Pubblicata per la prima volta su «Il Marzocco» del 3 gennaio 1897, la poesia venne poi raccolti in Myricae a partire dalla quarta edizione, quella del 1897, e inserita nella sezione In campagna.
In una notte illuminata dalla luna che resta però nascosta, si ode il canto dell’assiuolo, il chiù: un canto che, dalla prima alla terza strofa, si trasforma da «voce dei campi» (v. 6) a «singulto» (v. 15) e a «pianto di morte» (v. 22), in un crescendo di tensione e inquietudine. Il testo può essere messo in relazione – come sempre avviene in Pascoli – con una tradizione letteraria precedente e con fonti di ispirazione care al poeta: il motivo della luna velata risale soprattutto a Virgilio (antologizzato in Epos, pubblicato nello stesso anno dell’Assiuolo); l’assiuolo è presente nella lirica italiana (da Pulci a Marino, da Verga al Pratesi e al Panzacchi); la poesia esce sul «Marzocco» dove, alcuni mesi prima, era stato pubblicato l’omonimo componimento di Shelley tradotto da Adolfo De Bosis; le abitudini di questo rapace notturno, dall’aspetto simile a quello dei gufi, vengono attinte dall’Ornitologia toscana di Paolo Savi. Tuttavia, come al solito, tutta pascoliana è l’atmosfera di questa poesia, esemplare per comprendere la strada del simbolismo e dell’allusività intrapresa con decisione a partire dai primi anni Novanta.
I manoscritti conservati tra le carte di Castelvecchio permettono di chiarire il significato della poesia (e, per esempio, consentono di scartare l’ipotesi di una notte nebbiosa alla quale potrebbe far pensare il v. 10: la notte è serena, anche se la luna non si vede) e documentano la laboriosità di un testo che punta all’essenzialità, a nessi di straordinaria concentrazione espressiva (da alba di perla a nebbia di latte), ad alludere piuttosto che a spiegare. Da questo punto di vista, vale la pena citare un appunto relativo ai vv. 21-22 che, prima di raggiungere l’aspetto definitivo («(tintinni a invisibili porte / che forse non si aprono più?…)»), avevano assunto una forma («minuti così, che / pareva un gracchiare / una rana / la tarda cicala») non soddisfacente per Pascoli che, a margine del foglio, annotava: «Sì: ma allora non è più la poesia, ma la spiegazione della poesia. Ci vuole abnegazione. Esempio: tintinni a invisibili porte». Una annotazione che Cesare Garboli ha così commentato: «Questa nota va ben oltre i limiti dell’episodio di laboratorio cui si riferisce. Si tratta di una chiosa di grandissima importanza, nella quale si formula con tutta disinvoltura il decreto destinato a diventare legge per il linguaggio poetico del Novecento, l’indissociabilità di poesia e oscurità, di linguaggioe cifrato».
Metro. Tre coppie di quartine di novenari dattilici a rima alterna, ad eccezione del verso che chiude ciascuna strofa e che ripete il verso dell’assiuolo.
L’assiuolo
Dov’era la luna? ché il cielo
notava in un’alba di perla,[1]
ed ergersi il mandorlo e il melo
parevano a meglio vederla.[2]
Venivano soffi di lampi[3]
da un nero di nubi laggiù;
veniva una voce dai campi:
chiù…[4]
Le stelle lucevano[5] rare
tra mezzo alla nebbia di latte:[6]
sentivo il cullare[7] del mare,
sentivo un fru fru[8] tra le fratte;
sentivo nel cuore un sussulto,
com’eco d’un grido che fu.[9]
Sonava lontano il singulto:
chiù…
Su tutte le lucide[10] vette
tremava un sospiro di vento:
squassavano[11] le cavallette
finissimi sistri[12] d’argento
(tintinni a invisibili porte
che forse non s’aprono più?…);
e c’era quel pianto di morte…
chiù…
[1] ché… perla: la luna rischiara il cielo, anche se non si vede, e in questo chiarore (un’alba di perla) il cielo sembra nuotare.
[2] ed… vederla: e il mandorlo e il pero sembravano sollevarsi (ergersi) per vederla meglio.
[3] soffi… lampi: espressione cara a Pascoli che, per esempio, nella Prefazione ai Canti di Castelvecchio scrive: «stavamo a sentir cantare i grilli e a veder soffiare i lampi di caldo all’orizzonte».
[4] chiù: è il verso dell’assiuolo, che, per questo, in Toscana viene chiamato anche “chiù”.
[5] lucevano: splendevano (latinismo appartenente alla tradizione letteraria).
[6] nebbia…latte: è il chiarore lattiginoso della luna. Non si tratta di nebbia reale, e questo è testimoniato anche da un appunto preparatorio della poesia in cui si legge: «Un cielo chiaro. Con poche stelle».
[7] cullare: il mormorio ripetuto delle onde.
[8] un… fru: l’onomatopea viene grammaticalizzata attraverso l’articolo un (ed è seguita dell’onomatopeico fratte).
[9] com’eco… fu: come l’eco di un grido di dolore del passato.
[10] lucide: illuminate dalla luce lunare.
[11] squassavano: scuotevano.
[12] sistri: strumenti metallici a percussione, che emettono un sibilo acuto, utilizzati in Egitto per il culto di Iside (un culto misterico, di resurrezione dopo la morte).
Testi e note tratti dall’antologia poetica “Giovanni Pascoli” (Firenze, Le Monnier-Univerità, 2011), di Giovanni Capecchi.
L’antologia di Giovanni Capecchi su Giovanni Pascoli si propone di dar conto dell’importanza e della complessità dell’opera pascoliana, prestando la dovuta attenzione alle raccolte poetiche “principali” (da Myricae ai Primi poemetti, dai Canti di Castelvecchio ai Poemi conviviali), senza trascurare le poesie giovanili – analizzate mettendo in evidenza elementi di continuità con la produzione successiva e aspetti originali e unicamente legati ad una stagione vitale e a tratti goliardica – e il lungo tramonto da poeta bifronte, “vate ufficiale” che canta il Risorgimento nazionale ma anche uomo che sperimenta la solitudine di fronte alla morte che incombe e la vanità di tutte le cose.
LINK AL DOSSIER TEMATICO ALTRITALIANI DEDICATO A “GIOVANNI PASCOLI”
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