Lo scrittore e libraio Alessandro Barbaglia ha scritto un magnifico libro sugli scacchi: La mossa del matto (Mondadori). Proprio in questi giorni, con il titolo Le coup du fou, il libro esce anche in Francia, per le Éditions Liana Levi, nella traduzione di Jean-Luc Defromont.
“Bobby Fischer, l’Iliade et mon père”, dice il sottotitolo dell’edizione francese: Barbaglia parla di scacchi per parlare d’altro. La leggendaria partita del 1972, in piena guerra fredda, tra l’americano Bobby Fischer e il sovietico Boris Spassky, è la rappresentazione di un eterno duello: quello tra una fragile, disperata ferocia (Fischer) e una misteriosa, dolorosa astuzia (Spassky). I cui archetipi sono, rispettivamente, Achille e Ulisse, protagonisti dei due testi fondativi della cultura occidentale, Iliade e Odissea. E in quello specchio che sono gli scacchi, rappresentazione delle infinite combinazioni che governano il mondo, riemerge la figura del padre psicanalista, morto quando l’autore era poco più di un bambino: “sei e sarai sempre mio padre, papà”.
Alessandro Barbaglia è nato nel 1980 e vive a Novara. Per Mondadori ha pubblicato La Locanda dell’Ultima Solitudine, finalista al premio Bancarella, L’Atlante dell’Invisibile, Nella balena, e Scacco matto tra le stelle (premio Strega Ragazzi).
Lo abbiamo incontrato per Altritaliani, grazie alla cortese collaborazione delle Éditions Liana Levi e di Amandine Labansat, responsabile Presse et Communication.
INTERVISTA
(Maurizio Puppo) Il gioco degli scacchi è lo sport più violento che esista, dice Kasparov.
(Alessandro Barbaglia) È per questo che non sono un vero scacchista. Giochicchio, ma sono soprattutto un grande appassionato di storie di scacchi e di scacchisti. Gli scacchi hanno a che fare un lato oscuro, violento, aggressivo. Quello che accade sulla scacchiera non è niente rispetto a quel che accade nell’animo dei giocatori. Ogni scacchista si trova davanti a tre avversari. Uno è il giocatore che ha di fronte. Poi c’è lo scacchista che ha in sé, e rispetto a cui può sentire uno stato di inferiorità, il timore di non essere all’altezza delle proprie capacità. Infine, il gioco. Un mostro gigantesco, infinito, meraviglioso, fatto di impossibilità e tranelli. Negli scacchi c’è una violenza che ti strappa dalla realtà. Sei contemporaneamente uno e molti.
Gli scacchi corteggiano l’infinito (come scrivi, il numero di partite possibili è dieci elevato alla potenza 123. Un numero finito, ma impossibile da pensare). E anche la follia, la moltiplicazione delle personalità.
Gli scacchi tendono all’infinito, pur non raggiungendolo. L’infinito è sempre più ampio di una partita. Ma c’è un contatto. Con l’infinito e con la follia, il diverso, ciò che ci spiazza al punto di metterci dinanzi a un baratro, in cui possiamo guardare o a cui voltare le spalle. Possiamo illuderci che il baratro non esista. Ma gli scacchi ce lo ricordano. Come capita quando hai a che fare con una persona che ha una sofferenza psichica o psichiatrica. Quella è un’altra esperienza abissale. Che ti ricorda che esiste qualcosa di molto più grande. Puoi ignorarla, quella persona che vive un dramma profondissimo. Oppure sederti con lei a un tavolino. Non per giocare a scacchi, ma per parlarle. Interessarsi al baratro altrui è un’altra forma di partita a scacchi.
Se guardi l’abisso, l’abisso guarda te, dice Nietzsche. La follia porta a un altro tema del libro, il rapporto con tuo padre, psicanalista. Tu scrivi: sei e sarai sempre mio padre, papà.
Un rapporto fondativo che mi piacerebbe provare a restituire a mio figlio Lorenzo, ora che sono padre anche io. Mio padre è morto trent’anni fa, a 42 anni. L’età che ho oggi.
In casa tua incontravi il neurologo Oliver Sacks, o lo psicanalista di Woody Allen.
È un’infanzia mitica in cui affondo le mani quando mi sento solo, in difficoltà. E che ha il pregio di esserci stata. Quel terreno esiste, qualunque cosa accade. Questo libro è stato un modo per provare a parlare con mio padre da coetaneo. Una mossa da pazzi.
Sbarbaro scrive: “padre, se anche tu non fossi mio padre”. Quali sono le figure genitoriali, “paterne”, nella tua formazione?
Alcuni amici di mio padre sono diventati figure paterne. Poi ho avuto dei maestri letterari. Mi sono sentito accolto dalla lettura di Gianni Rodari. Sono nato sul lago d’Orta, in Piemonte, dove consideriamo Rodari, nato a Omegna, nostro concittadino. Anche se in realtà ha vissuto quasi sempre a Roma. Mi ritrovo nelle sue filastrocche e nella sua pedagogia. Nel modo adulto e consapevole di affrontare l’infanzia, che non relega il bambino a un ruolo marginale. Poi c’è Italo Calvino. Un maestro. In ogni suo libro hai a che fare con un Calvino diverso. Quello delle Lezioni americane è molto diverso da quello del Barone rampante. Più tardi, una figura paterna letteraria è stata Truman Capote, di cui sono follemente innamorato. Penso al suo libro A sangue freddo, che considero un gigantesco capolavoro. O Musica per camaleonti, un libro di interviste dove non capisci mai se l’intervista è inventata, se c’è stata davvero.
