Françoise Hardy: l’invenzione della giovinezza

Una domenica di ottobre del 1962, la Francia vota per il referendum sull’elezione diretta del presidente della Repubblica. È il momento in cui prende forma compiuta quel sistema istituzionale, la Cinquième République, nato nel 1958 sulle macerie della crisi algerina e che adesso, nel 2024, sta vivendo le sue convulsioni. Quella sera del 1962, mentre si aspettano i risultati, sullo schermo in bianco e nero della televisione c’è una ragazza di diciotto anni. Ha l’aria timida e innocentemente spudorata. È esile, malinconica, bellissima. Si chiama Françoise Hardy. Canta una canzone in cui la sua casa discografica non credeva (troppo triste), che inizia così: tous les garçons et les filles de mon âge.  È un brano memorabile, nel senso proprio del termine: non appena lo si è ascoltato, diventa parte indispensabile del mondo ed è impossibile dimenticarlo.

In quel preciso istante, la giovinezza diventa una condizione dello spirito. Una categoria culturale. Con i suoi libri, le sue canzoni, i suoi profeti. La nascita della giovinezza era stata preparata, annunciata da molte cose. Il libro fulminante sull’adolescenza di JD Salinger, The Catcher in the Rye, del 1951, il cui titolo quasi intraducibile aveva fatto ammattire i traduttori (che avevano poi ripiegato in italiano su il giovane Holden e in francese su L’Attrape-coeurs). Bonjour tristesse (1954) di Françoise Sagan, che prendeva il titolo dalla poesia À peine défigurée di Paul Eluard. I jeans e il giubbotto di pelle nera portati da Marlon Brando in The wild one, che avrebbero dettato il modo di vestire delle generazioni successive. E presto, nel 1965, arriverà un ragazzo americano, Bob Dylan, a cantare Like a rolling stone, a parlare di come ci si sente with no direction home, se si smarrisce la via di casa.

La canzone di Françoise Hardy diceva : je me demande, quand viendra le jour ? Quel giorno, ora, nell’alba degli anni Sessanta, è arrivato. De Gaulle vince il referendum. Ma la giovinezza prende per sé tutta la scena del mondo. Vola sulle accuse della gente, sopra i tetti e le stazioni, non si cura della vita adulta, accarezza la tragicità, l’insensatezza e la bellezza del vivere. Il mondo è ancora in bianco e nero come lo schermo della televisione, ma presto, nel bene e nel male, sarà a colori.

La giovinezza è come Françoise: allegra e triste, adorabilmente imbronciata, o (come in una canzone italiana) dolcemente complicata. Prima di allora, l’età giovanile era considerata  spensierata e fugace, illusoria, breve, una transizione magari dorata ma imperfetta, solo un luogo di passaggio. Stagion lieta è cotesta, (…) come un giorno d’allegrezza pieno, aveva scritto Leopardi. Età fiorita a cui sarebbe inevitabilmente seguita la disillusione. Il sabato del villaggio a cui seguirà una domenica piena di noia, e dopo domenica c’è lunedì. E poi in fondo i nostri nonni (basta guardare le rare fotografie) erano stati terribilmente adulti anche da giovani. Già all’approssimarsi dei venticinque anni, povere stelle, assumevano l’aria di donne e uomini fatti e finiti, vestiti di panni pesanti, incatenati spesso a una vita senza scelta. Madri e padri su cui da subito volteggiavano i segni di una vecchiaia che non sarebbe tardata.

Il viso e il corpo di Francoise Hardy invece raccontavano un’altra cosa: una giovinezza che non è più l’età fiorita leopardiana, che accoglie in sé la malinconia (tristesse, beau visage, diceva appunto quella poesia di Eluard), e che non vuol saperne di essere condannata a farsi sostituire dall’età adulta. Le gambe erano magre e lunghe, il seno accennato, i fianchi così poco accentuati rispetto ai canoni estetici delle forme femminili più rotonde. Il sogno di un ragazzo che al risveglio si tocca e si ritrova (come in un’apparizione, in una teofania) nel corpo androgino della donna bellissima che ha sognato. Con i capelli lisci e lunghi, lo sguardo tagliente dei suoi occhi chiari, Françoise Hardy era la ragazza da guardare (in quei sogni) mentre prende il sole, spogliata su una spiaggia francese silenziosa, allucinata e ventosa. Tra dune di sabbia e rare piante a celarne la vista.

Giovane per sempre, immune da ogni tentazione adulta, Françoise Hardy, nata nel 1944, era malata da vent’anni. Anche per lei il tempo era passato e la vita aveva mostrato il suo inganno più vile, quello del dolore, della malattia che non lascia illusioni, delle cure che devastano il corpo. Maman est partie, ha detto il figlio Thomas Dutronc per annunciarne la morte. Come se un giorno potesse tornare, magari assieme a tous les garçons et les filles de son âge. Di nuovo giovane e bellissima, come era stata e come, per me e molti di noi, sarà per sempre.

Maurizio Puppo

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Maurizio Puppo
Maurizio Puppo, nato a Genova nel 1965, dal 2001 vive a Parigi, dove ha due figlie. Laureato in Lettere, lavora come dirigente d’azienda e dal 2016 è stato presidente del Circolo del Partito Democratico e dell'Associazione Democratici Parigi. Ha pubblicato libri di narrativa ("Un poeta in fabbrica"), storia dello sport ("Bandiere blucerchiate", "Il grande Torino" con altri autori, etc.) e curato libri di poesia per Newton Compton, Fratelli Frilli Editori, Absolutely Free, Liberodiscrivere Edizioni. E' editorialista di questo portale dal 2013 (Le pillole di Puppo).

1 COMMENTAIRE

  1. Aggiungiamo forse « FOREVER YOUNG » di Dylan / Seeger, indimenticabile; un dubbio sulla moda (recente) di dire « papa, maman » per ogni evenienza, a ogni età e in ogni occasione (mentre, a volte, non è proprio il caso di usare la lingua dei « pappo e dindi » – vedi Purgatorio XI); e infine che la « bella ragazza » aveva, da sempre e sempre di più, posizioni ideologiche a dir poco conservatrici (non molto intonate a quei « garçons et filles de [son] âge »… per lo meno a quei tempi… – altri tempi forse). Ma sì, in quanto icona, resta.

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