Lo scandalo Vaticano scuote la Chiesa. I Vatileaks fuoriusciti dalle segrete stanze vaticane sono il segno evidente di una guerra ormai non più sotterranea alla Chiesa. Falchi, avvoltoi e corvi si contendono il futuro di San Pietro, mentre c’è chi dice che il papato di Benedetto potrebbe non avere la sua conclusione naturale.
Si racconta che il cardinal Ercole Consalvi (1757-1824), per due volte segretario di Stato di Pio VII (1742-1823), abbia detto a Napoleone che minacciava di distruggere la chiesa: «Non ci riuscirà, maestà. Non ci siamo riusciti neanche noi». Aforisma che in questi giorni torna in auge, non solo in Vaticano.
I fatti sono noti: Paolo Gabriele, «aiutante di camera» di papa Benedetto XVI, è in stato di fermo perché ritenuto il corvo che ha portato fuori dall’«appartamento pontificio» carte riservate dello stesso papa. In molti ritengono che Gabriele non abbia agito da solo, ma sia solo una pedina, mossa da qualcuno più potente di lui. Attacco alla chiesa? Secondo alcuni sarebbe questa la spiegazione. Secondo altri, invece, la questione «corvo» e «Vatileaks» è una sorta di medicina per la chiesa stessa: alla base ci sarebbe l’idea di voler fare una bella pulizia in seno alla chiesa e far uscire fuori il marcio che c’è in essa. E, come si dice, a mali estremi, estremi rimedi.
Non c’è solo Paolo Gabriele che tiene banco in questi giorni: c’è stata anche la defenestrazione di Ettore Gotti Tedeschi, presidente dello IOR. Un modo insolito per il Vaticano di risolvere i problemi. Il classico adagio Promoveatur ut amoveatur è stato sostituito da un più pratico biglietto di sola andata per Quel Paese.
Indiscrezioni dicono che Ratzinger abbia pianto quando ha saputo che il suo amico Gotti Tedeschi (ricordiamo che Gotti Tedeschi è, nei fatti, il «coautore» dell’enciclica Caritas in veritate del 29 giugno 2009) è stato sfiduciato. Ma non ha potuto fare nulla per via delle delicata situazione che sta vivendo la diplomazia vaticana.
Chissà se il problema, alla fine, non sia proprio nella diplomazia vaticana. A destra e a manca si parla delle responsabilità del cardinal Tarcisio Bertone, segretario di Stato di Benedetto XVI. Fin dal suo avvento in Vaticano nel 2006 ha dettato la sua linea: «Più Vangelo e meno diplomazia». Affascinante progetto, non c’è che dire, che magari avrà fatto sperare più di uno, dal momento che si è intravisto in questo programma un desiderio di ritorno al Vangelo che molti auspicano.
Peccato, però, che della diplomazia lo Stato del Vaticano non possa farne a meno, perché si tratta di uno Stato, appunto, che ha rapporti con varie entità alle quali del Vangelo potrebbe anche non interessare. Una cosa è portare avanti una diplomazia ispirata al Vangelo, altra è sostituire la prima con il secondo.
Non si può certamente affermare che il cardinal Bertone sia il responsabile di quanto sta accadendo nello Stato più piccolo del mondo, ma non si può nemmeno semplicisticamente credere che l’unico responsabile sia Paolo Gabriele, «Paoletto» per gli amici.
I giornali hanno sottolineato le parole del Papa durante l’omelia di Pentecoste, mettendo in risalto il riferimento alla Babele in cui si sta vivendo. A parte il fatto che nel giorno di Pentecoste parlare di Babele è «normale» perché la Pentecoste è il «contrario» di Babele, vale la pena riportare qualche stralcio più ampio dell’omelia del papa
[http://www.vatican.va/holy_father/benedict_xvi/homilies/2012/documents/hf_ben-xvi_hom_20120527_pentecoste_it.html ]
Ma che cos’è Babele? È la descrizione di un regno in cui gli uomini hanno concentrato tanto potere da pensare di non dover fare più riferimento a un Dio lontano e di essere così forti da poter costruire da soli una via che porti al cielo per aprirne le porte e mettersi al posto di Dio. Ma proprio in questa situazione si verifica qualcosa di strano e di singolare. Mentre gli uomini stavano lavorando insieme per costruire la torre, improvvisamente si resero conto che stavano costruendo l’uno contro l’altro. Mentre tentavano di essere come Dio, correvano il pericolo di non essere più neppure uomini, perché avevano perduto un elemento fondamentale dell’essere persone umane: la capacità di accordarsi, di capirsi e di operare insieme.
E prosegue:
Questo racconto biblico contiene una sua perenne verità; lo possiamo vedere lungo la storia, ma anche nel nostro mondo. Con il progresso della scienza e della tecnica siamo arrivati al potere di dominare forze della natura, di manipolare gli elementi, di fabbricare esseri viventi, giungendo quasi fino allo stesso essere umano. In questa situazione, pregare Dio sembra qualcosa di sorpassato, di inutile, perché noi stessi possiamo costruire e realizzare tutto ciò che vogliamo. Ma non ci accorgiamo che stiamo rivivendo la stessa esperienza di Babele. È vero, abbiamo moltiplicato le possibilità di comunicare, di avere informazioni, di trasmettere notizie, ma possiamo dire che è cresciuta la capacità di capirci o forse, paradossalmente, ci capiamo sempre meno? Tra gli uomini non sembra forse serpeggiare un senso di diffidenza, di sospetto, di timore reciproco, fino a diventare perfino pericolosi l’uno per l’altro? Ritorniamo allora alla domanda iniziale: può esserci veramente unità, concordia? E come?
Personalmente vi leggo un invito a una revisione globale, anche, e forse soprattutto, interna al Vaticano. Non ci si strappino le vesti: scandali in Vaticano ci sono sempre stati e ci saranno. Alcuni restano all’interno delle «sacre» mura, altri escono. La domanda di base rimane quella di papa Ratzinger: «Possiamo dire che è cresciuta la capacità di capirci o forse, paradossalmente, ci capiamo sempre meno?». Domanda pressante per la chiesa che ogni giorno che passa sembra sempre più arroccata in posizioni lontane dagli uomini, incomprensibili per molti.
Non si vuole certo insegnare alla chiesa a fare il proprio «mestiere» (è facile parlare dall’esterno), ma le persone che sono cresciute guardando alla chiesa come a un faro si trovano disorientate. E forse rammentano la frase di papa Gregorio Magno (540-604): «Colui che è preoccupato troppo della pace puramente umana, non si oppone più al malvagio e così dà ragione ai perversi, costui si separa dalla pace di Dio. È una grande colpa, venire a patti con la corruzione».
All’inizio si è citato il segretario di Stato di Pio VII. Concludo citando lo stesso Pio VII che, all’ufficiale napoleonico che il 5 luglio 1809 gli intimava di cedere alla Francia i territori dello Stato Pontificio rispose con la celeberrima frase: «Non possiamo. Non dobbiamo. Non vogliamo». Qualche presa di posizione più decisa gioverebbe molto alla chiesa cattolica. Anche dal punto di vista diplomatico.
(Nelle foto dall’alto in basso: Paoletto il maggiordomo del Papa, Monsignor Bertone, Benedetto XVI e Gotti Tedeschi ex presidente dello IOR la banca vaticana)
Roberto Russo
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