C’è una linea che congiunge il genere “giallo” alla filosofia orientale e ne definisce le sottospecie del “poliziesco” e del “noir”. È la lotta contro le apparenze, contro i fenomeni visti dall’esterno, laddove il monito costante delle filosofie orientali è quello di entrare dentro le cose, di farsi le cose stesse, di immedesimarsi nei fenomeni.
Il motto di Budda, il suo testamento, consiste in una sola parola: “Diffida!”. La fenomenologia, con termine filosofico, è essenzialmente gioco di specchi e in letteratura questa diffida ci era già stata proposta da Luigi Pirandello, che ne aveva intuito e teorizzato la fallacia, ma anche il castello di Atlante di Ariosto ne è un simbolo perfetto: gioco illusorio da mago che attira e imprigiona.
Chi guarda lo specchio è vittima del gioco illusorio e di chi dallo specchio manovra le immagini.
Nel giallo, ed è questo l’aspetto pedagogico, la decodificazione dello specchio e delle illusioni costituisce una costante.
L’investigatore deve innanzitutto liberare la realtà, l’accaduto dagli specchi e deve restarne fuori, deve resistere al loro coinvolgimento, diffidare, secondo il monito di Budda.
Ma il grado più alto dell’ascesi orientale è l’incontro con il sé, la capacità di spogliare dagli specchi se stessi, il proprio io: chi è padrone di sé, ha già affrontato la terribile esperienza di incontrare se stessi, al grado zero.
Per l’appunto Roland Barthes in Il grado zero della scrittura (Lerici, 1960), indica in una famosa opera di Agatha Cristie il paradosso dell’assassino che si nasconde sotto l’io narrante. Non c’è nulla di più ambiguo, incerto, indecifrabile dell’io, checché ne dica Freud che ha cercato di interpretarlo attraverso le pulsioni.
Per questo il genere autobiografico risulta un’autodifesa, l’addomesticamento delle scelte e degli errori, ma è altro solo quando si carica di elementi mistici, religiosi e simbolici come accade per Le confessioni e La vita nova.
Le confessioni agostiniane, ad esempio, sono espressione di una rinnovata interiorità e il libro dantesco è sulla stessa strada.
Ma torniamo ai gialli. I personaggi delle narrazioni gialle formano un tripudio di caratteri, di elementi davvero singolare. Da Poirot, e la cura maniacale dei baffetti, a Nero Wolfe, altrettanto maniacale nella cura delle orchidee, da Miss Marple, che fa la calza e nasconde la sua vera natura sotto la maschera della modesta zitella inglese, a Sherlock Holmes con la sua pipa e il suo doppio nel Dottor Watson. E certo non si può scordare che la pipa è anche caratteristica del commissario Maigret.
Uno tra i più recenti personaggi, venuto ad aggiungersi alla schiera nutrita dei predecessori, è Pepe Carvalho, di cui l’autore catalano Manuel Vázquez Montalbán (morto nel 2003) ha fatto un anti-eroe al centro della nuova forma del giallo: l’antiromanzo, appunto.
Il giallo diviene tanto più interessante, quanto più riesce, in un sapiente “pastiche”, a mescolare altri generi e altri aspetti: la storia, l’archeologia, come accade spesso nei romanzi di Agata Cristie, la società per Maigret e infine Carvalho.
Pepe non ha particolari passioni se non la gastronomia, ma riesce a divenire un tipo, simbolo di tutto un ambiente, un momento storico, una generazione.
E poi ci sarebbero i tanti investigatori americani come Marlowe, più votati all’azione, ma tutti sublimi decodificatori di specchi, di altrettanti ambienti storici e sociali.
Non possiamo chiudere senza citare il commissario Ricciardi, l’ultimo investigatore italiano, forse quello più allucinato ed estremo creato da Maurizio De Giovanni, talmente fuori dell’ordinario da oltrepassare lo specchio della vita e della morte, perché appunto parla con i morti.
In tutti loro e all’origine del giallo c’è la predilezione romantica per la morte, la carne e il diavolo come recita il titolo di un celebre saggio di Mario Praz.
Carmelina Sicari