In un bar di Nantes incontriamo una ragazza, Marina. Ci offre ospitalità per una notte. Di buon grado accettiamo e dopo aver bevuto un paio di birre saliamo a casa sua.
Il palazzo è fatiscente, in un quartiere dall’apparenza poco rassicurante. L’antro è scuro, seguo Marina e il mio compagno di viaggio sopportando il peso delle valigie senza parlare. Cominciamo a salire le scale, che avvolgendosi, salgono all’interno del palazzo buio e decadente.
Arrivati, quinto piano. Marina infila la chiave nella toppa. La porta aprendosi lancia un gridolino che all’orecchio di Marina sembra familiare. Entriamo senza indugiare in formule di cortesia. Un breve corridoio, due porte a sinistra, la camera da letto e il salone, due a destra, la sala da bagno e la toilette, una porta giusto di fronte a quella d’ingresso: è la cucina.
Lasciamo le valige dove lei ci dice e andiamo in salotto. Ci sediamo e accettiamo la birra che ci offre, lei preferisce della vodka alla menta. Prepara il suo cocktail e si siede con noi. Parliamo del più e del meno: da dove veniamo e dove siamo diretti, la nostra città natale. Improvvisamente comincia a raccontarci la sua vita: l’abbandono dopo la nascita, il suo grande amore morto prematuramente, la ricerca della madre naturale e la delusione seguita al loro rincontro.
Qualcosa comincia a ronzarmi nella testa, la sensazione di un “déjà vu”.
Dopo la birra ci spostiamo in cucina e, fedeli al cliché, da buoni italiani prepariamo la pasta, chiaramente al sugo, l’unico alimento presente in abbondanza nella conserva di Marina.
Dopo pochi minuti sentiamo di nuovo il gridolino della porta che si apre. Un uomo vestito completamente in nero entra in casa. Marina dopo aver accennato un’espressione di stupore venata di un leggero panico, s’incammina verso l’uomo, accelerando di passo in passo fin quando non si ritrova tra le sue braccia e comincia a baciarlo avidamente. Dopo qualche istante l’uomo lascia scivolare il cappotto sulla cassapanca di fianco alle nostre borse, sposta Marina con un gesto del braccio e comincia a percorrere il breve corridoio. È di fronte la porta, io e il mio compagno lo vediamo sogghignare, ha i denti marci e scostati. S’infila in salone, quasi di soppiatto, e torna in cucina con un bicchiere colmo di whisky.
Il ronzio si accentua, è lì e non lo riconosco.
“Siete voi i due italiani che ospita Marina stanotte?”
“Oui” rispondo in francese.
“Bene” dice allungando la mano: “Piacere, Florent”.
Afferro la mano con delicatezza, noto che è abbastanza curata. Ha l’aria stanca di chi ha camminato molto.
“La moto parcheggiata di fronte al bar è vostra?”
“Si, Marina ci ha detto che poteva rimanere lì e non ci sarebbero stati problemi.”
“Lascia stare quello che dice Marina. Se rimane lì o la rubano, o la rompono, o la sequestra la polizia”.
“Credi che sia meglio se la mettessero in garage?” chiede Marina con un tono sottomesso.
“Certo!” risponde Florent, che sembra seccato della banalità dalla sua domanda.
Vuota il bicchiere quasi finito di un sol colpo. Si alza, dice qualcosa di simile a “chéri” rivolto a Marina e ritorna, sempre con aria furtiva, in salone. Quando riesce il whisky è di nuovo là.
Ci studia, poi guarda Marina con disappunto. Non ci vuole lì, è chiaro, ma non si esprime, non comunica il suo fastidio. Nasconde dietro sporadici sorrisi il suo disagio.
“Cos’hai?” chiede Marina con gl’occhi traboccanti d’un amore mutilo.
“Sono stanco, ho fatto quella maledetta sala avanti e dietro non so quante volte!”. Ecco, fa il cameriere! Adesso capisco anche perché è vestito in nero da testa a piedi. “Un giorno o l’altro l’ammazzo quel bastardo!”. Sogghigna e svuota un altro bicchiere con un movimento più rapido del precedente.
“Vado a guardare cosa c’è alla tv”. Si alza, uno sguardo circolare che abbraccia la cucina e noi tutti; il passo incerto. Scompare definitivamente in salone.
La pasta è pronta e cominciamo a mangiare in silenzio. Florent non ha appetito e rimane nell’altra stanza.
Dopo cena io e Marina andiamo a mettere la moto in garage. Quando risaliamo trovo Florent e Mario, il mio compagno, che parlano in inglese, italiano, spagnolo e francese. Florent è visibilmente ubriaco e dice cose che non hanno molto senso. La televisione è lì che comunica il suo desiderio d’essere una presenza-assenza.
