1914-2014. Raccontare la Grande Guerra. La voce di Corrado Alvaro. I Racconti sul 1915-’18, alcuni in antologie, altri rimasti in giornali, dell’autore calabrese, che fu interventista “pentito”, sono arrivati quest’anno in libreria sotto il titolo “Corrado Alvaro. Memoria del cuore”. La curatrice del volume, la studiosa Anne-Christine Faitrop-Porta, che allo scrittore ha dedicato 8 dei suoi 17 libri, ce ne parla.
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Corrado Alvaro nato a San Luca in Calabria nel 1895, fieramente interventista nel 1913-14, tanto da essere arrestato, dopo il periodo di istruzione militare a Firenze, diventa sottotenente di fanteria ed è ferito alle braccia nel 1915, al Monte Sei Busi sul Carso.
Nelle Poesie grigioverdi pubblicate in riviste, poi in raccolta nel 1917, e unite alle Poesie (1917-1921) nel volume Il viaggio del 1942 (vd. Il viaggio, Reggio Calabria, Falzea, 1999), le cantate, pastorali, ballate, fanfare, volgono dall’eroico e dal fiabesco al cupo e al tragico dei ricordi, compianti, consolazioni. E nel romanzo Vent’anni del 1930, il disincanto si fa cruda denuncia delle illusioni dei guerrafondai, dell’aspra condizione del soldato contadino e dello sgomento esistenziale dei ventenni. Non guerrieri né cavalieri, ma contadini e artigiani, i fanti immersi nelle viscere della terra difendono non la grandezza del paese, ma l’onore. Alle liriche e al romanzo aggiungono nuovi colori i racconti di guerra, nella dimensione breve più consona ad Alvaro e scelta per rappresentare la Calabria in Gente in Aspromonte.
Sparsi in raccolte o rimasti nelle pieghe dei quotidiani, i racconti qui riuniti approfondiscono l’originale prospettiva di Alvaro sulla guerra. Ne è acuito l’aspetto rurale, definito da un critico francese nel 1932 “une guerre terreuse”. I soldati giunti farfalle al fronte, diventano formiche, tartarughe o talpe, uniti in gregge o in stormo, la fucileria schiocca come i rami potati o i sarmenti bruciati, la terra stessa soffre, è ferita, risana, intristisce e rinasce. Matrice “mostruosa” essa partorisce armi e non frutti, gli alberi torturati cadono, i colli sono scavati dal cannone che fruga senza sosta e crea abissi. Come polvere si sciolgono i superstiti.
Sulla terra martoriata si svolge un conflitto insensato nei fini, nelle mosse, negli esiti. Eliminati i tamburi, le trombe, le sciabole e le bandiere, i fanti sono mandati a rompere i reticolati “coi petti”, per ubbidire a ordini rigidi fino all’assurdo. Ogni soldato si sente ridotto ad infimo ingranaggio e proiettato in battaglie incomprensibili perfino per i rari superstiti. Diventa incalcolabile il tempo ed è il rombo del cannone, protettivo o beffardo, a ritmare la giornata. Allo zaino si riduce la casa e vi si custodiscono oggettini quasi “amuleti” e trofei strappati al nemico. Svanisce fin dall’arrivo in caserma, poi in trincea o al fronte, la personalità che si sdoppia oppure si moltiplica. S’interrompe la comunicazione con i civili ignari, sostituita dalla fraternità con i compagni venuti da ogni regione e da una nuova disciplina che dei giovani ufficiali fa i padri dei maturi soldati.
Originalità potente fra le testimonianze di guerra, da Gadda e Malaparte a Remarque e Hemingway, da Barbusse, Dorgelès, Genevoix e Céline a Jahier, Lussu, Comisso e Monelli, è onnipresente nella narrativa alvariana la donna, amante, madrina, infermiera, moglie, prostituta del “corpo di donne” che segue l’esercito o ragazza libera di scegliere e di dimenticare gli uomini, in un radicale capovolgimento sessuale e sociale. La guerra concede alle donne di riscattarsi dalla “servitù secolare” e di riconquistare un primato naturale. Si compie il ritorno al mito, all’Eden dell’infanzia nella Magna Grecia. E’ il ballo ad unire i soldati con la moglie di uno di loro, in un godimento gioiosamente collettivo, e un ufficiale con un’ex prostituta, in una sfida sociale. Il canto che fonde i dialetti e le lingue e il ballo che accomuna i sessi e le caste, segnano la ritrovata comunione con la terra, che restaura il dialogo del viandante con le strade, degli animali con gli uomini, e fa “scoppiare” la pace. Nel lirismo della prosa alvariana parlano la terra dal “grande respiro” e i monti con le nubi per fiato, rantola il lume, alita il pozzo, barcolla la strada “lunga”, si nutrono di luce le capre “al confine tra cielo e terra” e si innamorano i soldati delle ragazze gravide immerse nelle tenebre e il giovane ufficiale di una voce femminile. Inno alla natura ferita e risorta, alla donna che porge riparo e speranza, i racconti di guerra di Corrado Alvaro offrono un’effimera ed eterna epifania della pace.
