Alla domanda – terrificante – che vorrebbe urbanamente introdurre uno scambio di conoscenza : Che cosa fai ? / Qu’est-ce tu fais ? (identico è infatti nell’impudenza il francese all’italiano), l’italiano almeno si mantiene modesto, coerente e, a ben guardare, anche logico : Faccio l’insegnante / il medico / etc. Il francese invece ontologizza la questione, e ne fa una scommessa assoluta sull’intera esistenza, sull’essenza di un uomo (in the bisexual, biblical meaning, I mean : l’Adam donn’uomo): Je «suis» … questo / quell’altro. (Una mia cara amica – che mi perdoni se la cito senza chiederle il permesso – soleva tuttavia rispondere, proprio in francese : Je fais de mon mieux ; e altre volte : Je fais mon possible… Forse – ho dimenticato di chiederglielo – sporcaccionava dall’italiano).
O forse è l’impudente francese che disipocritizza nella risposta la elefantesca delicatezza della domanda – che, lo dicevo e lo ripeto, anzi, lo sottolineo : è oscena. Ma come ? Io non ti conosco, tu non mi conosci, ed ecco che (façon de dire) mi strappi di dosso i vestiti per guardarmi dentro, attraverso, per conoscere le viscere sanguinolente della mia anima… Perché non bisogna prendersi in giro : la domanda non mira a sapere in cosa consista la nostra attività «alimentare», se si sia o meno cassiera a Casino, o controllore alla RATP – no, la domanda vuole sapere, d’emblée, anche se distrattamente (per giunta, quel culot !), con chi si abbia a che fare : chi siamo, appunto. E non c’è questione più delicata, più imbarazzante, più difficile (voire impossibile) da rispondere. Solo i mestieri «nobili» si possono eventualmente esibire trionfando – ma anche lì, quanti equivoci : esistono davvero i mestieri «nobili» ? Non è comunque e sempre indecente il fatto stesso di esercitare un mestiere, di «fare» ? e tanto più se affermato con stolta fierezza ? Quanti anni di contorcimenti e mani sudate a ripetere : professore… No, no, e sia detto con dolcezza : lasciatemi in pace… andate tutti aff… occupez-vous de vos fesses, s’il vous plaît.
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C’è però un’eccezione al tormento che ho appena descritto – un’eccezione in cui l’essere coincide con il fare, perché quel fare si dimostra essenzialmente e divinamente inetto. La poesia. (Hölderlin diceva : «pieno di merito, e tuttavia poeticamente vive l’uomo su questa terra». Doch : mio è il corsivo, e la traduzione). Si è poeti, anche se non si può dirlo, solo gli altri, eventualmente, possono. Essere poeti è infatti una silenziosa visione del mondo, e di più : un modo di starci dentro. Di più ancora : poeta è un modo di essere, al di là di quel che si produce o meno : conosco poeti, o poetesse, che non hanno mai scritto un rigo ; e scrittori di poesie che non sono poeti… Ed ecco : Fulvio Caccia, che poi piacciano o meno le sue poesie (a me alcune piacciono molto), lo è veramente, Poeta, e più di qualsiasi altra cosa.
Ho letto, riletto “Italie et autres voyages” [[Italie et autres voyages, de Fulvio Caccia (Montréal/Paris, Le Noroît/Bruno Doucey éditeurs 2010 , Prix 14.50€)]] , giocato con le sue parole come fossero oggetti (questo, per me, è il proprio più proprio della poesia), ne ho respirato qua e là un piacere immenso. Ma cosa, poi : parlarne ? Spiegare la poesia, come l’amore, non si puo’. Ci si può passeggiare intorno. E segnalare alcune cose che, mi sembra, la caratterizzano.