Il ronzio cresce sempre di più.
Florent parla della sua giovinezza, degli anni in cui avrebbe potuto mangiarsi il mondo ma per amore di una donna non lo ha fatto. La televisione che rigurgita immagini, il suo suono che si confonde con il ronzio che è nella mia testa. Mi chiedo cosa sia questo fastidio ma ecco che comincia a scomparire, le immagini si fanno più chiare. Vedo Marina sedersi accanto a Florent che guarda la televisione e distrattamente ascolta i nostri discorsi. Ho già visto questa coppia. So che è successo tra loro qualcosa che non sanno riconoscere, che non mi sanno spiegare e che forse non è così importante.
Nelle parole scoordinate di Florent in preda all’alcol riconosco i discorsi di Wes, quello che abita a nord di Eureka nella casa di Chef, l’ex alcolizzato. Nelle sue parole la sintassi si organizza in modo difficile e disorganico, è impossibile seguire la vita e infilarla nelle frasi, articolarla in periodi, quando questa vita è una materia confusa e brulicante…
Ecco, tutto diviene più comprensibile.
Ho incontrato questa coppia nella pagine di Raymond Carver, uno scrittore americano che ho conosciuto non molto tempo fa.
Florent e Marina posso essere la sintesi delle coppie che popolano un libro come “America Oggi”, pubblicato da Minimux Fax, 230 pagine; racconti che di volta in volta ci portano in minuscoli paesi americani, ci presentano la vita di personaggi che si sono svegliati troppo presto dal sogno americano, di altri che questo sogno non lo hanno mai avuto e che lo inseguono seduti ad un bancone lercio di un bar dall’insegna al neon, o chiusi in casa tra una bottiglia di whisky e la televisione.
Ritratti di vite comuni, impegnate in una lotta che al massimo li porterà alla fine del mese senza dover chiedere aiuto a qualche amico o parente. Squarci di una società dei consumi che favorisce la (con)fusione tra l’essere e l’avere, dove i protagonisti non sono eroi o cavalieri ma portatori di una “grandezza ordinaria”, queste ombre che si aggirano schiacciate contro i muri assolati del Colorado in estate, che si aggirano indistinte nella brulicante vita metropolitana, non sono prive di una visione morale, sanno ben distinguere ciò che è bene e ciò che non lo è, sanno ancora separare il falso dal vero ma non riescono ad esprimerlo, a tradurre in parola questo pensiero che non è altro che un pensiero tra i tanti a cui siamo condannati a pensare.
Nella vita di questi individui, che incontriamo ad ogni angolo di strada, resta ancora qualche elemento di poesia, un incanto per la vita nello spaesamento esistenziale e questa dolce nota si ritrova nel linguaggio piano di Carver, una scrittura lineare e cesellata, che opera per scomposizione, dirada le nuvole della grigia realtà dei suoi protagonisti e ci porta fino al punto in cui possiamo renderci conto di quel briciolo di liricità che resta nelle vite, piccole e insignificanti, dei suoi personaggi.
Definire oltre uno scrittore come Carver non farebbe che defraudare il lettore del piacere della lettura; etichettarlo come si è tentato di fare in passato è inutile e pericoloso. Non è un minimalista, non è naturalista, non è un allievo di Hemingway né un suo adepto, è uno scrittore originale, come amava definirsi, che cerca di resistere al flusso della vita ancorandosi alle parole.
Ripensando alle sue pagine si può solo procedere per immagini: una sorta di “decadentismo” spoglio delle pesanti descrizioni di interni, spoglio della ricercatezza lessicale alla Wilde, spoglio del gusto per il bello. Un decadentismo nudo e illuminato dalla luce di un neon intermittente.
Il volto di Florent nel salone scuro subisce il riverbero delle immagini che si sommano nel rettangolo che è in fondo alla stanza. La sua mano cerca le dita sottili di Marina che, appoggiata la testa sulla sua spalla, ha chiuso gli occhi e probabilmente è già molto distante da quel presente. Il ronzio è scomparso del tutto, vedo la coppia e non mi riesco a capacitare di essere in Francia e non negli Stati Uniti.
Con un gesto stanco, Florent abbandona il braccio sul divano, sposta la testa di Marina e lentamente si alza. Marina si risveglia, è già in piedi e va verso la camera. Florent, appoggiato alla porta sorride, fa un gesto con la mano simile ad un saluto, poi dice sollevando un po’ il labbro quasi come per sorridere: “Se sentite dei rumori dalla stanza accanto non vi preoccupate”, poi, concentrandosi suoi propri passi punta lo sguardo a terra e , incerto, va verso la stanza da letto.
Carlo Baghetti