Per ricordare Ermanno Olmi, Mario Brenta ci ha fatto omaggio di un suo scritto, « Olmi Magister » che aveva dedicato al grande cineasta in occasione di un premio alla carriera che gli era stato conferito l’anno scorso. Mario Brenta, regista, è stato uno dei più stretti collaboratori dell’autore del film « L’albero degli zoccoli », ed ha diretto, fra l’altro, Ipotesi Cinema, la scuola di cinema nata a Bassano del Grappa nel 1982 per opera di Ermanno Olmi.
Non è la prima volta che mi si chiede di parlare di Ermanno Olmi per cui, presumibilmente, un po’ mi ripeterò, non certo per pigrizia ma perchè a distanza di tempo penso che le mie convinzioni a riguardo si siano non solo confermate ma anche rafforzate. E non è nemmeno la prima volta che mi ritorna alla mente una conversazione di alcuni anni fa con il critico cinematografico e comune amico Tullio Kezich. Cosa mi diceva l’amico Tullio in quell’occasione ?
Parlando di cinema mi diceva, con tutta la schiettezza e l’ironia che gli erano abituali, che Olmi era fermamente convinto di aver inventato lui il cinema.
Certo, l’affermazione, presa cosi alla lettera, poteva apparire alquanto estrema, al limite della boutade e, a dire il vero, come tale l’avevo allora recepita. Una boutade, una battuta pungente e affettuosamente maliziosa ma che invece, ripensandoci adesso con un po’ più di distanza, non mi sembra poi cosi paradossale come mi era potuta apparire allora. Anzi, posso dire in tutta franchezza e senza andare troppo a fondo nella riflessione che la trovo di una verità incontrovertibile e quasi ovvia, lapalissiana.
Su Ermanno Olmi si è detto e ridetto, scritto e riscritto ma quasi sempre, seppure nella diversità delle opinioni, da un unico punto di vista puntualmente ricorrente : quello di una poetica d’autore che si risolve in un’etica del contenuto ma mai (almeno mi sembra) di una poetica che si fonda e si concretizza in un etica della forma. Insomma, come sarebbe più giusto, di un’etica dell’estetica; perché da qui, a mio avviso, nasce la poetica, ovvero l’originale creatività del suo fare cinema. Ma come arrivare a questa affermazione ? Penso per la via più semplice e diretta: quella di guardare se possibile un po’ oltre le apparenze.
Un buon inizio potrebbe essere quello di fare chiarezza, di sgombrare il campo da alcuni facili luoghi comuni, se non addirittura da consolidati pregiudizi. Via allora, per cominciare, tutti gli stereotipi che sono stati costruiti su di lui e attorno a lui, non perché siano falsi ma perché sono, come detto, stereotipi. Via allora per un momento l’attenzione verso gli umili, via la milanesità, via il mondo del lavoro, via l’eredità del neorealismo.
Parliamo invece, ad esempio, di libertà: di quella libertà autentica, di pensiero come di comportamento, che Olmi ha sempre dimostrato in ogni suo progetto, in ogni suo lavoro. Di quella libertà, accompagnata da quell’altrettanto autentica e viva curiosità, che ha fatto sì che potesse lasciarsi guidare dal proprio sguardo, personale ma mai preconcetto, sul mondo; che gli ha permesso di andare sempre ben oltre la superficie delle cose e coglierne il senso per la strada più semplice e diretta, senza paura di lasciarsi sorprendere dalle cose stesse ma lasciandosi da esse guidare. E della capacità, che ne consegue, di leggere la realtà e di raccontarla in modo personale, originale che non vuol dire strano o banalmente spettacolare se non addirittura esibizionistico. In tutto questo, Ermanno Olmi, più che un inventore è stato un creatore. Se non ha (come è ovvio!) inventato lui il cinema, né come tecnologia né come linguaggio, è riuscito per contro non ad inventare ma a creare il suo proprio cinema, unico e personale. Cosa non da poco : in fondo la massima e la nemmeno tanto segreta aspirazione di ogni vero artista. E ciò fin dagli inizi.
Trovare e sviluppare un proprio stile e anche (soprattutto per un debuttante) una dimostrazione di coraggio: il coraggio di essere cio che effettivamente si è. Di essere in grado di trovare e percorrere la propria via, autonomamente, di cercare la propria individualità di autore attraverso quella cifra che l’opera porta indelebilmente impressa dentro di se per come è venuta alla luce, ossia per come si è formata.
Questa è stata ed è la grande lezione di Olmi, nel senso più largo del termine come in quello più ristretto di lezione «scolastica» anche se molto al di fuori da ogni norma, da ogni convenzione. L’attenzione e lo stupore, l’apertura e la meraviglia verso le cose del mondo sono l’essenza del suo insegnamento, mai impartito ex-cathedra ma attraverso l’esempio e la condivisione.
