All’inizio degli anni venti, la Francia scopre il teatro di Luigi Pirandello. Il suo traduttore, Benjamin Crémieux, contribuisce in maniera decisiva alla diffusione della drammaturgia pirandelliana in Francia e la rappresentazione di « Sei personaggi in cerca d’autore », con la regia di Georges Pitoëff (1923), apre una nuova stagione del teatro italiano in Francia. Tuttavia la gloria francese del Siciliano è di breve durata: dopo il 1925, il successo lascerà il posto ad un senso di « stanchezza », nutrito da accuse di intellettualismo da parte della critica e dalla stampa dell’epoca. Nonostante cio’, il teatro di Pirandello continua ad essere rappresentato, ma sarà soltanto nel 1934, con l’attribuzione del Premio Nobel, che l’opera di Pirandello trionferà nuovamente. L’enorme successo della regia parigina di « Questa sera si recita a soggetto » (1935), segna l’ultima tappa del percorso francese del drammaturgo prima della sua morte.
• Massimo Verardi: Si sa! Una qualunque opera è universale, perché va al di là di una cultura, di una moda, di una epoca. Nelle tue conclusioni tu inserisci a modo di incipit, un testo di Mitchell Bonner che vuole caparbiamente – come se la cultura francese, seppur grandiosa, fosse lo strumento per misurare la validità di una qualsiasi creazione – « placer (Pirandello) dans la meilleure tradition de l’esprit gaulois (sic!) » [porre (Pirandello) nella migliore tradizione dello spirito gallico (sic!)] e giudicarlo « digne successeur de Rabelais, de Molière, de Voltaire et de Balzac… » [degno successore di Rabelais, di Molière, di Voltaire e di Balzac…] Perché questa necessità e volontà di « ridurre alla cultura francese, un personaggio e l’opera universali come lo sono Pirandello e il suo corpus. Non è riduttiva l’aggettivizzazione di questo autore e della sua creatività. La cultura francese più di quella europea o universale? Tesi che anche tu riprendi quando dici: « …un auteur destiné à renouveler le théâtre européen, à s’inscrire dans le panorama théâtral français sous le signe de la modernité… » […un autore destinato a rinnovare il teatro europeo, ad inscriversi nel panorama teatrale francese nel segno della modernità]. Perché francese e non anche italiano, inglese…?
• Anna Frabetti: La scelta di questo brano è solo una provocazione, una sorta di gioco retorico, appunto per concludere e guardare a posteriori al lavoro fatto. E il mio commento che segue immediatamente la citazione di Mitchell Bonner, dice: “Peut-on imaginer un commentaire plus fantaisiste et plus bizarre pour établir un bilan de l’œuvre pirandellienne?” Proprio perché Pirandello è un autore che affronta problematiche per cosi’ dire universali, è stato oggetto di appropriazioni di ogni tipo, è stato affiancato a culture, a religioni, e anche ad epoche diverse. Ora, possiamo parlare di valore universale della sua opera, ma avendo ben presente qual è di volta in volta, vale a dire nei diversi periodi della sua vita, il contesto o i contesti culturali sui quali si muove. Il fatto che dagli anni Venti soprattutto cominci a muoversi tra la Francia, l’Inghilterra e la Germania (poi l’America ecc.) è importante ai nostri fini, perché è proprio in questo movimento che viene a contatto con una cultura del fare teatrale, con i dibattiti sul « teatro teatrale », cioè sulla regia come arte vera e propria, che erano ancora se non assenti molto limitati nell’Italia di quel tempo. Pensiamo, in questo senso, al fatto che la parola « regista » è introdotta in italiano solo nel 1932 da un linguista, Bruno Migliorini. Prima si usava il francese metteur en scène, oppure – come fa Pirandello stesso – « capocomico » o « direttore » o, come propose Petrolini, « regissore ». E’ anche cosi’ quindi, cioè percorrendo l’Europa, che Pirandello diventa regista, uno dei primi registi italiani, attraverso l’incontro con Georges Pitoëff e con Max Rheinardt, per esempio, i registi che hanno fatto conoscere la sua drammaturgia in Francia con le messe in scena dei Sei personaggi, a Parigi nel 1923 e a Berlino nel 1921…
• M. V. – Dopo la visita dei « personaggi » a Pirandello, ottant’anni fa, sono venuti a trovare anche te… cosa vi siete detti? …cosa ti hanno detto? Ti hanno confidato cose mai dette e rese pubbliche da Pirandello? Ti hanno parlato di lui? Cosa pensano loro del tuo lavoro, visto che sono venuti a trovarti solo alla fine delle tue riflessioni in « Le magicien italien »? E ancora, …che so?: comunicato qualche parola nascosta o dimenticata, per meglio penetrare l’universo pirandelliano?
