L’estate di Giacomo di Alessandro Comodin

Il film di Alessandro Comodin (2011) mi ha colpito, e mi torna in mente due mesi dopo aver visto il film. Il protagonista, Giacomo, è un sordo, o un ex sordo che ha imparato a parlare, anzi, sembra di intuire che abbia appena imparato anche ad udire: ne seguiamo il suo linguaggio dalle sonorità particolari, e abbiamo anche, a tratti, l’impressione di scoprire insieme a lui l’universo dei rumori, dei suoni… Eppure non è un film sulla sordità: di più, verrebbe da dire che l’handicap è onnipresente, ma anche non c’è affatto, come sciolto nella storia, e anche nel quadro dentro cui la storia si svolge.

gsstefania-comodin-e-giacomo-zulian-si-immergono-nel-tagliamento-in-l-estate-di-giacomo-211725.jpgIl quadro, cioè la natura rigogliosa, il tempo di una passeggiata estiva alla ricerca di una fonte, fiume o lago, custodita dentro un bosco, nel Friuli, con qua e là improvvisi flash difficili da collocare cronologicamente : una festa di paese, un luna park, dei fuochi d’artificio, l’esplosione di suoni, rumori, sopra una batteria… per poi sempre ritornare al luogo principale, la rigogliosa natura. Atmosfera «virgiliana», suggeriva una critica letta all’uscita del cinema – ma a me è venuto da pensare piuttosto a un’atmosfera da nascita, in chiave Genesi, con il Paradiso terrestre, e la creazione scoperta invenzione del mondo da parte dei primi esseri umani: e in effetti i due protagonisti, Giacomo appunto, e la sua amica Stefania, si muovono come due moderni Adamo ed Eva, e c’è persino, è ovvio, il peccato, anche se non nel senso colpevolizzante cui ci abituati la tradizione esegetica cristiana.

Il peccato è semplicemente quello che è iscritto dentro ogni storia di scoperta, e d’amore: è la condizione melanconica, un po’ struggente, attraverso cui avanziamo nella vita, ricordando, sempre con la testa all’indietro, trovando l’essenza della bellezza proprio in ciò che è destinato a finire, nella e dopo la fine, una volta bruciato il desiderio. Quando ormai è cenere, traccia. L’amore non è forse, essenzialmente, nostalgia ?

Di fatto, è proprio nel senso della nostalgia – almeno, così ho sentito dopo pochi minuti – che il film racconta la sua storia d’amore, che è anche la storia della scoperta dei sensi, dei propri sensi, quasi che al di là dell’udito Giacomo scoprisse insieme a Stefania tutto l’universo complesso del sentire e del desiderio, la vita: e noi, dietro, li seguiamo, soprattutto dentro l’Eden friuliano, senza sapere inizialmente quali siano i loro volti – è la lunga sequenza iniziale in cui i due giovani s’inoltrano nel bosco, e noi li vediamo di spalle. Così, questo anonimato, permette di immaginare senza limiti quei personaggi: potrebbe trattarsi di noi stessi…

I volti poi diventano i loro, quelli di Giacomo e Stefania, la storia è iniziata, e già sentiamo la fine, appunto, la nostalgia, che si fonde con la nostalgia nostra, quella delle estati in cui, noi come loro, con le prime goffe carezze scambiate scoprivamo l’amore, il mondo, diventavamo adulti: ed è significativo che le ultime immagini del film, pur senza direttamente dire, ci facciano capire, appunto, che quella estate è finita, Giacomo è un altro, ha una diversa sicurezza, e anche Stefania non è più la stessa, anzi, non è più Stefania, nel senso che si tratta di un’altra ragazza, quella con cui l’amore di Giacomo ha potuto sbocciare (e noi a chiederci, a lungo: è lei? è un’altra? È senz’altro voluta, ed efficace, questa ambiguità). Ed è bello, certo, che la vita si viva, che Giacomo sia diventato, stia diventando adulto: eppure, più forte di ogni cosa, è un invisibile senso di mancanza per quella goffa piena di grazia innocente curiosità estiva che oramai non c’è più.

gs92a06d30f74a107c1a3662f7fe8db367.jpg(Il peccato insomma sarebbe la sublime dannazione a perdere della condizione umana, che solo amorosamente si realizza pienamente come tale – non ne conosco spiegazione più folgorante e esaustiva di quella che ha saputo darne Yeats, con due soli bellissimi versi : Man is in love and loves what vanishes, / What more is there to say?)

