Sette domande a Valerio Varesi. « E’ solo l’inizio, Commissario Soneri ».

Creatore del famoso commissario Soneri, vincitore tra l’altro del Festival mediterraneo del giallo e del noir con il romanzo « E’ solo l’inizio, commissario Soneri », finalista del Premio Scerbanenco 2011, Valerio Varesi è ancora poco noto al pubblico francese. Ve lo presentiamo con questa intervista a cura di Sarah Amrani, dell’Université Sorbonne Nouvelle-Paris III.

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L’opera del romanziere e novellista Valerio Varesi ha visto il suo pubblico crescere con l’adattamento per la televisione, tra il 2005 e il 2009, dei suoi racconti polizieschi incentrati sulla figura del commissario Soneri. Vicino ai suoi lettori, che egli incontra regolarmente, questo autore raffinato e varie volte premiato – tradotto in Europa, ma tuttora poco noto in Francia – può essere avvicinato tramite il sito a lui dedicato (http://www.valeriovaresi.net/) o, in modo più circoscritto e specifico, tramite il saggio L’uomo della domenica. Il commissario Soneri di Valerio Varesi («Fronesis», anno 6, n° II, gennaio-giugno 2010, pp. 67-92). Nato a Torino nel 1959, Varesi ha vissuto la propria infanzia e giovinezza a Parma, da cui proviene la famiglia. Laureato in filosofia, con una tesi su Kierkegaard, lavora oggi nella redazione bolognese de La Repubblica.

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Il torrente Parma dal Ponte delle Nazioni, Parma – ©Disegno a carboncino da una fotografia di Fulvio Arman, 2009

Sarah Amrani – Com’è nata la tua vocazione letteraria e in che modo la tua formazione filosofica nonché il tuo lavoro giornalistico hanno contribuito a nutrire la tua vena creativa? Uno dei tuoi primi lavori narrativi, Ultime notizie di una fuga, romanzo in cui compare per la prima volta il personaggio del commissario Soneri [[Il romanzo inaugura la seguente serie: Bersagio, l’oblio (2000); Il cineclub del mistero (2002); Il fiume delle nebbie (2003); L’affittacamere (2004); Le ombre di Montelupo (2005); A mani vuote (2006); Oro, incenso e polvere (2007); La casa del comandante (2008); Il commissario Soneri e la mano di Dio (2009); È solo l’inizio, commissario Soneri (2010).]], è proprio ispirato a un caso reale di cronaca nera [[Il caso Carretta, non risolto nel momento in cui viene dato alle stampe il racconto di Varesi.]]: in questo primo approccio al genere poliziesco c’entrava di più il tuo volere indagare ontologicamente un cosiddetto « mistero », concetto inerente ai codici del giallo, o approfondire una tua curiosità professionale? O forse le tue prime mosse letterarie rispondono a tutt’altre esigenze, non riconducibili a quanto fino ad allora eri riuscito ad esprimere?

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Valerio Varesi Comincio col dire che ho iniziato a scrivere molto presto, prima di laurearmi e di intraprendere il lavoro giornalistico. Scrivevo cose un po’ surreali e immaginarie con uno stile che, molto tempo dopo, il critico letterario del giornale della mia città definì
«musiliane». Durante l’università, mi sono dedicato alla scrittura giornalistica e anche dopo. Ora, nel momento in cui ho incontrato il caso di cronaca che mi ha dato lo spunto per scrivere
Ultime notizie di una fuga, non so dire se fosse prevalente la sollecitazione del caso in sé o la mia voglia di raccontarlo. Credo che la seconda risposta sia più vicina alla realtà. I fatti ci vengono incontro e ci convincono perché coincidono almeno in parte con la voglia di raccontare quell’aspetto o quel tema che si vede riflesso in essi. Così è stato per me. Da tempo il giallo e il noir per la loro struttura a indagine, si sono rivelati particolarmente adatti a sviscerare l’aspetto nascosto del reale a patto che la domanda che si pone chi scrive non sia solo tendente a definire chi è stato a uccidere, come nel giallo classico e positivista anglosassone, ma soprattutto perché lo ha fatto. Se l’autore si pone in quest’ottica, tutto riluce di un’atmosfera più ricca e feconda. Chiedersi il perché qualcuno uccide o, più genericamente, la causa del male, vuol dire scavare nella profondità dell’animo umano e nel magma del mondo d’oggi. Significa far salire a galla le contraddizioni sociali e tutte le sollecitazioni criminogene del nostro modo di vivere, del male che contiene. Per questo penso che il giallo usato in quest’accezione, sia oggi un registro narrativo sorprendente e capace di aderire alla realtà, capirla e metterla a nudo. Quello che un tempo era « il genere » oggi è, nelle migliori interpretazioni, vero e proprio romanzo sociale. Ecco quindi che la mia formazione filosofica e il mio mestiere di giornalista mi aiutano e si sposano in questo cammino. Certo, sono un « eretico » del giallo-noir e di ciò sono consapevole, ma seguo questa strada perché credo che sia la via più interessante anche ai fini di un’evoluzione del « genere ». Non sono solo, peraltro. In definitiva, quindi, si può dire che c’è una pattuglia di « eretici » che usa il giallo per entrare come un vomere nella realtà e rivoltarla.