La poesia di Fulvio Caccia appare impregnata di cultura italiana, di quella cultura cioè di cui l’autore è innamorato per nascita, vocazione, e soprattutto estraneamento, perdita dolorosa… Pure, con certo paradosso, Fulvio scrive e vibra ostinatamente – tranne qualche raro pastiche – in francese. Ma ecco che il paradosso si rivela essere – …. paradossalmente ! – apparente, sapiente. Il francese che leggiamo in queste pagine infatti è struggentemente figlio di quell’amore. Suo debitore inquieto. L’amore, d’altro canto, non ci avvince con catene robuste e nel contempo invisibili ?
Del resto, non ci si lasci ingannare. Anche l’Italia di Fulvio Caccia è invisibile – direi quasi : inesistente. Cioè : non è un territorio dalle frontiere chiare, né un possesso affermato per via di sangue, che si possa esibire come un passaporto – è un’Italia insomma impossibile da ritrovare in Italia. A meno (ecco un bel consiglio di viaggio) di non arrivarci da Montréal, o Buenos Aires, sapienti delle mille avventure, e cicatrici, degli emigrati, come di quelle di Ulisse, di cui si saranno anche rilette le seducenti peripezie nelle immortali pagine di Omero. È con tutto questo assimilato negli anni che Fulvio guarda, o dovrei dir meglio : sogna all’Italia. (Mi viene in mente un mio amico pittore che al mio protestare la mia allergia all’epoca berlusconiana, mi consiglia di viaggiare in Italia con occhiali “multisecolari”: le brutture degli ultimi anni – ma quando cominciare a contare? – diventerebbero allora piccole piccole. Non sono d’accordo, ma l’immagine mi conforta, come mi confortano i sogni di Fulvio).
Come si sogna, poi ? A cavallo fra scrittura e pittura (eccola di nuovo, dunque), secondo un progetto semplice e originale : l’incontro fra un’artista della parola (Fulvio Caccia, appunto) e un altro dell’immagine (François Morelli, i cui disegni, riprodotti nel volume, Fulvio segue e dispiega), quindi un altro ancora, Augusta Schucani (senza cadere nel biografismo sarà difficile non notare in questi nomi delle consonanze italiane), i cui motivi pitturali tuttavia sono integralmente sciolti nelle parole poetiche (ma possiamo almeno citarne la fonte : Nuit moirée, recueil d’artiste, Paris, 2006 – nota bene dell’ultimo momento : proprio prima di andare in stampa mi segnalano che Augusta Scuchani, che credevo anche lei di origine italiana, è in realtà Rumena ; a mia volta, pur correggendolo, segnalo l’errore di confusione, come sberleffo ai nostrani fautori dei confini sicuri !) ; infine, per tradurre le parole stesse del poeta, «l’arte della strada e i suoi graffiti anonimi son serviti di punto di partenza per il terzo viaggio dedicato al più viaggiatore e misterioso degli dei : Hermes». (Personalissima apertura : penso da sempre di essermi rifugiato nella scrittura a difetto di poter dipingere, e inseguo con parole quelle immagini che avrei voluto creare.)
Il risultato è un suadente vagabondaggio, sempre inquieto, a tratti inquietante per quel che riesce a risvegliare nel lettore, ma anche forte, e rassicurante, della sua audacia «transgender», in senso stretto, e transculturale (dice, nel senso di quispiam dixerit : ma è un’ossessione, chez toi… Rispondo : sì !). «Suadente», perché qua e là, quando meno ce lo aspettiamo, ci lambisce un alito di erotismo, caldo, persino torrido, ma sempre delicato, e poetico, come un invito : una lingua che si srotola nella bocca, un seno palpitante, il profumo del corpo di una donna…
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p.s. Le lecteur ne manquera pas de lire avec attention les deux dernières pages, «en guise de postface», plus discursives : car il y est question d’un des leurres les plus sournois de notre époque (c’est moi qui le dis, si, si…) : la question de «l’identité», dans le sens de ce qui entend «fixer un homme, un peuple à un territoire».
Giuseppe A. Samonà