• A. F. – In realtà, anche questo è un gioco, che va spiegato, perché alla fine del libro mi sono ritrovata a chiedermi il motivo di un’ennesima ricerca su un autore già tanto studiato. E cosi’ ho giocato con il francese, usando l’assonanza fra « pages » e « personnages », scrivendo « p(ersonn)-ages » e immaginando che le mie pagine e tutte le pagine precedentemente scritte su Pirandello venissero a bussare alla mia porta, come i personaggi pirandelliani, in cerca non del loro autore, ma della loro ragione di essere. Al di là del gioco di parole, c’è l’impressione che forse il gran proliferare di studi, più o meno approfonditi, su Pirandello non abbia giovato alla sua reale conoscenza. Pirandello stesso diceva di voler cambiare cognome, perché gli sembrava che questo fosse diventato solo la radice della parola « pirandellismo », di quella costruzione che il suo sodalizio con Adriano Tilgher aveva contribuito ad erigere; era stato proprio Tilgher ad introdurre, con l’approvazione almeno iniziale di Pirandello, le categorie di Vita e Forma, poi tanto usate e abusate. L’universalità delle problematiche presenti nell’opera pirandelliana, a partire dal discorso sull’identità, sulla vita sociale come teatro, ha trovato quasi ovunque un terreno fecondo, sul quale sono nati studi e approfondimenti di vario tipo e qualità, che si sono nel tempo sovrapposti all’opera stessa dell’autore, che lo hanno a volte deformato. Di questo, come dicevo, Pirandello si lamentava alla fine degli anni Venti. E anche per questo nella conclusione del libro riprendo e faccio mie le parole di un intelligente studioso italiano, Corrado Donati che in un articolo intitolato « Rileggere Pirandello », ha scritto che « rimane soprattutto il bisogno di una pausa di silenzio prima di ricominciare a leggerlo ». Diro’ allora – a mia discolpa – che il mio libro è nato principalmente dalla volontà di leggere una pagina di storia della cultura italo-francese, di cui Pirandello è stato più che un protagonista, proprio un vettore di idee e di novità nelle due direzioni, dall’Italia alla Francia e viceversa.
• M. V. – Potresti spiegarmi in cosa la popolarità di Pirandello ha nuociuto alla conoscenza della sua opera?
• A. F. – Proprio in questo sovrapporre a Pirandello le maschere dei suoi critici, per cosi’ dire… che è del resto cio’ che accade anche ad altri grandi autori. Nel suo caso tuttavia mi sembra che la costruzione di questo -ismo sia stata più che altrove macroscopica.
• M. V. – La più bella trovata della sua opera, quella più profonda, è quella dello specchio, mirabilmente messa in situazione in « Uno nessuno, centomila ». Tu non ne hai parlato apertamente perché non era nel tema prefissato dalla tua inchiesta-riflessione… D’altro canto è più volte sottintesa… Una parola su questo tema? …Una tua « riflessione »?