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Amrani – In questa tua ricerca di risposte sul male, in realtà tu non offri mai prospettive o risposte rassicuranti, anzi. L’uso che fai del giallo, in particolar modo nei romanzi che vedono Soneri protagonista, è in effetti molto specifico: i tuoi romanzi sono attraversati non solo da un pessimismo crescente, espresso dallo stesso commissario, ma da una vena intimistica (legata al doloroso passato di Soneri), i cui valori non riescono però a riscattare o a trascendere una corruzione morale imperante. Parma, cuore delle indagini, è così metonimia o metafora di un’Italia allo sbaraglio, guardata con estrema diffidenza da numerosi autori italiani, giallisti e non, da Federico De Roberto in poi. Ritieni di essere propriamente italiano in questo, indipendentemente dalla tua preferenza per un’ambientazione padana? In che modo poi pensi che lo scrittore (italiano soprattutto) incida sulla realtà, possa avere quindi una funzione sociale, se il giallo-nero all’italiana è diventato come dici un «romanzo sociale» a tutti gli effetti?

VaresiÈ vero, non do mai una risposta rassicurante, perché è il nostro tempo a non fornire risposte avendo smarrito riferimenti ideali certi e narrazioni del reale che consentano agli individui di inquadrare la propria vita entro un orizzonte certo. In questo consiste la differenza più grande tra il giallo-noir contemporaneo e i modelli, quelli sì rassicuranti, del giallo conandoliano. Quella stagione, che ancora vede molti imitatori, era contraddistinta da una visione positivistica del mondo e dalla convinzione dell’uomo di poter dominare la natura e il male. Gli eroi di quell’epoca sono investigatori quasi onniscienti che tutto sanno e tutto risolvono a colpi di deduzione. Vi si rispecchia il mondo borghese della seconda metà dell’800 tutto preso dalla sua incondizionata fiducia nella scienza. Già il noir americano hammettiano e chandleriano misero in dubbio quelle certezze nella lotta solipsistica dell’eroe nel caotico mondo americano. Oggi in un contesto totalmente in balia di caso e caos, bene e male si confondono e miscelano in mille sfumature e l’investigatore è per questo disincantato. Ha dentro un mondo di valori certi che tuttavia appaiono come moneta fuori corso nel dilagare di corruzione e vuoto etico. E questo crea una continua alterità con la realtà che si accompagna alla delusione per un progetto di miglioramento covato a lungo e del tutto deluso. In questa mia indagine, mi sento legato sia ad esempi stranieri – Chandler, Izzo, Simenon e certe pagine di Malet –, ma anche alla tradizione italiana del romanzo di impegno rappresentato da scrittori come Sciascia, Scerbanenco, il Gadda del Pasticciaccio e agli autori, in gran parte emiliani, del nuovo romanzo sociale nato negli anni ’90.

Amrani – Prima di tornare a parlare di modelli letterari, vorrei indagare insieme a te il tuo rapporto col tuo protagonista “maggiore”, il commissario Franco Soneri, intorno a cui hai creato un mondo affascinante e coinvolgente, fatto non solo di tipica nebbia padana (per niente pittoresca però) ma pure di attaccamento a tradizioni ancestrali direttamente legate al territorio parmense, un commissario la cui stessa personalità è avvincente nella sua complessità, nonostante la taciturnità. Benché la domanda ti sia già stata fatta e sia piuttosto ascrivibile a una concezione romantica dello scrivere, quanto distacco ti separa da Soneri e in quale misura egli ti è vicino, soprattutto nel considerare con stupore indignato la realtà circostante e nell’esprimere il tuo amore-odio per Parma e la sua provincia? Avremo poi il piacere di leggere prossimamente una dodicesima puntata delle avventure del disincantato commissario?

