato quello che sembra essere diventato lo scopo ultimo dell’esistenza: profiter. Gira in barca, organizza feste, ostenta amicizie prestigiose (Madame la Consule, Monsieur l’Ambassadeur: possibilmente indicati con il loro nome, per mostrare familiarità). Chiedo se a Hong Kong (tornata cinese nel 1997 dopo un secolo e mezzo sotto la bandiera britannica) si sente la longa manu di Pechino. Dice che il difficile è venuto dal 2019 in poi: prima, le proteste per la legge sulle estradizioni verso la cosiddetta Cina continentale (due milioni in piazza, su una popolazione di sette); dopo, la severissima politica sanitaria per la pandemia. Quando il governo ha ipotizzato di separare, in caso di contagio, figli e genitori, molti expat sono scappati. Gli expat si sentono cittadini del mondo, sono poliglotti, hanno buon gusto, case formidabili, e persino una coscienza civica: si preoccupano delle politiche autoritarie e repressive (quando sono loro a esserne toccati direttamente, si intende).

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Se Lamma è il paradiso (un po’ perduto) dei benestanti chic e cool, c’è un altro luogo che invece che, con le sue case da gioco, sembra fatto per ricchi dai gusti pacchiani: Macao. Nome esotico e misterioso, che richiama i diari di viaggio di Joseph Kessel, cantore critico del tardo colonialismo novecentesco. Ma Macao, dov’è?

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III – Ma Macao, dov’è?

Macao non è da nessuna parte. E cosa sia, nessun lo sa. Non è Portogallo, non è Las Vegas e non è la Cina: è tutte queste cose assieme. Ci sono le stradine e i colori, gli sterminati alberghi per il gioco d’azzardo, il mare, la storia coloniale (è stata portoghese fino al 1999) e la sorveglianza del regime cinese, ovunque.

Macao

Proprio perfetto per me, il non essere da nessuna parte. Si arriva in traghetto in un’ora scarsa, da Hong Kong. Dal 2018 c’è anche un ponte, lungo 55 km. E si trova l’unico luogo della Cina in cui sia autorizzato il gioco d’azzardo (situazione che risale a una decisione del Portogallo a metà Ottocento, più o meno nello stesso momento in cui i mormoni fondavano Las Vegas). Qui, tutto è falso. Finte Londra, Parigi (con copia della Tour Eiffel), Venezia. Sopra di me, il cielo blu con nuvole soffici: finto. Frusciano mazzi di banconote: nonostante diverse normative per contrastarlo, il posto è ideale per riciclare i soldi sporchi. Il giro d’affari è il quadruplo di quello di Las Vegas. Compro un po’ di gettoni e mi metto a giocare a una slot machine. Quel poco, ovviamente lo perdo subito. Accanto a me, invece, un ragazzo un po’ goffo, insaccato in una maglietta slabbrata, e giocando a velocità siderale, accumula vincite. Il gioco, in apparenza, sembra puramente legato al caso. Evidentemente non è così, sono io a essere imbranato.

Macao, finta Venezia

Il quartiere delle case da gioco è un abisso di finzione, da cui scappare. il centro storico invece è una meravigliosa allucinazione lusitana, in cui perdersi. Case color pastello (verde menta, celeste, rosa, giallo chiaro), chiese, ceramiche bianche e blu, i dolci portoghesi, i pasteis de nata. I nomi delle vie sono in portoghese e cinese.

Sulla strada verso l’albergo vedo le mura di una prigione, e poco dopo il cancello di un canile. Mi avvicino e un guardiano, stretto nella sua divisa, mi respinge con un gesto. Nel morbido sguardo della sera che già comincia a calare, finisco in una spiaggia quasi vuota, dove ci sono telecamere e sorveglianti che mi sorridono. Anche questa è Cina, anche se non lo è. La prossima tappa sarà Pechino: ancora non lo so, ma sarà l’incontro con la giovinezza della nazione.

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IV – Pechino: la giovinezza della nazione

Non avevo nessuna idea, su Pechino. Nel mio immaginario, c’erano solo le cose più scontate: le immagini cinematografiche dell’Ultimo Imperatore di Bertolucci, o quelle della repressione con i carri armati, a Piazza Tienanmen, nel 1989, quando morì un altro pezzo di ogni innocenza. Non sapevo se aspettarmi una città vecchia o moderna; socialista o capitalista; sfrenata, oppure incrinata dal peso degli anni e del potere, dall’enormità del paese di cui è capitale.

Arrivo in un aeroporto scintillante di modernità, aperto nel 2019: Daxing. Alle pareti, in cinese e inglese, le parole d’ordine del presidente Xi Jinping, sullo sviluppo “green”: a civilisation prospers only when ecology is well protected. Sulla strada che porta in città, batterie di palazzoni tutti uguali: formichieri di periferia. Poi, trovo invece una Pechino più quieta e umana. Anche dura a suo modo, eppure inaspettatamente dolce. Povera e ricca allo stesso tempo. Il quartiere, Dongcheng, è sopravvissuto alle brutali demolizioni dei quartieri storici per le Olimpiadi del 2008, con migliaia di persone espulse dal centro. Ci sono ancora gli hutongs, i vicoli stretti, e le case basse. Le porte sono aperte, danno su cortili poveri e quieti.

Dai muri pende la vegetazione. Persone anziane sono sedute sulle sedie e mi guardano. Sui muri, le foto dei poliziotti di quartiere. Passano biciclette, carretti pieni di roba, motorini. Ragazzi che ridono e giocano. Ogni pochi metri ci sono bagni pubblici: immagino che sia dovuto alla mancanza di servizi in molte delle vecchie case. Sembra di essere in campagna. Invece siamo a poche centinaia di metri dalla Città Proibita, per cinque secoli (fino al 1912) residenza dell’Imperatore; dalla sconfinata Piazza Tienanmen, centro di un paese di un miliardo e quattrocento milioni di persone, grande trenta volte l’Italia; e da una strada, Gui Jie (strada dei fantasmi), conosciutissima, in cui dalla ressa non si riesce a camminare. Famiglie, bambini, ragazzi, turisti provenienti dal resto del paese passeggiano, chiacchierano, fumano, bevono nei locali con la foto di Mao.

Mi spunta in testa una frase: la giovinezza della nazione.  L’immagine di un paese sconfinato e millenario che sembra un bambino. E che come un bambino, è animato da una santa voglia di vivere. Da una specie di innocenza, di vitale superficialità. Il partito, il governo (le foto di Mao, la bandiera rossa con le cinque stelle gialle, onnipresente) gli sono madre e padre.

(continua)

Maurizio Puppo 

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Maurizio Puppo
Maurizio Puppo, nato a Genova nel 1965, dal 2001 vive a Parigi, dove ha due figlie. Laureato in Lettere, lavora come dirigente d’azienda e dal 2016 è stato presidente del Circolo del Partito Democratico e dell'Associazione Democratici Parigi. Ha pubblicato libri di narrativa ("Un poeta in fabbrica"), storia dello sport ("Bandiere blucerchiate", "Il grande Torino" con altri autori, etc.) e curato libri di poesia per Newton Compton, Fratelli Frilli Editori, Absolutely Free, Liberodiscrivere Edizioni. E' editorialista di questo portale dal 2013 (Le pillole di Puppo).

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