Anne-Christine Faitrop-Porta
ANTOLOGIA
Da Il sogno, pp. 44 – 46
Vedeva uno che si trascinava in un lago di melma, spargendo sangue sul suo cammino. Poi un altro era stato lanciato come un proiettile su un prato dove non c’era nessuno e pareva si fosse messo a dormire con le mani in croce. Soltanto un’idea gli era precisa in mente: vedeva donne dappertutto, e pensava alle più inverosimili lascivie. Ora gli portavano da mangiare. Egli domandò per chi erano tutte quelle pietanze. Il soldato rispondeva bianco e ansimante che aveva portato per tre ufficiali e che due erano morti. Allora egli mangiava tutto fino alle briciole, come per dovere.
In quel momento lo prese un convulso di riso perché vide un soldato che inseguiva il suo braccio che gli aveva fatto volare un colpo di cannone. Poi si gittava in terra dicendo: « Povera vita mia! ».
Si accorse giusto che là vicino c’era un uomo sdraiato, supino, enorme, come chi dorma ed abbia incaricato qualcuno che lo svegli ad una certa ora.
Adesso era un altro giorno, giacché era tornato di nuovo il sole. Non si sapeva bene la data.
Altri uomini erano venuti e stavano ritti e fermi davanti a lui.
Una voce gli diceva: « Avanti ». Egli fumava, giacché doveva andare avanti. Era certo di dover andare avanti. Il sigaro fra le sue labbra aveva il sapore del primo sigaro che aveva fumato, e ricordava il luogo, in campagna, con una donna. Anzi rivedeva questa donna ancora ilare e giovane.
Si trovò accanto un compagno con cui la notte aveva parlato e con cui aveva bevuto.
Non se ne ricordava che ora. In un baleno, ricordava che aveva visto questo suo compagno tracannare il vino e aveva notato il suo gorgozzule stirarsi nell’inghiottire. Poi aveva posato il bicchiere e lo guardava. Allora egli aveva pensato: « Costui morrà ». E gli pareva di vederlo già supino e stava per gridargli di stare attento.
Ora questo compagno gli era tornato accanto dicendo: « Avanti » e mentre parlava i suoi denti brillavano tra le labbra come se la mandibola già gli si fosse irrigidita nella morte e occorresse sigillargliela.
Allora egli si scuoteva, guardava i suoi uomini e gridava, sentendosi gridare come se una mano gli cavasse l’anima, e il corpo restasse là a muoversi come una macchina. Si faceva avanti. Vedeva finalmente che cosa c’era « di là ».
Uno spiazzo di terra con un albero in mezzo, e il sole.
Più lontano, alcuni monti avvolti di nebbia, e paesi bianchi e calmi. Non udiva nulla. Ma gli pareva che una corrente impetuosa lo travolgesse tentando di gittarlo indietro. Accanto a lui un omo aveva gridato, un grido come non se ne ascoltano mai da svegli, un grido che pareva avesse squarciata la gola per uscire, e che significasse: « Ecco: ora io so tutto; ho capito tutto. Ma non posso parlare, non parlerò più ».
Egli si volgeva a vedere il suo compagno che abbassava il capo tra le braccia a corona sulla terra. Gli vedeva una ferita tra i capelli come tra le penne d’un uccello colpito. Poi la barba si scarruffava per le contrazioni del viso che si incavava. Giaceva come se la terra, avida di tenerlo, lo avesse legato a sé, anzi faceva tutt’uno con lui.
Egli tuttavia andava attraverso la corrente impetuosa senza pensare a nulla.
All’improvviso era scosso da un tremito. Si gittava in terra, dietro a un sasso. Non sapeva dove fosse stato colpito, ma era sicuro di questo. Gli bastava.
Allora il suo animo cambiava improvvisamente e si rasserenava. Udiva distintamente parlare intorno, udiva i colpi dei fucili, vedeva il cielo sopra di sé. Succhiava il sigaro disperatamente e questo lo convinceva di essere ben vivo.
Le voci che udiva gli parevano naturali come quelle che aveva sempre udite. I colpi del fucile gli sembravano lucciole vaganti, gli stamburamenti del cannone erano inutilmente rabbiosi.
Gli pareva oramai di aver diritto a tutto e di non esser legato a nessuna legge.
Ora era sera. Il fuoco cessava con un raro scroscio di sermenti bruciati. Si levava, traversava la linea, si trovava nel camminamento. Colà tutto era mobile e fangoso. Alcuni uomini si trascinavano carponi, altri sulle natiche, giacché avevano i piedi spezzati. Egli passava sui feriti che gemevano e non badava se metteva il piede sulle piaghe. Andava a testa alta tra i colpi che si accanivano sugli inermi.
OPERA DI RIFERIMENTO
Anne-Christine Faitrop-Porta, Corrado Alvaro. Memoria del cuore. Racconti della guerra 1915-1918, Reggio Calabria, Città del Sole Edizioni, 2015, 128 pagine, 12 euro.
Il libro e la biografia dell’autrice sul sito di Città del Sole Edizioni
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