“…Ma tu che vai, ma tu rimani /anche la neve morirà domani / l’amore ancora ci passerà vicino nella stagione del biancospino…”
Così cantava nel suo “Inverno” Fabrizio De Andrè, tanti decenni fa, ma ancora quei versi cantati – con quella voce che sembra un ronzio di vento – alita dentro di noi; insieme agli altri cantanti-poeti-musici senza tempo, da Bob Bylan a Leonard Cohen, Brassens, Brel e Boris Vian, e qui da noi Francesco De Gregori, Massimo Bubola, Ivano Fossati, Mauro Pagani e la Premiata Forneria Marconi, tutti suoi compagni di viaggio.
Sono riposti lì quei canti e le suonate alla chitarra sulla cattiva strada che ancora persistono, da quegli anni ’60 e ’70, irripetibili, lontani e prediletti.
Era una fredda giornata d’inverno quando ci ha lasciati (11 gennaio 1999); Fabrizio rimane un emblema, nonostante siano passati vent’anni: è Lassù per riconciliare in Cielo le sue canzoni. Sarà insieme a Luigi Tenco e Lucio Dalla, a Giorgio Gaber, a Lucio Battisti, a Pino Daniele, a Mango, a Roberto Murolo, ad Augusto dei Nomadi: che bella compagnia di Anime salve, che concerto e che serenate davanti a Dio.
“Gesù è stato il più grande rivoluzionario di tutti i tempi…” sosteneva Fabrizio in un lontano concerto presentando “L’infanzia di Maria” e “La buona novella” (dai suoi studi dei Vangeli apocrifi). Struggente rimarrà quella sua Ave Maria anche dalla voce di Antonella Ruggiero.
Fabrizio, fumando, guardava alle nuvole e oltre, agli ultimi (come Don Gallo) e alle donne che amano e restano escluse ed abusate, ai soldati che muoiono e ai delinquenti che pagano; e irrideva ai potenti che sfruttano. Amava i vecchi che “quando accarezzano hanno il timore di far troppo forte”.
Ci ha fatto amare Lee Masters (con Fernanda Pivano) e anche Majakowski e Alvaro Mutis. Le sue canzoni per anni ignorate e non le trasmesse in radio: Il pescatore è stata per mesi in classifica nella hit-parade (del venerdì) di Lelio Luttazzi, ma era censurata: un abisso rispetto ad oggi! E La canzone di Marinella sdoganata da Mina (”la sua voce è un miracolo” sosteneva Fabrizio), La tua volpe azzurra per Ornella Vanoni (ispirata da Cohen). Canzoni dolci e corrosive, liriche ermetiche e colte, con lo stile di chansonnier avvolto dal vento francese che soffiava sulla sua Genova. Ha decantato prostitute e disertori, invettive contro guerre e massacri. Fluidità di morte ma anche di vita, meditazioni per angelici enunciatori di una anarchia mistica bagnata di poesia come ne L’attimo fuggente di Peter Weir.
Quante volte abbiamo strimpellato e fischiettato Bocca di rosa che poi con la PFM cambiò registro assumendo un rock levigato. “Signore, io sono Irish” scritta con i New Trolls, “quello che verrà da te in bicicletta”. Pronti tutti a rivedere quegli eroi sulla collina, trascurati ma lucenti di solitudine. Giudici e chimici, impiegati e bombaroli, blasfemi e matti, insieme nelle ballate con Re Carlo che ritorna da Poitiers, grazie ai riflessi di un compagno di giovinezza come Paolo Villaggio (la scrisse con lui, entrambi figli dell’alta borghesia di Genova). “Quando si muore si muore soli” cantava nel suo “Testamento” che pure a mio padre piaceva ascoltare, invocando “u genovès”.
Nasceva la convinzione che le sue canzoni intuissero con largo anticipo il divenire, che la rivoluzione era possibile ed era anche lì inclusa e fortemente evocata. Nella Guerra di Piero, il soldato preferiva morire anziché uccidere: « E se gli sparo in fronte o nel cuore / soltanto il tempo avrà per morire / ma il tempo a me resterà per vedere / vedere gli occhi di un uomo che muore ». Per questo abbiamo reclamato il servizio e non quello militare, obiettori che non imbracceranno mai fucili, proferivamo.
Ma poi gli attimi sono fuggiti davvero, eppure non ci siamo leccati le ferite perché si rimane per sempre in direzione ostinata e contraria. Solo una volta lo ascoltammo in concerto: Torino, Festa nazionale dell’Unità, quando l’unità era una festa.
Ora la sua anima veglia sulla collina di Spoon River, riposa nell’Hotel Supramonte e su Via del campo, nel Fiume Sand Creek dopo lo sterminio degli Indiani d’America; nel canto arcaico e perenne di Crêuza de mä e dei Monti di Mola. Dovunque ci sia sofferenza ci sarà sempre una sua canzone, che sa restituire incanto e dignità, grazia e lungimiranza.
“…Lascia che sia fiorito / Signore, il suo sentiero / quando a te la sua anima
e al mondo la sua pelle / dovrà riconsegnare /quando verrà al tuo cielo
là dove in pieno giorno / risplendono le stelle…” (Preghiera in gennaio)
di Armando Lostaglio
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« Dolcenera », del periodo più tardi, con elementi etnici (il coro in dialetto genovese)