Francesco Lotoro, docente di pianoforte presso il Conservatorio di Foggia, convertito alla religione ebraica nel 2004, ha scelto da più di vent’anni d’intraprendere uno studio molto particolare: raccoglie, cataloga e fa rivivere musiche « composte in cattività » da musicisti rinchiusi nei campi di prigionia e sterminio del secolo passato. La KZ Music ha prodotto un cofanetto di 24 cd con questo materiale di grande interesse storico e musicale, una vera e propria « Enciclopedia della musica concentrationaria ». Dopo le interviste a molte testate giornalistiche famose, il Professore Lotoro ha accettato di essere intervistato da Altritaliani.
*
*
P.B. Quattromila partiture recuperate, quattromila ancora da decifrare. Potrebbe spiegare ai lettori di cosa si occupa esattamente?
F.L. Sono solo e unicamente pianista e docente di pianoforte al Conservatorio U. Giordano di Foggia. La ricerca dell’intera musica prodotta nei Lager inizio’ nel 1989, da allora non si è più fermata.
P.B. Da dove è nata questa sua passione per le musiche scritte dai deportati?
F.L. I prodromi della fenomenologia sociale della deportazione (civile o militare) durante la Seconda Guerra Mondiale risalgono al 1933 con i trasferimenti nei Lager sulla base di una ideologia persecutoria attuata dal Reich per ragioni politiche (oppositori al nazionalsocialismo, membri di partiti ideologicamente ostili al Reich, persino SA cadute in disgrazia), discriminatorie (disabili, omosessuali) o pseudo–razziali (ebrei, Sinti e Roma e altri del popolo Romanes). Durante la Guerra subentrarono altre categorie sociali, politiche e religiose colpite da provvedimenti restrittori da parte di entrambi gli schieramenti (Paesi dell’Asse o Alleati) per ragioni legate all’evento bellico: baschi riparati dalla Guerra Civile Spagnola e poi trattenuti dal Reich a Gurs, quaccheri di passaporto britannico residenti nei Paesi Bassi, religiosi benedettini o francescani ostili al nazionalsocialismo, ebrei con passaporto rumeno o tedesco o austriaco trattenuti dall’U.R.S.S. o dalla Gran Bretagna, italiani residenti in territorio sovietico o giapponesi in territorio statunitense dopo Pearl Harbor sino ai militari di tutte le parti in Guerra, compresi gli ufficiali della Wermacht prigionieri nei P.O.W. Camps degli Alleati. A tutto ciò ho dedicato le mie energie negli ultimi 23 anni, inizialmente mosso da legittima curiosità e passione ma oggi da un preciso dovere etico, umano, storico, artistico.
ULLMANN Sonata n.5 3
P.B. La sua appartenenza al popolo ebraico che nella sua lunga storia ha subito ghettizzazioni geografiche, religiose e culturali, ha influito sulla sua ricerca?
F.L. Sino a un certo punto. Mi sono convertito all’ebraismo e sono a tutti gli effetti ebreo dal 2004; mi sono sempre sentito tale ma non è soltanto ciò che mi ha spinto a intraprendere queste ricerche. Allo stesso tempo, non è l’essere musicista che mi ha spinto a intraprendere queste ricerche. Essere musicista ed ebreo mi ha aiutato, l’uno a entrare in simpatia con questo patrimonio musicale, l’altro a blindare questa ricerca nei termini della memoria e del dovere irrinunciabile di salvaguardarla, custodirla e, soprattutto, estenderla a tutta la memoria della musica scritta nei Lager (altrimenti, la memoria diventerebbe un hortus conclusus). Ma l’uno da solo è insufficiente senza l’altro e la combinazione delle due cose è la risposta giusta.
P.B. Lei si occupa di compositori e musicisti segregati in sistemi politici diversi, in epoche diverse, spesso anche di paesi differenti. Trova che il loro modo di fare musica abbia delle somiglianze? Oppure è la cultura, le circostanze o la tenacia che, in qualche modo, cesellano la riuscita di una partitura scritta in reclusione?
