Un vero e proprio alfabeto visivo incentrato sui temi dell’industria, della tecnologia e del lavoro scandisce l’esposizione di più di duecento opere di fotografi italiani e internazionali di rilievo attualmente e fino al 28 agosto alla Fondazione MAST di Bologna.
Sono le tante lettere sparse di un alfabeto che per libere associazioni di pensiero riconnette l’inizio dell’età industriale con l’ultima fase della nostra post-modernità digitale, quasi come un modo per far convergere uno sguardo lontano da noi che getta le basi dell’età moderna a uno più prossimo che ne segue le conseguenze anche distruttive della sua ultima evoluzione. Tale alfabeto per immagini, allora, è un modo per pensare il mondo visivamente, con tutti i sensi, come un vedere che diventa anche un riflettere in senso lato facendo confluire nella diversità dei punti di vista le contraddizioni e i conflitti che contraddistinguono il nostro tempo. Come si tengono insieme, infatti opposti inconciliabili se la lettera A sta per “Abandoned” ma anche per “Architecture” e la lettera W comprende la parola “Waste” (rifiuti) ma anche “Wealth” o “Water”, ovvero la ricchezza e l’acqua che costituisce una fonte inestimabile oggi.
Nella Collezione ci si sposta dalla fotografia documentaria di inizio ventesimo secolo in America con artisti come Lewis Hine, Dorothea Lange o sul fronte europeo Robert Doisneau all’arte concettuale del ventunesimo secolo, alla fotografia di suggestione surrealista o iperrealista più recente, e ancora dall’immagine in bianco e nero a quella digitale fino alle stampe in 3D di oggi.
Sul versante tematico, alla celebrazione di un mondo tecnologico e industriale a partire dalla fine del XIX secolo si contrappongono le sue evoluzioni/involuzioni attuali. Dominante resta il filone dell’umano soprattutto nell’emergenza sociale legata alle classi proletarie nella loro progressiva presa di consapevolezza politica. Dell’inizio del ventesimo secolo sono i ritratti di lavoratori o individui sfruttati o sottomessi dal sistema di produzione a catena, e ancora i disoccupati per strada, i bambini sfruttati nelle fabbriche, gli individui in cerca di lavoro e, in fotografie più recenti, i dipendenti in sistemi automatizzati, infine i migranti e i profughi di oggi ai margini del processo di globalizzazione. Le fotografie della Collezione scorrono dai cupi paesaggi dell’industria pesante dell’inizio ventesimo secolo alle surrealiste visioni degli impianti high-tech di oggi, fino alle virtuali metropoli del futuro. Alcune visioni di siti in disuso non possono non rinviarci al tema dell’individualismo e dell’indifferenza umana soggiacente tale società post-industriale. È evocata, infine, l’emergenza ambientale nei cambiamenti irreversibili, spesso distruttivi prodotti dallo sfruttamento incondizionato delle risorse del nostro pianeta.
Luoghi della post-modernità
John Sven, “Buchi neri” (2019)
Viaggia attraverso la Germania orientale nel 2019 incrociando alcuni di quei siti disertati o edifici in disuso della precedente repubblica socialista sovietica. Fotografa centri di produzione dismessi, qualche volta alte cancellate chiuse nelle campagna gelide e innevate intorno. Linee ferroviarie incidono solchi bianchi e profondi su strade ferrate ricoperte di bianco lucore. Fotografa scheletri di edifici svuotati di cui restano le mura portanti esterne, impianti sportivi abbandonati. La frattura e la battuta d’arresto tra due metà inesatte, tra due parti spezzate di una storia collettiva che nonostante il “muro” abbattuto fatica a ricomporsi. Quello che lui chiama “buchi neri” di una storia sommersa, a tratti ancora frammentaria o oscurata. Tali non-luoghi dall’atmosfera simbolica e immersiva appaiono investiti di un filtro di luce opalescente, quasi surreale.
Gabriele Basilico, “Milano, ritratti di fabbriche” (1978)
Una geometria di architetture solide, estranianti, viste nella purezza di luci e ombre si staglia a distanza in linee nette e incisive in questo ritratto di fabbriche in bianco e nero. Su quelle, un manifesto incollato di gare d’auto acrobatiche rompe come uno schermo percettivo la piattezza dell’insieme per sottendere a un altro livello di realtà sensibile. Un uomo cammina in tale immobilità sospesa come dovesse attraversare quello specchio, ricongiungere l’immagine a una memoria precedente, riconnettersi a quel tempo altro, nello spazio metafisico di una visione.
Frank Thiel : “città 7/12 Berlin” (2000)
Potsdamer Platz a Berlino nel 2000 è ancora un gigantesco cantiere a cielo aperto lasciato al gioco di diversi architetti internazionali. Lo spazio non sono più mura, schermi, barriere occludenti ma un rapido susseguirsi di materiali nel processo ininterrotto di demolizione e ricostruzione. Uno spazio vuoto si apre sulla piazza enorme al centro della capitale occupato da gru, ammasso di detriti e opere in costruzione in un cantiere aperto dove nuovi grattacieli in vetro si sollevano scintillanti contro il cielo dal giorno alla notte trasmutandone l’intrinseca natura. “Remake Berlin” è una panoramica su questo immenso svuotamento del luogo e del tempo, nel mutare del volto e dell’anima di una città.