• A. F. – Il tema dello specchio è, come dici, fondamentale in tutta l’opera di Pirandello, il tema del « riflettere », declinato nell’accezione del rispecchiare e del pensare, che diventano una sola cosa. Legata al tema dello specchio e del « riflettersi » in esso, quindi tutt’uno con il tema dell’identità, c’è quello della deformazione, dell’anamorfosi dell’identità e della fisionomia che la racchiude. Prendiamo un esempio fra tanti, quello di Vitangelo Moscarda, protagonista dell’ultimo romanzo pirandelliano. La sua riflessione sull’identità prende vita dal suo riflettersi in uno specchio, in cui guarda, senza vedere, l’inclinazione del suo naso, che la moglie gli fa notare. Da questo momento nasce la sua presa di coscienza dell’essere diverso, altro da sè, agli occhi di ciascuno dei suoi interlocutori, diverso nei ruoli sociali che assume, diverso nei vari momenti della sua vita « uno, nessuno e centomila ». Questa riflessione lo porterà fino all’estremo, a volersi annullare, a vivere – come dice – come una pietra o come una pianta. Moscarda, riflettendosi in uno specchio, scopre l’anomalia, scopre un elemento deformante, che storpia la sua fisionomia, come la sua identità. Ecco perché parlo di anamorfosi, in senso proprio e figurato; Pirandello stesso parlava di « sconciatura », di personaggi sconciati, cioè caratterizzati da una sorta di nota stonata, che puo’ essere l’occhio strabico del fu Mattia Pascal o la ‘truccatura da bambola » di Enrico IV. E tutta l’opera, e cio’ è particolarmente visibile nelle novelle, è una grande galleria di ritratti deformati, sconciati (occhi di pesce, profili bovini, ecc.) che rivelano proprio attraverso la loro anomalia il dramma dell’identità, dell’essere uno nessuno e centomila, che è il dramma di tutti i personaggi pirandelliani.
• M. V. – Mi è piaciuta tantissimo la tua « prise de risque » e la tua « mise en danger » nello studio che tu hai presentato con questo libro, ma elevare un Crémieux, banale e mediocre autore di teatro, eccellente filologo francese e profondo conoscitore della lingua classica francese e traduttore intuitivo, che traduce la scrittura pirandelliana cosi’ popolare e -in certi casi- cosi… dialettale!!! …non ti sembra di aver fatto un triplo salto mortale?
• A. F. – Forse… ma sono profondamente convinta che Crémieux sia stato un personaggio fondamentale e troppo dimenticato oggi. Uomo di cultura, autore, combattente, morto in un campo di concentramento. La sua attività di italianisant comincia nella Firenze vociana dell’inizio del Novecento. Ci sono delle testimonianze, forse un po’ aneddotiche, che ci dicono come lavorasse, traducendo all’impronta, dettando oralmente, per poi rielaborare allo scritto. E’ stato traduttore ma anche mediatore di cultura, traduce Jahier, Slataper, Svevo, al quale dedica un ampio lavoro di diffusione della Coscienza di Svevo. L’incontro con Pirandello avviene non attraverso il teatro ma attraverso la prosa, quando traduce Il lume dell’altra casa, nel 1913. Il suo lavoro di traduttore per il teatro meriterebbe uno studio specifico, che io non ho avuto il modo di fare; sicuramente c’è qualcosa di vero in quel che dici, nelle tue obiezioni. Ma, nonostante questo gli va riconosciuto il merito di avere fatto varcare le Alpi a tanti autori italiani, Pirandello in primis.
Ma nel libro io sottolineo un’altra cosa, che è il « gioco delle parti » che si crea tra Crémieux, Pirandello e Pitoëff. Pirandello aveva scritto nel 1907 intitolato Illustratori, attori e traduttori, in cui contrappone alla compiutezza perfetta del testo letterario e drammaturgico la riduttiva versione che possono darne l’illustratore, l’attore e il traduttore. Per quale motivo? Proprio per la loro imperfezione, la loro approssimazione rispetto a cio’ che produce la mente dell’autore e che non puo’ essere né illustrato, né tradotto né recitato compiutamente. Il rapporto di Pirandello con Georges Pitoëff e Benjamin Crémieux si inaugura sotto il segno di un equivoco, se si segue quell’iniziale schema di illustratori-attori-traduttori. ln questo triangolo poi ci sarà, proprio grazie al lavoro comune, uno scambio di ruoli in cui Pirandello da drammaturgo diventa regista di Crémieux, che dopo l’esperienza del romanzo, scrive per la prima volta per il teatro. Il racconto dell’insuccesso di questa esperienza è ricco di aneddoti e testimonianze. Pirandello mette nel programma del suo Teatro d’Arte Qui si balla, in francese « Ici, l’on danse » nel 1926 in alcune città italiane, con cosi’ poco successo che la pièce rimane l’unico tentativo drammaturgico di Crémieux. E’ una storia complicata e un po’ strana, di una radiologa che ha la passione per il ballo. Riccardo Bacchelli ce ne dà un riassunto ricco di sarcasmo, in una recensione al vetriolo, sulla « Fiera letteraria ». Ma non è solo Bacchelli a scagliarsi contro questa pièce: molti scrivono che probabilmente Pirandello aveva voluto sdebitarsi con il suo traduttore francese, ma che, mettendolo in scena, non gli aveva di certo fatto un favore… Crémieux, oltre a tradurre il teatro (non solo di Pirandello), aveva lavorato a fianco di Pitoëff, come mostra il copione dell’ Henri IV, che viene messo in scena nel 1925, che è poi anche l’anno in cui Pirandello diventa regista e direttore del Teatro d’Arte. Ecco perché ho parlato di « gioco delle parti » …
• M. V. – Possiamo parlare di modernità nella traduzione francese del teatro da parte di Cremieux, cosi’ come è innovante e moderna la regia francese e l’interpretazone di Pitoëff?