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VaresiCi sono due modi di costruire un personaggio: o l’autore lo plasma in modo totalmente differente da sé, oppure quasi a sua immagine. Io ho scelto quest’ultima strada perché per me è necessario essere in costante presa diretta col personaggio e poter così vivere le storie dal di dentro, come se io fossi lì al suo posto. E’ un’esigenza puramente narrativa e direi funzionale. Ovvio che tutto il bagaglio di pensieri e considerazioni sulla realtà in generale e sul contesto parmense in particolare, sia molto simile al mio modo di pensare. Insomma, anch’io posso dire, nel mio piccolo, «Madame Bovary, c’est moi!». Certo, non c’è una sovrapposizione speculare tra me e Soneri, ma sui grandi temi c’intendiamo. Siamo entrambi scontenti e delusi di come è evoluto il mondo e di come la speranza nelle «magnifiche sorti e progressive» sia andata spegnendosi nel momento critico dell’età di mezzo, ma non per questo ne deriva una rinuncia alla ostinata ricerca della verità.
Nel frattempo, però, Soneri se n’è andato per un periodo non definito, in vacanza. Tornerà, questo è certo, ma per un po’ ho voglia di scrivere altro sulla storia italiana. Dopo “La sentenza”, ambientata durante la Resistenza, tratterò il dopoguerra fino agli anni ’80, dalla grande speranza, alla morte della politica.

Amrani – La recente storia italiana è infatti chiaramente, anche nei tuoi gialli, uno dei fulcri della tua scrittura e delle tue preoccupazioni non solo “letterarie”: uno dei tratti distintivi del tuo impegno civile in quanto scrittore. La mancanza di memoria storica o, peggio, il disprezzo espresso nei confronti dei sacrifici compiuti soprattutto durante la guerra civile vengono rappresentati nei tuoi testi come mali contemporanei assoluti e come la causa diretta della « morte della politica », come la definisci. Non mi risulta ci siano oggi autori così assiduamente dediti a questa denuncia, il Lucarelli delle indagini del commissario De Luca a parte. varesil.jpgNel penultimo tuo libro non poliziesco, “Il paese di Saimir”, pubblicato nel 2009, affronti però, in modo allo stesso tempo crudo e struggente, la tematica dell’immigrazione clandestina, o meglio il dramma dello sfruttamento della manodopera straniera. Affermeresti che in Italia la mancanza di memoria storica, in questo caso riferita ovviamente all’immigrazione italiana, superi in realtà la sola questione degli anni successivi all’8 settembre? In che modo, per uno scrittore, la «ricerca» di una «verità», tipica delle tue dinamiche narrative, può aiutare a rimediare a questa mancanza?

VaresiLe mie storie sono immerse in un paese senza memoria. Direi in cui la memoria è volutamente cancellata per evitare che si possa giudicare il presente. Una delle caratteristiche italiane è il trasformismo che ci affligge da almeno un secolo. Ma tutto ciò è permesso dalla mancanza di memoria. Così, chi aveva appoggiato il fascismo è stato in prima linea nell’avversarlo una volta che Mussolini è caduto. Allo stesso modo i politici della prima repubblica, abbandonati i vecchi partiti fatiscenti, si sono riciclati sotto altre sigle neonate. Il berlusconismo, nato come nuovo, ha ereditato i transfughi della vecchia Dc e del Psi. Non solo. L’Italia è anche un paese dove non si fanno mai i conti col passato. Caduto il fascismo anche grazie alla guerra di Liberazione, gli organi dello Stato, i carabinieri, la polizia, i servizi segreti sono rimasti quelli mussoliniani che poi si sono vendicati dei partigiani e degli avversari comunisti uccidendoli nelle piazze ogni volta che scioperavano. Nascondendo nell’oblio questi fatti è molto più facile manovrare nel presente mostrando nuovo ciò che è vecchio e compromesso. Lo stesso si può dire dell’immigrazione. Il paese ha dimenticato di quand’era emigrante e oggi tratta i lavoratori stranieri in modo disumano, senza regole né garanzie. Ma tutto rientra in questo generale oblio e nel cloroformio sparso dalle televisioni in mano al potere che anziché aiutare a capire dispensano falsità. Il ruolo dello scrittore, nel suo piccolo, è quello di fare la stecca del coro, tenere alto il livello di guardia e mostrare un altro sguardo sul mondo che non sia quello volutamente superficiale e funzionale al potere stesso che ci viene imposto.