Nel tuo libro c’è Sartre: “les hommes, il faut les voir d’en haut”.
Bisogna vederli dall’alto, cioè nel complesso, nella loro statura, e non su ogni loro singolo atto, come se facessimo un’autopsia morale. Bobby Fischer è un uomo complesso da valutare. Io ne sento il fascino, ma non posso ignorare quanto fosse misogino, antisemita, o dimenticare altre sue posizioni (magari dovute a un malessere personale profondo) inaccettabili, irricevibili. La frase di Sartre la abbino di più al suo avversario sovietico, Boris Spassky, che è un uomo di statura notevole. Anche nel rapporto con un uomo difficile come Fischer.
Ora siamo al centro del tuo libro: la partita tra Bobby Fischer e il suo compagno segreto (direbbe Conrad) Boris Spassky. Duello tra ferocia e astuzia, cioè tra Achille e Ulisse.
Non l’ho vissuta quella partita, sono nato dopo. Ma nella mia infanzia ne ho avuto moltissimi indizi, di cui uno clamoroso: mio padre che ne parla con i suoi colleghi. Mio padre aveva molti colleghi americani, nel suo ambiente tanti erano impegnati politicamente a sinistra. In quel microcosmo si ricreavano le tensioni della geopolitica. Di quella partita ho mai potuto parlarne con mio padre, chiedergli le ragioni di quella chiacchierata. Allora cerco di farlo seguendo l’archetipo del mito. Se quella è stata una partita mitica (per usare una definizione un po’ “plasticosa”), entrata nel racconto collettivo, allora proviamo a raccontarla con le parole del mito più antico e profondo che conosco, e che ha a che fare con la guerra, esattamente come gli scacchi e la guerra fredda: le parole di Omero e dell’Iliade. Un grande inconscio collettivo. Fischer e Spassky sembrano davvero incarnare la ferocia e l’inganno. Achille e Bobby Fischer stanno nella squadra della ferocia. L’inganno, l’astuzia, la strategia, appartengono a Spassky, e alla filosofia di vita di Ulisse. E quindi prendiamo Ulisse, Achille, la guerra di Troia come specchio della guerra fredda, vista come contrasto tra due blocchi colossali, gli achei e il blocco orientale dei troiani. È quello che ho provato a fare. Gli scacchi sono un gioco, Calvino e Queneau direbbero che anche la letteratura lo è. Io ho provato a giocare a scacchi letterari.
Tra Achille e Ulisse, che parte prendi?
Se consideriamo Dante, non possiamo che parteggiare per Ulisse. Se prendiamo Omero, il dubbio c’è. Ho un po’ di fascinazione per Achille. È il matto, il diverso. Perché era giovane, molto più giovane di tutti gli eroi in campo. Parte bambino per la guerra di Troia. Arriva a Troia quando ha forse dieci, undici anni. La guerra ne dura dieci. Gli episodi dell’ultimo libro, quindi, accadono quando ha poco più di vent’anni. È l’unico eroe che arriva con due precettori, da quanto è piccolo. La sua vita è macchiata dall’ombra del sangue. Sa che morirà giovane. In tutta l’Iliade, solo due figure esprimono parole violente, inaspettate, contro la guerra. Una è Andromaca, moglie di Ettore. Quando suo marito sta per essere massacrato da Achille, lei, con il figlio in braccio davanti alle Porte Scee, gli dice: cosa stai facendo, oltrepassa queste porte, chiudiamole e lasciamo fuori la guerra, occupiamoci della pace, della famiglia, di nostro figlio. La risposta di Ettore è violenta: non impicciarti delle cose degli uomini, taci e lasciami andare. Ettore prende il figlio in braccio e lo bacia, sa che è il loro ultimo incontro. Le porte si chiudono, Achille lo chiama, urlando. E qui Omero fa dire a Ettore una cosa modernissima: sono un cretino. Sono morto. La mia salvezza è passata un istante fa, quando potevo salvarmi. Pochi istanti dopo, Ettore sarà massacrato da Achille.
Quel che racconti è nel meraviglioso, silente quadro di De Chirico sul rapporto tra Ettore e Andromaca.
Il secondo personaggio a dire cose feroci contro la guerra è Achille. Le uniche parole di pace dell’Iliade sono pronunciate da una donna, Andromaca, e da Achille, che per certi versi è una figura molto femminile. Per la quale non posso che sentire una fascinazione profonda. So che è un macellaio, un guerriero. Ha la maledizione di essere quello che è. Come Ettore, potrebbe smettere di combattere, salire sulle navi e tornare a casa. Ma viene preso dall’ira funesta, dalla propria debolezza psichica. E finisce nel baratro dell’essere sé stesso. Mi sembra un uomo meno riuscito di Ulisse. Per questo gli voglio bene.
