Diciamolo per dire, ma davvero (e resterà un segreto tra noi). A volte mi chiedo se questo periodo di confinamento collettivo non sia in fondo, per paradosso, qualcosa che segretamente cercavo. Ho passato anni a scrutare gli altri. A cercarli, evitarli, annusarli. A non sapere bene dove stare, e come. Degli altri, soprattutto se sconosciuti, mi piacevano le case. Viste dalle finestre, camminando a caso per ore nei quartieri silenziosi. Guardi e vedi le ombre, gli oggetti. (Le foto in cornice). Gli odori. Adesso non più (“col tempo sai, col tempo tutto se ne va”), ma una volta di ogni casa (di ogni cosa) lo sentivo subito, l’odore. C’erano case, e persone, con odori di minestroni, tovaglie di plastica, canfora e cera, verdure bollite. Altre con odori già più borghesi, famiglie di impiegati, insegnanti, candele e fiori secchi.
Con gli altri bisogna stare, questo diceva il mondo. La scuola, il prete, la televisione, il partito, il sindacato, il cielo (e il cielo era un comitato centrale). Dagli altri occorreva farsi accettare. (Ogni giorno la domanda. Essere simpatici, cortesi? Scontrosi? Sorridere, non salutare? Interessarsi a loro o fuggirli?). Gli altri erano una condanna e una promessa a cui era impossibile sottrarsi.
Certo, c’erano i momenti in cui sorella solitudine (sempre laudata sii) ti tradiva, e presentava il conto. I sabati sera e le domeniche pomeriggio, le lunghe estati dove le città d’improvviso diventavano deserte (proprio come adesso, lunghi viali nel sole tremolante e silenzio), mentre gli altri, a branchi, si ritrovavano; per la villeggiatura nel paesino di campagna, la sera, o sulle spiagge al mare con le ragazze in costume, i ragazzi pasoliniani e furbetti, i motorini, le chitarre, il rumore, la musica, la vita insomma. L’ideale sarebbe stato essere solitari ma in fondo in pace col mondo: tout seul peut-être mais peinard, come canta quel bel tipo di Leo Ferré (uno che in casa teneva una scimmietta che rompeva le scatole a tutti i suoi amici ma guai a chi gliela toccava). O come la neghittosa sola in casa nella noia del pomeriggio dei disegni di Buzzati, nuda nella penombra e chissà chi c’è a guardarla da fuori. Io non sapevo star tanto bene con gli altri, e nemmeno da solo. E allora lo si vede da sé che la faccenda si complica.
L’enfer, c’est les autres, secondo Sartre; ma chissà se gli facevano lo stesso effetto anche le studentesse della Sorbona, che si rimorchiava un giorno sì e l’altro pure. Émile ”Cioran diceva : il me suffit d’entendre quelqu’un (…) dire “nous” (…), les “autres”, et s’en estimer l’interprète, pour que je le considère mon ennemi. [Mi basta sentire qualcuno dire “noi”, “gli altri”, e pensarsene l’interprete, per considerarlo mio nemico]. Eppure, ormai già un po’ in là con gli anni, Cioran perse la testa per una ragazza giovane e bella come capita a volte (senza una ragione né un motivo); e allora non ci furono più “gli altri” ma lei, e tutto il vuoto e il nulla del mondo anche Cioran li avrebbe fatti saltare in mille pezzi per lei, la sua carne e il suo odore nel buio. Dagli altri fuggiamo per poi ritrovarli, e cos’è la vita se non questo stupido gioco a nascondino. Io un po’ misantropo a volte lo sono, è vero.
Gli altri mi infastidiscono se sono più stupidi di me (vi sembrerà incredibile, certo, pazzesco; eppure ne esistono). Mi infastidiscono se sono più intelligenti di me (e ce ne sono a frotte, più profondi, attenti, abili, istruiti, acuti: maledetti). Se poi sono tali e quali a me, non ne parliamo neanche; quello proprio è il caso limite. E allora mi chiedo se tutto sommato la situazione attuale (a parte il non poter camminare a cazzo per ore in posti dove normalmente nessuno vuole andare) non sia poi quella ideale per me. Gli altri di colpo scompaiono e ridiventano quello che furono un tempo: illusione, mistero. E in me si fa strada il sospetto di essere uguale a loro, come diceva Brecht: «sono animali che hanno un odore speciale. E dico: non fa nulla, son come loro anch’io».
Agli orari stabiliti, vado a correre per un’ora (non odiatemi. Oppure sì, pazienza). Risalgo le scale di Montmartre, dove abitava Dalida (dice la targa: ses amis montmartrois ne l’oublierons jamais), e da lì, a pochi passi, Céline (ma non lo sa nessuno, grazie a un Dio misterioso e intelligente, e targhe non ce ne sono e mai ce ne saranno). Le strade sono vuote, sparite le frotte di turisti e bobos a caccia di prodotti bio-eco-sostenibili. Montmartre ai tempi del COVID19 ritrova la bellezza che si era perduta nell’isteria del turismo di massa, del divertimento obbligatorio. Chiusa anche la spa (tra rue Pigalle e il West) dove le coppie (ufficiali e no), nel vapore dell’hammam, nel buio delle stanze, vanno a trovarne altre, sconosciute. A cercare quello che non trovano nel mondo che hanno già. Per poi tornare a recludersi nell’attenta veste, non appena messo il piede fuori (nel mondo dove non ci si tocca tra estranei, dove non ci si può baciare, toccare, amare senza essersi presentati).
Passerà il confinamento come passa il dolore, e ogni spiaggia lentamente si colorerà. Gli angeli che ora popolano le strade deserte torneranno, in silenzio come sempre fanno, da dove sono venuti. Saremo contenti, ma ce ne resterà forse, nascosta e inconfessabile, un’inspiegabile nostalgia.
Maurizio Puppo
Foto © Maurizio Puppo
la penso proprio come lei ….non posso dire di essere un « animale » come lei……complimenti e buona nostalgia!