• A. F. – La domanda è molto difficile, perché occorrerebbero le armi, gli strumenti del traduttore e del regista per rispondere, ma sono armi che io non possiedo… Quel che posso dire, a mo’ di conclusione, è che si tratta di due aspetti molto diversi, da un punto di vista storico-culturale, oltre che metodologico, ovviamente. Quando Pitoëff decide di mettere in scena i Six Personnages en quête d’auteur, viene da un’esperienza estremamente nuova, quella del Teatro d’Arte di Mosca, ha una formazione culturale in cui ha pienamente coscienza del ruolo nuovo del regista – che lui stesso definiva « autocrate absolu » – della sua autonomia creativa, che si scontrano inizialmente con la visione di Pirandello, che viene dall’Italia dove questo discorso verrà introdotto con un po’ di ritardo rispetto al resto dell’Europa. Poi Pitoëff arriva a Pirandello, pur indirettamente, attraverso il teatro futurista, che aveva conosciuto a Ginevra, prima di giungere a Parigi, grazie a una compagnia che si chiamava « Art et Action ». E occorre anche ricordare che l’autore prediletto di Pitoëff era un drammaturgo allora molto famoso e poi sparito (anche) nell’ombra di Pirandello, Henri-Réné Lenormand, che era stato il primo a portare Freud sulla scena francese. Tutti questi elementi convergono nella direzione di una volontà innovativa e sperimentale a più livelli, che non poteva non produrre un’interpretazione registica (e attoriale, perché Pitoëff era anche attore) che non fosse sotto il segno della novità e dello straniamento, per cosi’ dire. E’ chiaro che Charles Dullin – che è il primo in Francia a rappresentare Pirandello, qualche mese prima di Pitoëff, mettendo in scena La Volupté de l’honneur, nel dicembre 1922 – che era un grande attore, ma che aveva una formazione, ed una conoscenza della cultura italiana, forse più tradizionale dà vita ad uno spettacolo che ha una buona accoglienza, ma che non ha certo i tratti allucinatori e onirici (sono i critici dell’epoca che lo scrivono) dei Six Personnages.
Ora, per tornare a Crémieux, credo che il suo lavoro di traduzione si volgesse in un contesto che non era caratterizzato dal fermento che animava il mondo della regia e dello spettacolo di quella stessa epoca. Crémieux conosceva bene la cultura italiana contemporanea, come ho già detto, era un lettore attento e capace di porgere al pubblico francese autori fino ad allora semisconosciuti. Se è vero, come dicevo prima, che la sua prima traduzione avveniva di getto, è altrettanto vero che poi c’erano versioni diverse che comportavano correzioni anche minime ma essenziali. _ Un esempio, per ritornare sull’idea dell’interazione che si produce fra regista-traduttore e autore è ancora l’allestimento di Henri IV, nel 1925. Il copione su cui lavorava Pitoëff, che era il datticolscritto della traduzione di Crémieux, è pieno di annotazioni dei due; e se si confronta il testo del copione con la traduzione pubblicata da Gallimard nel 1928, si vede come la lingua di Crémieux sia via via meno letteraria, meno scritta, e più legata all’oralità della pratica scenica a cui il traduttore aveva verosimilmente collaborato.
Ancora una volta, mi sembra che cio’ che va sottolineato – o comunque cio’ che mi interessava sottolineare – sia proprio questa interazione, questo dialogo, che diventa poi – su larga scala – un dialogo fra discipline e fra culture.
Massimiliano Verardi