F.L. Durante questi anni di ricerca mi sono altresì dedicato (in periodi di tempo necessariamente più compatti e limitati) a recuperare la musica che venne censurata e interdetta durante il periodo di occupazione della ex Repubblica Cecoslovacca da parte delle truppe del Patto di Varsavia, occupazione che pose fine alla storica Primavera di Praga. Registrai e pubblicai un disco (Praha ‘68) con musiche di Pinos, Pokorny, Istvan, Eben e Knizak. Ho sempre considerato un dovere etico del musicista dare voce alla musica scritta in situazioni di reale sofferenza umana. Le somiglianze tra le musiche scritte in cattività o in condizione di estrema privazione dei diritti ci sono, ma sempre in filigrana. Il dolore è sublimato, sottende la musica, non la soffoca. In ogni caso, il compositore scrive con estrema lucidità mentale e una consapevolezza del disagio logistico, psicologico che sta vivendo in prigione o in Lager; nulla è mai confuso o approssimativo nelle partiture di musica concentrazionaria. Può succedere che la partitura giunga a noi incompleta a causa della morte dell’autore, ma è una variabile da mettere in conto. Anche nelle partiture più problematiche, come nel caso del Nonet scritto con la carbonella vegetale su fogli di carta igienica nel Vazební věznice di Praha–Pankrác, l’autore Rudolf Karel, pur gravemente dissenterico, riesce a conservare il pieno controllo formale dell’opera (era costretto a scrivere pochi fogli al giorno durante la sua permanenza in infermeria; questi fogli uscivano clandestinamente dal carcere grazie al secondino Mueller) e, anche in zone dell’opera lacunose o scritte con calligrafia incerta, l’autore ci fornisce tutti gli elementi di strumentazione che anni fa mi hanno messo nelle condizioni di ricostruire e completare l’opera (si trova nel 17esimo CD–volume della mia Enciclopedia KZ Musik). Spesso dimentichiamo che lo struggente canto blues altro non è che musica concentrazionaria creata da africani deportati in America e costretti al lavoro coatto nelle piantagioni di cotone.
KROPINSKI Zlota jesien
P.B. Il filosofo francese Michel Foucault ha impegnato gran parte dei suoi studi nel delineare la fisionomia del “grande internamento”, della ghettizzazione nella società umana ponendola come base della nascita della società moderna. È d’accordo? Riguardando attentamente la sua ricerca, pensa che la nostra società si fondi su varie tipologie di ghettizzazione?
F.L. Queste sono tematiche sulle quali non dispongo di argomenti sufficienti. È vero, quando si parla di “ghetti”, con tutte le possibili sfumature del termine, non posso non pensare che la loro istituzione nelle principali città della Polonia occupata (tra Warthegau e Governatorato Generale) ad alta densità di popolazione ebraica durante la Guerra fu un evento drammatico, fortemente invasivo degli equilibri sociali e culturali di una città ma anche degli assetti urbanistici violentemente rimodulati per la coabitazione forzata di un numero di cittadini 5, 6, addirittura 10 volte superiore alla massima capienza possibile. Un autentico disastro umanitario, che precedette di pochi anni la loro liquidazione all’indomani della caduta del ghetto di Varsavia e il conseguente trasferimento nei Campi della popolazione ebraica polacca colà presente. La mia ricerca non si concentra sui Lager e non già sui ghetti; in questi ultimi si crea materiale musicale di eccezionale valore storico e artistico ma frutto di processi creativi diversi da quelli dei Lager del Reich dove vigono sistemi di controllo, restrizioni, pressioni psicologiche e problematiche di sopravvivenza fisica e dell’intelletto di tipologia semplicemente diversa da quella dei ghetti.
P.B. Quanto le costa in tempo, pazienza e attenzione, reperire le partiture scritte con mezzi di fortuna dai carcerati?
F.L. Nel mio caso, ho dovuto mettere da parte progetti concertistici e altri progetti interessanti allo scopo di potermi letteralmente immergere in queste ricerche, impossibili da compiere part–time. Il ritmo di ritrovamento di queste opere è settimanale e su tutte esse pesa l’urgenza della messa in sicurezza da deterioramento cartaceo, volatilizzazione dell’inchiostro e (in molto casi) della già debole tempera della matita, per tacer delle audiocassette con il nastro pieno di umidità o di difficile sbobinatura. Ma tutto ciò l’ho messo in conto e, modestamente, mi sono sempre più addestrato con il buon uso della rete, della scansione digitale e altro. Quello che non avevo messo in conto era l’indebitamento sempre più pesante sino a dover contrarre un mutuo dopo l’altro, l’incapacità totale delle istituzioni di aiutarmi, una diffusa incomprensione di ciò che sto facendo da 23 anni, l’ostilità di persone di cultura e di università che avrebbero potuto aiutarmi; sino allo sciacallaggio di professori ai quali mi ero rivolto per essere da loro aiutato e che invece anni fa si spacciarono sui giornali come coloro che avevano compiuto questa ricerca. Ovviamente questa gente è stata smascherata e coperta di ridicolo dall’intero consesso artistico, accademico e da coloro che nel mondo seguono e sostengono moralmente la mia ricerca; ma tutto ciò mi ha sorpreso (negativamente), mi ha fatto perdere molto tempo e mi ha dato la consapevolezza che questa ricerca è sì da compiersi risolutamente in questa epoca ma i frutti e i benefici non appartengono a questa generazione. Tra quaranta anni una generazione di studiosi, musicisti, ricercatori e persone di cultura, io spero, libera da egoismi, protagonismi e deficit di solidarietà potrà godere di questa ricerca, prendere i 24 CD-volumi della mia Enciclopedia discografica KZ Musik (conto di registrarne altri 24 nei prossimi anni) e analizzarne le opere contenute piuttosto che i 12 volumi del Thesaurus Musicae Concentrationariae che sto pubblicando, sedersi al pianoforte o imbracciare il violino, studiarne le partiture ed eseguirle in teatro o in auditorium. Intendo, eseguirle con quello spirito di normalità del repertorio musicale senza quella patina di eccezionalità che, io credo, caratterizzerà ancora a lungo questa musica scritta nel luoghi della Shoah, del Porrajmos e in generale della sofferenza umana; perché è proprio quello che i loro Autori avrebbero desiderato.
