De Chirico e l’oltre: dalla stagione barocca alla neo-metafisica. Bologna, Palazzo Pallavicini

È un De Chirico inusuale, certamente meno noto e acclamato ma altrettanto ricco di suggestioni e rimandi in controluce alla prima pittura metafisica quello che appare nella mostra di Palazzo Pallavicini, “De Chirico e l’oltre” visitabile fino al 12 marzo a Bologna. Una recensione di Elisa Castagnoli. 

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La prima parte delle opere esposte infatti appartiene al periodo della cosiddetta produzione “barocca” ove l’artista, lasciata Parigi per ristabilirsi definitivamente in Italia (da Milano a Firenze approdando infine a Roma), trae ispirazione dai grandi maestri del passato quali Rubens, Tintoretto, Delacroix o Renoir. Opere barocche che superando l’apparente naturalismo nella citazione quasi “post-moderna” dei grandi maestri della tradizione pittorica occidentale si pongono definitivamente  in un ottica dell’oltre, vale a dire ancora una volta nel superamento della natura verso la creazione di una visione onirica e irreale: “una finzione più vera del vero”.

Nella seconda parte del percorso espositivo ricompaiono opere della stagione neo-metafisica appartenenti all’ultima parte della produzione artistica dechirichiana (1968-78) tra cui le suggestive ambientazioni delle Piazze d’Italia, le enigmatiche composizioni di oggetti e gli emblematici manichini rivisitati però con ironia, qui in forme più serene e giocose. Il percorso espositivo ci immerge in questa esplorazione di opere meno usuali e poco conosciute del grande maestro della metafisica che tuttavia riconducono in qualche misura, seppur in maniera differente dal periodo dell’avanguardia, a un superamento della realtà oggettiva, certamente dello sguardo naturalista per esplorare attraverso la finzione l’enigma annidato dentro le cose, una loro paradossale verità in quel presunto gioco di non-vero.

Bagnanti con drappo rosso nel paesaggio ( 1945)

È una visione di donna voluttuosa vista nella sinuosità di forme dall’apparenza realiste del corpo femminile ma che rinviano all’ideale barocco di una musa accogliente e voluttuosa, ammaliatrice, avvolgente nelle forme là dove il pittore rivisita il tema delle bagnanti in una variante moderna e seducente. Lo sguardo della donna ipnotico e incantatorio oltrepassa la semplice rappresentazione realista invitando già nel drappo rosso vivo che le modella il corpo alla carnalità, all’erotismo o a un’idea di implicita seduzione nell’immaginario dello spettatore.

Autoritratto nel parco in costume del Seicento

Gli autoritratti si susseguono nel corso della vita e della produzione artistica dechirichiana come forma di rispecchiamento e insieme implicita dichiarazione di poetica: atto attraverso il quale l’artista riflette su sé stesso e la propria concezione estetica. Da tale stagione figurativa emergono in particolar modo l’ “autoritratto in costume” e quello dove si mostra peculiarmente “nudo” di fronte al suo pubblico di interlocutori. Nel primo si rappresenta indossando un costume nobiliare del ‘600; si traveste in tale anacronistica visione del passato proclamandosi vicino ai grandi maestri del Seicento là dove rinnega in qualche modo i valori modernisti di cui si era fatto portavoce nell’avanguardia. Appare tuffarsi in un ritorno alla tradizione pittorica barocca come via di fuga dal presente, nella citazione soggettiva di immagini provenienti da un passato rivisitato con la consapevolezza, certamente, dell’ insanabile frattura tra modernità e tradizione.

In questo “Autoritratto” la maschera scelta dall’artista per raccontarsi in una sorta di autobiografia visiva è la pura e semplice nudità. Si mostra nudo di fronte allo sguardo dei suoi detrattori, critici e pubblico che l’avevano in qualche modo osteggiato rifiutando la sua nuova pittura antimoderna. E in tale tela maschera intima, rimpicciolita di sé stesso si mostra nudo nel suo corpo invecchiato, poco attraente, nella piena nudità del suo essere artista in qualunque modo, amato e esaltato oppure vituperato e non più compreso da critica e pubblico. Lo sguardo permane nei ritratti in primo piano come antro  rivelatore, là dove si manifesta ciò che trapassa la maschera dell’apparire o i travestimenti che esso assume per lasciar trapelare la natura incondizionata del creatore.

“Due cavalli in riva al mare” (1964)

La tela si rifà a uno dei soggetti figurativi privilegiati da De Chirico nella serie dei cavalli dipinti intorno al 1926 in riva al mare allo stato brado in mezzo ad antiche rovine. Magnificamente delineati in linee morbide e spumose appaiono qui nuovamente mossi dalla foga del vento circostante, selvaggi nell’andatura inquieta e tempestosa, colti in un nitrire bizzarro e incontenibile di teste. Loro, avvolti in questo vortice di schiuma e fluidi dalle acque del mare. Umanizzati, emergono dalla tela come  creature scalpitanti, vive, quasi irreali oltre la barriera mimetica della figurazione. Si rivelano a noi spumeggianti nella plasticità di forme mosse, incontenibili, non-finite.