Colpisce che i due film italiani più validi che io abbia visto negli ultimi tempi non siano stati visti in Italia, o lo siano stati con enorme ritardo rispetto alla Francia: Tahrir, di cui avevo già avuto modo di scrivere, e appunto L’estate di Giacomo. Quasi che su di essi pesasse la formazione e l’itinerario biografico da « espatriati » dei loro autori, l’uno originario della Sicilia, l’altro del Friuli, ma entrambi più europei che italiani – e visto il risultato verrebbe anche da dire che, culturalmente, vale la pena lasciare l’Italia squallida e squallidamente provinciale dei Berlusconi e dei Grillo, per guardare più lontano. Fuori.

Per altro, al di là di questa non piccola coincidenza di vita, i due autori, con le loro opere, hanno in comune anche uno strano « a cavallo »: Tahrir è un documentario che racconta storie, proprio come un film narrativo; L’estate di Giacomo è un film narrativo che riprende la realtà come se fosse un documentario (salvo poi scoprire che è un documentario, anche se un documentario guidato, come ho avuto conferma in seguito ricercando informazioni : Giacomo è effettivamente Giacomo, un ragazzo sordo cui un’operazione ha permesso di recuperare l’udito, e anzi inizialmente – così si può leggere in un’intervista a Alessandro Comodin – la parte medicale avrebbe dovuto essere al centro dell’opera…). E dietro entrambi, almeno per chi guarda il film qui in Francia, un grande autore di documentari etnografici: Jean Rouch…

gsestate_20di_20giacomo.jpgTuttavia, proprio Rouch e la dimensione documentaria, che mi fanno promuovere senza riserve il film di Savona, mi hanno sollevato una punta di perplessità su quello di Comodin, di cui è qui questione. Perché, guardando il documentario Tahrir, sentiamo, sappiamo che i protagonisti sanno, esattamente come sanno gli attori che partecipano a un film di finzione: sanno come le loro parole e immagini saranno diffuse, perché. Ma in quel delicato docu-finzione che è L’estate di Giacomo, cosa sanno i protagonisti? Come agiscono in relazione a questo sapere? O anche, più semplicemente: come sono stati implicati, informati, in vista di quello che sarebbe diventato il film, loro che in senso stretto non sono né attori né soggetto etnografico? sapevano che sarebbe stati manipolati per diventare quei personaggi? E inversamente: com’è stata “protetta” la loro innocenza, la loro spontaneità, e fragilità, dal demone oggi corruttore per eccellenza: tutto, pur di mostrarsi pubblicamente? È possibile che l’unico criterio di legittimità per una creazione artistica sia quello dell’esito poetico, che in questo caso è indubbio?

Non sono critiche, intendiamoci, ma una sorta di inquietudine, di perplessità, domande che mi pongo da tempo, comunque, e che il film mi ha risollevato, con forza: e dunque mi piacerebbe porle a Alessandro Comodin. Il genere docu-fiction del resto sembra andare di moda, oggi, e sarebbe interessante capire perché.

Giuseppe A. Samonà

p.s. Errata corrige. Di valido ho visto anche La petite Venise (in italiano: Io sono Li), di Andrea Segre, anch’esso del 2011: a dimostrazione che, per fortuna, il talento non è sottomesso a un programma politico – puo nascere e guardare lontano, fuori, anche senza espatriarsi.

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Giuseppe A. Samonà
Giuseppe A. Samonà, dottorato in storia delle religioni, ha pubblicato studi sul Vicino Oriente antico e sull’America indiana al tempo della Conquista. 'Quelle cose scomparse, parole' (Ilisso, 2004, con postfazione di Filippo La Porta) è la sua prima opera di narrativa. Fa parte de 'La terra della prosa', antologia di narratori italiani degli anni Zero a cura di Andrea Cortellessa (L’Orma 2014). 'I fannulloni nella valle fertile', di Albert Cossery, è la sua ultima traduzione dal francese (Einaudi 2016, con un saggio introduttivo). È stato cofondatore di Altritaliani, ed è codirettore della rivista transculturale 'ViceVersa'. Ha vissuto e insegnato a Roma, New York, Montréal e Parigi, dove vive e insegna attualmente. Non ha mai vissuto a Buenos Aires, né a Montevideo – ma sogna un giorno di poterlo fare.

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