Amrani – Immagino sia anche per questi motivi, che descrivono un’Italia dove i confini ideologici continuamente sfumano in realtà paradossali e contrastanti, che la distinzione tra vittime e colpevoli, spesso accomunati in una stessa torbida dimensione, non è sempre del tutto netta nei tuoi scritti. In una delle tue precedenti risposte citavi alcuni dei tuoi modelli e fra quelli italiani, al primo posto, Sciascia. Come interpreti personalmente, nonché proprio oggi, il retaggio dello scrittore, le sue certezze, la sua razionalità? Quale dei testi sciasciani ti sembra meglio corrispondere al tuo modo di procedere nelle tue creazioni e di concepire il lavoro letterario? In che modo la sua sicilianità (o sicilitudine) si rispecchia nel tuo “radicamento” nel territorio parmense, ammettendo che queste distinzioni abbiano una loro funzionalità narrativa?

VaresiC’è un legame strettissimo tra Sciascia e la mia Parma. Il capitano Bellodi, il carabiniere che conduce le indagini ne “Il giorno della civetta”, è parmigiano ed ex partigiano. La sua mentalità non gli consente di capire il modo di pensare siciliano fino «a spaccarsi la testa» contro quel muro di consuetudini e omertà. Ma quello che amo di Sciascia è la sua capacità, attraverso il giallo, di ricostruire una società e i suoi meccanismi interni criminogeni e non, sviscerando le implicazioni politiche della criminalità con un lavoro profondo di scavo che porta il giallo a essere qualcosa di altro, di molto più complesso e completo del semplice procedimento d’indagine. Sciascia è un autore « politico » come dimostra in quel complesso romanzo che è “Todo modo”, un groviglio che rappresenta magistralmente la vischiosità tutta italiana delle stanze del potere. E se il contesto ambiguo di quest’ultimo è lo sfondo che sottende a tutto il paese, la sicilianità di Sciascia ha una peculiarità non sovrapponibile al mondo di una città del nord. Parma, come Bellodi dimostra, è molto più lontana degli oltre millecento chilometri che la separano dalla Sicilia. Ma il mio commissario ci si muove come un animale nel suo habitat mettendone a nudo le caratteristiche così come fanno i personaggi siculi. Fatte le dovute differenze, il mio lavoro è simile, vale a dire quello di calarsi dentro un mondo e portarne a galla l’essenza attraverso il racconto di una storia.

Amrani – Certo, è del tutto dovuto e illuminante questo richiamo a Bellodi. Una bella coincidenza, o meno, che consente di stabilire tra te e Sciascia un legame che va oltre una comune ortodossia nello scrivere, intrisa di analisi o mere suggestioni politiche, socioculturali e antropologiche. Per quanto riguarda invece il tuo rapporto con la letteratura contemporanea, quali sono i “colleghi” emiliani, cui alludevi prima, ai quali più ti senti vicino? Devo dire comunque che la tua capacità di far contemporaneamente il giornalista, lo scrittore, il lettore, il tutto con attenta scrupolosità, è a dir poco proprio straordinaria. Che vacanza sogna un uomo impegnato su così tanti fronti?

VaresiTra i miei colleghi emiliani è nato, a partire dagli anni ’90, un rinnovamento del giallo proprio in chiave di letteratura sociale. Parlo del primo Lucarelli, di Marcello Fois, di Luigi Bernardi e molti altri scrittori che hanno svecchiato la vecchia idea di « genere ». Ma tutti noi dobbiamo riconoscere un grande tributo a Loriano Macchiavelli che per primo, in Italia e non solo in Emilia (regione comunque sempre innovatrice e vivacissima), ha creduto nel ruolo di questa narrativa quando veniva confinata dalla critica un po’ parruccona nel limbo in cui già la isolò Simenon allorché parlava di «paralittérature». Negli anni ’70 Macchiavelli già gettava le basi del giallo di oggi anticipando la realtà violenta della Bologna degli anni ’80 (strage della stazione, abbattimento di Ustica e bombe sui treni). Da pioniere subì sprezzanti attacchi, ma oggi gli si deve riconoscere il merito di avere avuto il coraggio di credere in quella sua idea di letteratura.