Neometafisica (1968-78)

De Chirico nell’ultima parte della vita si lascia alle spalle l’ormai estinta ispirazione barocca per ritornare a una reinterpretazione dei primi temi metafisici che lo avevano reso protagonista indiscusso dell’avanguardia moderna. Ritornano le enigmatiche visioni sulle Piazze d’Italia vuote, i manichini disumanizzati dall’evidente portata simbolica, gli accumuli indecifrabili di oggetti antichi e moderni e ancora le rovine o i templi classici che inondano le stanze borghesi. Muta tuttavia, visibilmente, l’atmosfera e lo stato d’animo di queste ultime opere neometafisiche dove non trapela più la precedente visione disincantata e nichilista dell’universo – la follia del mondo, il senso di spaesamento e perdita di riferimenti, la malinconia devastante dell’individuo moderno a inizio ventesimo secolo – quanto un senso di accentuata ironia verso l’esistente: una visione più serena della realtà dominata da colori accesi e cadenze più giocose, velate a tratti di una qualche malinconia.

Ne “Il pittore” (1958) ricompare l’invenzione del manichino al centro dei suoi primi quadri metafisici come alter-ego disumanizzato ma tanto più investito di sovra-senso simbolico ed evocativo. Seduto su un cubo squadrato  volge a noi le spalle con lo sguardo puntato verso il varco aperto del paesaggio fuori;  lui, concentrato nello studio della tela che gli sta di fronte agli occhi a distanza. La stanza come la proiezione del suo sguardo è questo reticolo di linee tracciate, di contorni stagliati e forme geometriche in una nitida ricostruzione dello spazio. Posto di fronte a lui è, infine, un altro manichino simile al suo riflesso su uno specchio deformato dove la realtà è ricondotta al quod essenziale del disegno.

Manichini ripensati in tale inedita versione divengono “maschere” nelle tele del 1970, visioni sovrapposte e contrastanti dell’io, sdoppiamenti o rivisitazioni stranianti di sé stesso.

Maschere ancora compaiono nell’intreccio dei due corpi in “La tristezza della primavera” (1970). Un albero rigoglioso nel pieno fiorire della bella stagione annuncia l’affacciarsi della primavera sullo sfondo, ma i due manichini non si guardano, serrati in una stretta che potrebbe apparire un abbraccio se non fosse impedita dall’intreccio delle linee sinuose sullo schienale barocco posto lì ad trattenerli. Sono maschere nude che non si guardano e corpi immobilizzati dal grigiore di linee dense e sinuose pronte ad intrappolarli.

Ancora in un’altra tela, “Ettore e Andromaca” ritornano come manichini stretti l’uno all’altro; maschere ultra-umane svuotate di identità si guardano senza vedersi, senza più occhi disegnati per riscattare il proprio destino di automi così come la percezione di un mondo immerso nel caos e nell’incomprensione.

Interno metafisico con officina e vista sulla piazza” (1969)

Giocoso e ironico diviene questo “interno metafisico” dipinto da De Chirico nel 1969 dove si accentuano i colori accesi e i toni più sereni nella reinterpretazione dei temi del passato. Dentro la stanza è un’agglomerato di oggetti e ritagli colorati di forme all’apparenza indecifrabili che strutturano la realtà attraverso un’architettura frammentata di sfaccettature cubiste. Un quadro dentro il quadro si apre su questa dimensione del presente: “la fabbrica moderna”, un’officina industriale con vista su una piazza deserta. Un altrove metafisico, l’enigma della realtà che si nasconde dietro quella apparente si affaccia dove oggetti iper-realisti come la fabbrica o la piazza assumono sembianze astratte e irreali rimandandoci a quella malinconia e spaesamento delle prime ambientazioni novecentesche. Ancora, è la consistenza della memoria, la citazione del passato evocativa e nostalgica che si innesta, in un’unica composizione, sulla vivacità del presente nella sua vena ironica, molto più lieve e disincantata.

Elisa Castagnoli

QUI TUTTE LE INFO PRATICHE, sito del Palazzo Pallavicini

Catalogo di SilvanaEditoriale:  https://fr.silvanaeditoriale.it/exhibition/699/de-chirico-e-loltre

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Elisa Castagnoli
Nata a Ravenna ma viaggiatrice e cittadina del mondo Elisa Castagnoli si è laureata in Lingue e Letterature Comparate all’Università di Bologna proseguendo con un Master alla University of Toronto. Insegna lingua e civiltà inglese nella scuola secondaria di II grado, collabora con varie riviste letterarie on-line e scrive un blog personale sull’arte. Simultaneamente, segue la danza contemporanea nella sua connessione tra corpo, movimento e scrittura.

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