BERNIKER Reichsbahnlied
P.B. Ha dovuto viaggiare molto? Ha fatto ricerche in Francia?
F.L. Ho viaggiato molto negli scorsi anni; recentemente ho ottimizzato i viaggi facendone meno ma con più tappe. La ricerca si è svolta principalmente presso musei, archivi, biblioteche, conservatorii di musica, antiquariati librari, collezioni private in Austria, Belgio, Croazia, Danimarca, Francia, Germania, Gran Bretagna, Israele, Italia, Paesi Bassi, Polonia, Repubblica Ceca, Repubblica Slovacca, Russia, Serbia, Svizzera, Ungheria, U.S.A.; ho sempre tenuto conto del lavoro di ricerca storica, documentaristica e musicologica già compiuta anni addietro da Bret Werb, Guido Fackler, Joža Karas, David Bloch, Elena Makarova, Eleonore Philipp, Gabriele Knapp, Milan Kuna, Blanka Červinková. La Francia è probabilmente il Paese che mi ha aiutato di più e nel quale ho tantissimo da ricercare ma non mi è stato sinora possibile compiere un lavoro più sistematico; ho molto ricercato a Parigi e, nel 2007, a Lille e Dieppe. L’anno scorso lo scrittore e giornalista Thomas Saintourens ha pubblicato un libro sulle mie ricerche (Le Maestro, Editions Stock Paris).
P.B. Nelle sue ricerche ha incontrato soltanto musica classica oppure appartenente ad altri generi?
F.L. Queste ricerche riguardano i Lager aperti da Terzo Reich, Italia, Giappone, Repubblica Sociale Italiana, Regime di Vichy e altri Paesi dell’Asse oltre che da Gran Bretagna, Francia, U.R.S.S. e altri Paesi Alleati in Europa, Africa coloniale, Asia, America e Oceania. Nei Campi riscontriamo musica di ogni genere (sinfonico, teatrale, oratoriale, cameristico, strumentale solistico, vocale e corale, cabaret, jazz, religioso, popolare e tradizionale, parodia), non ultima la musica obbligata ossia scritta su ordine delle autorità tedesche. Oggi possiamo affermare che è il Campo stesso a suggerire nuovi generi musicali, inedite combinazioni strumentali e inattese forme di rappresentazione scenica, nella maggior parte dei casi legati alla disponibilità organologica (pochi strumenti a Mauthausen, molti strumenti a Theresienstadt, orchestra di 84 elementi e bande di ottoni a Buchenwald, sei orchestre ad Auschwitz, un harmonium e 4 violini a Saïda, un flauto e 2 violini a Huyton) o a una diffusa espansione nei Lager delle tempistiche fisiologiche delle opere (le mastodontiche Favola di Natale di Giovannino Guareschi e Arturo Coppola scritta presso lo Stalag XB Sandbostel, l’opera in tre atti La lettera scarlatta di Berto Boccosi scritta nell’Uadi algerino di Saïda, Renaissance di Emile Gouè da allestirsi in 2 giorni) o a un forte desiderio di ricreare situazioni musicali e sociali precedenti la deportazione (le Szopka, operine natalizie polacche per marionette messe in scena su apposito teatrino a Dachau e Stutthof).
JOHNNY&JONES Floep zei de stamper
johnny_jones_floep_zei_de_stamper.mp3
P.B. Ritiene che la musica sia stata usata dai deportati per “evadere” da una situazione insostenibile oppure è un bisogno che l’uomo porta dentro di sé ovunque vada?