Che vacanza sogno? Il mio immaginario corre sempre verso i monti, i boschi e la frescura delle valli. Mi piacerebbe un posto dove stare con amici e ogni mattina riunirci in una corsa collettiva tra gli abeti. Oppure sul mio Appennino, luogo dell’anima dove ritrovo me stesso.

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Amrani – Sei stato tradotto con successo in Gran Bretagna: due dei tuoi “Soneri”, “Il fiume delle nebbie” e “Le ombre di Montelupo”, sono stati finalisti al premio del miglior giallo internazionale tradotto in lingua inglese. Il pubblico tedesco, spagnolo e turco ha pure avuto l’opportunità di conoscerti. Manca a questo punto solo la Francia o per lo meno un’apertura ai lettori francofoni, anche se un editore belga, francofono per l’appunto, ha già potuto apprezzare la qualità della tua scrittura, senza che ci sia poi stata la possibilità di trasformare in collaborazione questo interesse. In genere quale percezione hai dei tuoi testi tradotti e quale messaggio rivolgeresti agli editori francofoni e/o ai lettori di madrelingua francese?

VaresiSono molto contento dell’apprezzamento di un editore raffinatissimo qual è Christopher MacLehose in Inghilterra e in generale del buon successo in quel paese come testimoniano le selezioni del Silver Dagger che mi ha visto per due anni consecutivi in finale. Anche perché gli editori britannici traducono molto meno dei loro colleghi italiani, tedeschi e in generale europei avendo a disposizione una quantità enorme di testi nella loro lingua. Nel frattempo sono arrivate anche le edizioni polacca e olandese aggiungendosi a quelle che tu hai citato. Delle grandi lingue europee, manca solo quella francese e, a essere sinceri, la cosa un po’ mi sorprende. La ragione sta nel fatto che molti critici in Italia mi hanno etichettato come un narratore proprio di scuola francese attribuendomi la definizione di «simenoniano». Tutto ciò mi lusinga essendo io un sincero ammiratore del grande romanziere di Liegi, ma proprio per questo pensavo di avere una ottima accoglienza tra gli editori francofoni. I fatti mi hanno smentito. O forse è proprio questo mio essere « francese » a scoraggiare gli editori di quel paese. In fondo potrebbero dire: cosa ce ne facciamo di ciò che già abbiamo? Meglio la diversità, il tratto che connota l’italianità, magari grazie a un romanzo ambientato nel sud, tra la criminalità organizzata. Questa è la risposta che mi sono dato nel tentativo di spiegare lo scarso interesse degli editori francesi. Dico ciò anche perché mi sembra di capire che all’estero l’Italia del noir venga percepita attraverso il filtro del cliché criminale mafioso o camorristico e chi si scosta da tutto questo tradisce le aspettative dei lettori stranieri molto spesso fuorviati da quest’immagine italiana. In Germania, per esempio, ho visto i miei libri apparire in servizi giornalistici la cui immagine dominante in apertura era un grasso carabiniere coi baffi neri in posa davanti a un cartello con scritto « Corleone ». Forse si trattava di una pubblicazione popolare, ma ciò la dice lunga sulle aspettative dei lettori tedeschi che comprano un giallo italiano. È difficile far capire che l’Italia non è quello. O meglio, non è solo quello, ma un paese molto vario e con enormi differenze. Forse il paese più composito d’Europa e per questo anche il meno compatto socialmente. Per restare in Germania, un lettore durante una presentazione mi ha chiesto: « Noi tedeschi abbiamo un’idea dell’Italia come del paese del sole, ma nei suoi romanzi piove, c’è nebbia o magari nevica: è proprio così? » Cosa potevo rispondere? Cosa si può dire di un territorio che ha più mare di tutti gli altri e contemporaneamente i monti più alti di tutta Europa? Dove al nord alcuni parlano tedesco o francese mentre al sud dialetti derivati dal greco o dall’arabo? Dove si passa dalle case di stile austriaco ai dammusi come in Nord Africa? Spero comunque che arrivi anche una traduzione francese, non foss’altro perché mi piace molto la Francia, che ho visitato più volte percorrendo migliaia di chilometri dalla Normandia alla Provenza, e amo molto i suoi scrittori noir a partire da Jean-Claude Izzo.

A cura di Sarah Amrani, Université Sorbonne Nouvelle-Paris III

INTERVIEW EN VERSION FRANCAISE: http://nositaliesparis3.wordpress.com/

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