Celebrazioni meritate per il grande scrittore, innovatore della parola, cultore del significato della letteratura come suprema interprete della realtà, che resterebbe incomprensibile senza l’apporto, il completamento, di un “oltre”, senza la fantasia, il simbolo.
Da qui l’ammirazione di Calvino per Ludovico Ariosto proprio per quella sua capacità di creare, all’interno della poesia cavalleresca, simboli potenti come l’ippogrifo e il castello d’Atlante.
L’ippogrifo… “Chi era costui?”, chiedeva terrorizzata l’allieva alla docente. E non era la sola a meravigliarsi, l’illustre cardinale Ippolito d’Este prima di lei si lamentava delle “fole” che andava costruendo Messer Ludovico. Eppure, il cavallo alato, l’ippogrifo, appunto, rappresentava per il poeta la commistione della realtà, la capacità dell’uomo di creare simboli con cui potersi elevare e riscattare.
La forza della poesia cavalleresca dell’Ariosto sta, secondo Calvino, nella “comune sorte di soggiacere ad incantesimi, ossia di essere dominati da forze complesse e sconosciute, lo sforzo di liberarsi ed autodeterminarsi, inteso come un dovere (…). La bellezza come segno di grazia elementare e soprattutto la sostanza unitaria del tutto (…). L’infinita possibilità di metamorfosi di ciò che esiste”.
Su questi archetipi i due grandi poeti, perché tale è anche Calvino, concordano.
Il castello di Atlante con le sue illusioni, con il gioco di specchi, è l’esistenza tutta che tiene prigionieri gli umani, li conquista e li riduce in spazi ristretti. Così ne “Il visconte dimezzato” Calvino coglie la necessità di un mondo ideale e la sua stretta parentela con la realtà in una fusione, quasi un miscuglio di bene e male. Il visconte diviso in due parti, l’una buona e l’altra totalmente malvagia, deve essere ricomposto.
Così anche “Il cavaliere inesistente”, che risponde all’appello dell’imperatore nel campo di maggio: “Io non esisto”, esprime la necessità di ciò che non c’è, dell’assenza, del vuoto, l’importanza del desiderio e della nostalgia.
E infatti, quando il desiderio è attuato come ne “Il barone rampante” in un ritorno alla natura e a uno stato edenico viene presentato come possibile dall’uomo che vive sugli alberi, anche allora, la necessità della composizione, dell’unità si avverte drammatica ed impellente.
L’imperativo dell’inconsistenza della realtà trionfa ne Le città invisibili: la città ha una certa fisionomia per chi passa senza entrare, ma ne ha un’altra per chi entra e non potendo uscire ne è preda. Questo espediente narrativo, altro non è che la traduzione del castello di Atlante.
La ricerca costante dell’esistenza, non della gloria, quanto della bellezza, sempre inseguita e mai raggiunta, eternamente sfuggente. La letteratura con il tramaglio dei casi, l’infinito rinnovamento delle vicende può dare accesso ad essa, certo un accesso fuggevole e a tratti doloroso.
Se l’eroe nuovo, Orlando, impazzisce, al contrario, Astolfo con l’ippogrifo conquista il mondo lunare.
Ma lasciamo la luna a Leopardi, come dice lo stesso Calvino ne Lezioni americane, vero testamento letterario. Nelle sue lezioni lo scrittore indica le categorie letterarie principali: leggerezza e rapidità, che altro non sono che i cardini della poesia dell’Ariosto. I canti costruiti in ottava sono così agili da far trascorrere da un verso all’altro panorami straordinari e la leggerezza è tale che il mio professore al liceo, riprendendo un noto giudizio di Croce, poteva sostenere che non c’è drammaticità nella poesia ariostesca.
Il peso dell’esistenza è alleggerito nell’arte e nella fantasia che rapida riesce a trasportarci in più spirali aeree. Ancora l’ippogrifo, lo stesso Pegaso delle Lezioni americane, quello stesso cavallo alato che Perseo inforca per uccidere la Medusa..
Carmelina Sicari
Suggerimento di lettura :
« Orlando Furioso di Ludovico Ariosto raccontato da Italo Calvino » (1970)