F.L. Nel Lager il musicista creava a prescindere dal contesto logistico e la musica era frutto di libera espressione non ostacolata (fatte le dovute eccezioni); fare musica creava distensione psicologica, stemperava attriti e tensioni tra deportati e superiori. Un paradosso esistenziale dell’universo concentrazionario era che il compositore ebreo nel Reich non avrebbe avuto alcuna possibilità di esecuzione pubblica delle proprie opere ma nel Lager poteva aggregarsi ad altri musicisti, comporre; da parte dell’autorità occupante, assecondare l’attività musicale poteva giocare un ruolo fondamentale nel mascheramento della situazione concentrazionaria in casi di ispezioni della Croce Rossa. Fare musica è da sempre una esigenza intellettuale e spirituale dell’uomo; deportazione, cattività, lavoro coatto e altre forme di costrizione fisica e psicologica non ostacolarono ma anzi incoraggiarono i processi di creazione artistica. Il linguaggio musicale sarebbe stato profondamente diverso o avrebbe percorso ulteriori, inedite strade se tutti questi musicisti fossero sopravvissuti.
P.B. Quali sono le scoperte che lo hanno più entusiasmato e quelle che lo hanno più commosso?
F.L. Solitamente può scegliere chi è dall’altra parte del confine ossia chi ha la possibilità di usufruire di questa musica o ascoltandola o commentandola. Io ho cercato, recuperato, suonato (o fatto suonare) e registrato ogni pagina di questa musica sempre con la medesima passione, l’identico scrupolo filologico, sia che si trattasse di una canzoncina per voce e chitarra che del capolavoro per solista e orchestra. Ma se volessi per un attimo creare una scaletta di preferenze, citerei senz’altro le partiture pianistiche del Nonet di Rudolf Karel (scritta a Praha–Pankrác) e della Symphonie n.8 op.99 di Ervin Schulhoff (scritta presso lo Ilag XIII Wülzburg); l’opera Der Kaiser von Atlantis e le tre Sonate per pianoforte di Viktor Ullmann (scritte a Theresienstadt), l’imponente Nenia pro Judaeis qui in haec aetate perierunt per violoncello e pianoforte di Eric Itor Kahn (scritta a Les Milles), la Sonata per violino scritta da Marius Flothuis a Sachsenhausen, alcune Songs di Willy Rosen scritte a Westerbork, l’operina What a Life scritta sull’Isola di Man da Hans Gàl, il Canto d’amore scritto nel carcere S. Vittore di Milano dal sufi Gabriele Mandel, Prélude, Choral et Fugue e Prélude, Aria et Final scritte presso lo Oflag XB Nienburg am Weser dal francese Emile Gouè. Il Muziekboekje scritto tra Westerbork e Bergen–Belsen dal giovane Robert Emanuel Heilbut (trovato morto il 22 aprile 1945 presso Finsterwolde–Falckenburg su un treno partito da Bergen–Belsen) e che ho ricostruito nota per nota è stata probabilmente l’opera che mi ha particolarmente emozionato.
P.B. Tutti i ricercatori hanno un sogno nel cassetto. Quale potrebbe essere il ritrovamento che più lo esalterebbe?
F.L. Di sicuro alcune opere di Heinz Alt e Franz Eugen Klein date ormai come perdute a Theresienstadt, la partitura orchestrale del Cantico delle Creature di Pietro Maggioli scritta presso lo Stalag XB Sandbostel (sono riuscito a ritrovare unicamente la riduzione pianistica), la parte per pianoforte de Autunno a Saïda di Berto Boccosi (è giunta soltanto la parte staccata del violoncello) e infine numerose canzoni dei militari francesi negli Stalag del Reich, dei Roma e degli italiani nei Campi sovietici. Ma tutto ciò è soltanto la punta dell’iceberg; ogni opera, dalla pagina al quaderno zeppo di musica, è un’esperienza esaltante e disporre di denaro sufficiente per compiere queste ricerche sarebbe già di per sé un’esperienza esaltante.
P.B. Dall’ultimo articolo di “Le Monde” sul suo studio, ci sono stati nuovi sviluppi o scoperte?
F.L. Indubbiamente c’è stata un forte riscontro mediatico, diversi giornali (dal “Corriere della Sera” al settimanale tedesco Der Spiegel), radio e televisioni (dalla RAI al canale franco–tedesco ArTe alla statunitense National Public Radio) hanno richiesto interviste a partire dal giorno dopo la pubblicazione dell’articolo di Marion Van Rentherghem. Alcuni familiari di musicisti che scrissero nei Lager mi hanno contattato e spedito alcune opere. Ciò mi ha reso contento per una sola ragione; che si sia finalmente scritto e parlato su vasta scala di questi musicisti che ci hanno consegnato questa titanica eredità artistico–musicale quale la musica da loro scritta nei Lager, a dispetto di tanta sofferenza e mortificazione della loro dignità umana e professionale. Chi abbia compiuto queste ricerche può avere la sua funzionalità ma è e deve essere secondario rispetto al processo storico di inclusione e reintregrazione di questa letteratura nel tessuto storico e artistico della storia della musica del Novecento.
Intervista di Pietro Bizzini
Contatto: francesco.lotoro(at)fastwebnet.it
PER SAPERNE DI PIU’:
http://www.musicaconcentrationaria.org/