Achille ed Ettore rifiutano la salvezza. Per Zweig gli scacchi sono un modo di salvarsi dall’abisso. Per Borges, tra coloro che stanno salvando il mondo, ci sono “due impiegati che in un caffè del Sur giocano in silenzio agli scacchi”
Gli scacchi sono letterari. Non c’è dubbio. Rientrano nell’immaginario letterario perché sono uno specchio, o una lente di ingrandimento, sull’abisso. Ti dirò una cosa su cui sto riflettendo, forse un po’ sconclusionata.
Più sconclusionata è, meglio è.
Ho l’impressione che gli scacchi siano profetici. Che raccontino qualcosa in anticipo rispetto a quel che la società vivrà di lì a breve. Se vedo quel che capita nel mondo degli scacchi, ho l’impressione che si possa vedere quel che sarà il nostro rapporto con l’intelligenza artificiale tra qualche anno. Oggi l’intelligenza artificiale che gioca a scacchi non è più paragonabile a uno scacchista. Il miglior scacchista al mondo, contro i motori di intelligenza artificiale, ha poco più dell’1% di probabilità di vincere. Le intelligenze artificiali fanno tornei tra di loro, gli esseri umani pure. Tornare a quel che faceva Kasparov, cioè un torneo misto tra intelligenze umane e artificali, non è più possibile. Un grandissimo giocatore di oggi, Magnus Carlsen, nella migliore delle ipotesi riesce a fare il 50, 60% delle correlazioni di mosse di un giocatore artificiale. Vuol dire che i giocatori artificiali sono bravi il doppio di noi. Cosa accadrà quando questa interazione uscirà dal mondo degli scacchi? Io scrivo un romanzo, o dipingerò quadri, nella migliore delle ipotesi, belli la metà di quelli fatti dall’intelligenza artificiale? Succederà quello che sta già succedendo negli scacchi? Non lo so. In passato c’è stato un grande, e un po’ scriteriato, giocatore, Alexandre Alekhine, la cui storia ha anticipato e accompagnato l’avvento del nazismo, la seconda guerra mondiale, le persecuzioni sugli ebrei. Gli scacchi a volte sono un cannocchiale per vedere il domani. Cosa accadrà quando avremo l’intelligenza artificiale nella nostra vita, in casa? Forse saremo la parte stupida della casa.
L’intelligenza artificiale esplora, meccanicamente, le possibili combinazioni del mondo. Nella biblioteca di Babele di Borges ci sono tutte le combinazioni dei caratteri tipografici. Una di quelle pagine, dice Borges, descrive con minuziosa interezza la mia morte.
È un esempio che spesso faccio anche io. Qualche settimana fa ho presentato il mio libro con Piergiorgio Odifreddi, che mi ha chiesto perché mi piacciono gli scacchi. Gli ho risposto con questa citazione. Lui mi ha sgridato, mi ha detto che non ho fatto bene i conti; gli scacchi non vanno così lontano, dice.
Odifreddi è figlio di una cultura in cui la tecnica, come avrebbe forse detto Emanuele Severino, è egemonica, un fine in sé. Ma gli scacchi non sono una tecnica intermedia, imperfetta; sono la rappresentazione di un mistero.
È quello che dice Zeus agli uomini quando si lamentano che Prometeo ha distrutto il mondo: Prometeo è la tecnica, e io lo avevo incatenato. Voi vi siete ripresi Prometeo e con lui il fuoco. Lo avete voluto, lo avete scatenato. Adesso arrangiatevi.
Grazie Alessandro!
A cura di Maurizio Puppo
(Parigi, 13 ottobre 2022)
LE LIVRE:
Le coup du fou d’Alessandro Barbaglia
Bobby Fischer, l’Iliade et mon père
Traduction de l’italien par Jean-Luc Defromont
Liana Levi, page dédiée
224 pages
19€, version numérique 14,99€
Résumé du livre en français :
À l’origine de ce roman insolite, il y a un souvenir d’enfance. Un petit garçon écoute, fasciné, son père parler d’un être surdoué, névrosé, pour ne pas dire fou, devenu un maître absolu des échecs : Bobby Fischer. Ce nom reste gravé dans sa mémoire…
Bien des années plus tard, Barbaglia se retrouve lui aussi pris d’obsession pour « Bobby », et pour le rocambolesque championnat du monde d’échecs de 1972 en Islande qui l’a opposé au russe Boris Spassky. À travers une mise en abyme homérienne, où Bobby Ficher prend l’étoffe d’un Achille au destin hors norme, et Spassky celui d’un Ulysse fin stratège, l’auteur se frotte lui aussi à la démesure de la folie.
Chemin faisant, dans l’ombre de cet être aussi génial qu’inadapté, ressurgit la figure paternelle. Un itinéraire chaotique et délicat, sur les traces d’un père trop tôt disparu, qui explore ce que l’on garde en héritage quelque part entre l’Iliade et le damier.