In questo senso non è mai stato un semplice insegnante ma un vero maestro, nel suo etimo originario latino di magister. Di colui che è più (magis) – ma non per questo «a parte», «al di sopra» – cioè, di guida, di leader, di primus inter pares. Cioè, come detto, una testimonianza e una lezione di libertà, un incitamento a porsi fuori da ogni vincolo, da ogni gabbia modaiola o istituzionale, nel rispetto di se stesso e dell’altro. E questo, sempre, con umiltà: nel senso letterale del termine, ancora una volta nella sua accezione più etimologica. Umile da humus: terreno, aderente alla terra ma anche umano nel senso di ciò che dalla terra deriva. Homo ha la stessa radice di humus (terra) e da questa proviene. Umano nel suo dire ma soprattutto nel suo fare; nello stare, cioè, con i piedi per terra. Con rispetto (lo si è detto) ma anche con l’ignara (e per questo innocente) spavalderia dell’umile che non consiste – come si sarebbe portati a credere – nel dire «non sono all’altezza», «non sono capace» ma nell’affermare che «si può fare». Tutto questo però senza presunzione, con fiducia nella propria sensibilità, nel proprio pensiero; ovvero imparando, trovando umilmente la propria strada, il proprio percorso nel mondo e cercando di comprenderlo (e di comprendersi) attraverso l’emozione ma anche attraverso il ragionamento. Semplicemente.
È per questo motivo che Olmi è stato ed è tuttora innovatore anche se molto spesso incompreso, perché vero innovatore. Basti pensare a E venne un uomo e a Il mestiere delle armi, film che hanno aperto nuove strade alla narrazione cinematografica (tra fiction e documentario il primo, tra fiction e saggio il secondo) o a quasi tutta la sua produzione successiva, a L’albero degli zoccoli che riesce magicamente – e soprattutto coraggiosamente – a coniugare i caratteri più immediati del realismo con quelli dell’universo simbolico della parabola e dell’allegoria. Perché in fondo, grazie a questo tipo di approccio, umile come si è detto ma consapevole, Olmi può fare qualunque cosa, cimentarsi sempre in modo nuovo e originale. Perché la semplicità del pensiero e la trasparenza dello sguardo gli consentono una comprensione chiara ed immediata della materia che ha davanti e delle possibilità dello strumento che gli viene dato e attraverso il quale la dovrà plasmare. Guardare alle cose ma soprattutto cogliere il loro sguardo quando esse ci guardano. L’immagine cinematografica nasce dall’incontro dell’immagine mentale (pensiero) e l’immagine reale; immagine che va colta con delicatezza per non sciuparla, per non farla appassire ma per darle un nuovo impulso vitale nella messa in relazione con le altre immagini consorelle. Montaggio: tecnica – ma sarebbe più giusto in questo caso dire arte – in cui Olmi è una volta di più maestro, fuori da ogni schema precostituito, lasciandosi guidare dalle immagini oltre ogni prevedibilità, in modo inatteso eppur così sorprendentemente naturale nella consapevolezza che la capacità di raccontare non nasce tanto dal saper esporre ma dal saper vivere.
A questo punto, dovendo concludere questa mia breve riflessione, sento di non poter resistere alla tentazione di proporre a chi legge una piccola storiella zen che mi è molto cara e che puo forse sintetizzare sotto forma di metafora e con un tocco in più di poesia quanto ho cercato finora di dire.
«L’imperatore aveva ricevuto in dono un’arpa magica. Un’arpa costruita dal piu grande costruttore di strumenti musicali di tutta la Cina con il legno di un albero meraviglioso, un albero che si elevava cosi maestoso e si spingeva cosi in alto sopra la foresta che poteva conversare con le stelle. Ma l’imperatore non aveva trovato nessuno che la sapesse suonare: tutti i piu grandi arpisti del tempo si erano recati uno dopo l’altro a corte per cimentarsi con quello strumento senza che nessuno di loro fosse riuscito, malgrado tutti gli sforzi, a far uscire altro dalle sue corde se non una melodia che suonava fredda e quasi stonata in disaccordo con l’armonia di cio che avrebbero voluto cantare. Era come se l’arpa si fosse rifiutata di riconoscere un padrone.
Giunse allora a corte Peiwoh, il principe degli arpisti. Prese l’arpa e cominciò a carezzare delicatamente le sue corde come se cercasse di ammansire un cavallo ombroso e fu come se l’albero da cui era stato tratto quello strumento tornasse in vita e si risvegliasse in lui, nelle fibre profonde del suo legno, una memoria antica, senza tempo: il ricordo delle brezze di primavera che giocavano tra i suoi rami; delle voci sognanti dell’estate brulicante di insetti; della luce della luna in autunno, tagliente come una spada; del turbinare dei fiocchi di neve bianchi come cigni in volo; di tutte le luci e di tutti i suoni del mondo…
Fu allora che l’imperatore, estasiato, chiese a Peiwoh il segreto della sua vittoria. «Sire – rispose Peiwoh – hanno tutti fallito perche non hanno fatto che cantare se stessi. Io ho lasciato che l’arpa scegliesse da sola la sua melodia e, mentre suonavo, non sapevo davvero più se ero io a essere l’arpa o l’arpa a essere Peiwoh.»
Di quale legno fosse fatta l’arpa, lo lascio pero indovinare al lettore.