Le nuove maschere architettoniche si ergono a occultare una storia fatta di buchi neri sommersi per gettarsi a capofitto agli albori del nuovo millennio. La storia del XX secolo della capitale tedesca segnata da bombardamenti e stermini durante la seconda guerra mondiale emerge qui palesemente su questa piazza come una ferita messa a nudo di edifici rasi al suolo e ricostruiti per essere poi ricoperta dalle nuove architetture avveniristiche all’alba della nuova era.
Luigi Ghirri, “Il profilo delle nuvole”( 1985)
Vi sono forme architettoniche nitide, pure e scandite da linee prospettiche provenienti dalla tradizione pittorica: una chiesa bianca, la sua netta facciata, il timpano sopra la porta, la sua coloritura azzurro-marmorea. Dall’altro lato dell’immagine vi sono fabbriche sullo sfondo; due strette ciminiere dai motivi circolari bianchi e rossi si ergono alte verso il cielo senza rottura visiva nonostante l’apparente contrasto. Al contrario, una sorta di armonia paradossale ingloba e permette di ricomprendere ogni elemento del paesaggio urbano entro questo cielo basso e denso di nuvole, il profilo azzurrognolo all’orizzonte, che come una cupola bassa e densa scende a uniformare tutta la veduta d’insieme. Ancora una volta in Ghirri il luogo fisico trasla per diventare luogo illusorio, “non-luogo” ovvero “paesaggio di immemore memoria” nel quale si getta a capofitto la sua visione. Ci riporta indietro fuori dal tempo ordinario in un viaggio quasi alla ricerca di quell’immagine originaria che paradossalmente ricostruisce l’integrità dell’essere.
Hiro, “Stazione di Skinjuko, Tokyo”(1962)
Porte a vetro inquadrate dall’esterno nei treni sotterranei di Tokyo si popolano di esseri umani compressi e affollati contro essi. Uno sguardo sulla vita, ogni volto singolare e unico, irrompe contro la costrizione degli spazi, l’affollamento dei treni, il passaggio veloce degli individui. Negli scorci urbani nebulosi e frenetici di Tokyo, istantanee di volti appaiono come folgorazioni improvvise illuminate nei tunnel sotterranei delle metro. Prigionieri dietro quei densi pannelli di vetro. La bellezza irrompe tra una folla anonima e incolore.
People: bambini, donne in fabbrica, migranti
Lewis Hine (1907)
Bambine dentro le fabbriche a stretto contatto con le macchine di un cotonificio in Indiana all’inizio del ‘900 nelle fotografie di Lewis Hine. Sono illuminate nella folgorazione estetica di un istante eppure già sottomesse al processo di produzione a catena, private del volto sognante e spensierato dell’infanzia o del suo sguardo magico e incantato sul mondo. Disincantate già nella gravità del lavoro, nella fatica dell’esistenza.
Ancora scorrendo tra i ritratti nell’alfabeto visivo del Mast troviamo i primi piani sui “minatori gallesi” di Robert Frank (1953). Sono i volti di uomini anneriti dal carbone dell’estrazione, l’ultima sigaretta prima di scendere in miniera, gli occhi vivi, la spossatezza dei corpi piegati alla fatica quotidiana. La loro umanità riecheggia in rari scorci espressivi contro l’alienazione quotidiana del duro lavoro.
Brian Griffin, addetta alla fonderia (2013)
Ultra-realista nella saturazione dei colori e nella resa ingigantita delle figure Griffith rappresenta con ironia queste donne addette industriali nelle fabbriche tedesche di oggi. Sono figure plastiche enormi, esasperate nella loro presenza; la prima fuochista appare plasmata nell’acciaio a immagine della fonderia nella quale lavora, la seconda ha mani colanti di petrolio luccicanti nell’effetto pittorico pop e saturante. Sono viste all’interno di un processo di industrializzazione senza volto, disumanizzate come parte di un meccanismo che appropria l’individuo con riferimento al socialismo sovietico, ma anche esaltate ambiguamente nella loro plasticità come icone femminili pop, magnifiche e post-umane.
Christobal Olivares, “Migranti”, (2017)
I migranti di oggi e di ieri ritornano come tema complementare a quello dell’industria a partire dall’età moderna. Dalle valigie di cartone legate con un laccio per i primi migranti europei di inizio xx secolo a questi contemporanei volti di profughi, esuli in fuga dalla guerra, dalla povertà o dall’indigenza nei loro paesi d’origine. Spesso sono gli individui anonimi profughi nel Mediterraneo o rigettati al margini del sistema capitalista globale. Compaiono qui di profilo nel loro anonimato e invisibilità come i tanti dispersi in mare nell’attraversamento verso l’Europa. Parlano a nome dei molti perduti nelle traversate o giunti in Occidente nei viaggi della disperazione o della speranza lasciando la propria terra. Sono l’ultimo volto della disumanizzazione prodotta da un sistema economico globale con i suoi varchi di ricchezza e povertà, solidarietà e disperazione.
Elisa Castagnoli
P.S. La mostra “The MAST Collection – A Visual Alphabet of Industry, Work and Technology” ti aspetta al MAST, a Bologna, fino al 28 agosto. Ingresso gratuito senza prenotazione.