Sa di tempo che passa l’autunno, inesorabile, quasi insopportabile, malgrado la tavolozza di colori che offre alla vista siano decisi e forti, ineluttabili come il cielo quando decide di piovere. Emana una certa nostalgia, perché l’orologio del tempo si riannoda su se stesso e il crepuscolo si avvicenda e cede il passo ad un anno che finirà.
Un profumo di incenso, che sa di antico e di profano, un segno del nuovo che ancora attende, mentre ci adottano i versi del poeta lucano Giulo Stolfi che, ne “Il peso del cielo”, scrive:
«I miei passi soltanto sono vivi / nel silenzio inquietante della notte aperta di colpo / in arene di biacca. / Vecchio vicolo amico / dalle macerie degli anni / per incanto riappari ma i tetti / sopportano a stento / il peso del cielo (…) non vedo i gerani le viole / la menta alle finestre (…) / Mi veglia un angelo affranto / ora che è liscia, affilata / la guancia della luna.»
E’ sempre la poesia, dunque, a raccontarci il disagio del tempo che vola su di noi, con un’invincibile frequenza, mentre a noi tocca “sopravvivere a stento”. Eppure i sogni dell’adolescenza ci promettevano altro. Ci proiettavano oltre. Futuri incerti ma vivaci e talvolta estremi. Questo ci promettevamo. Mai avremmo pensato di delegarlo il futuro, a gente così incauta, incolta, relegata alla cronaca misera del quotidiano e che non sa programmare il divenire se non che per i propri eccentrici vantaggi. Non prende mai a costoro quel senso di crepuscolo che sappia guardare alla guancia della luna, non hanno “angeli affranti” a vegliare su di loro. Mai avremmo immaginato che avremmo delegato il futuro a questi sventati attori senza scena. Occulti protagonisti che decidono da troppo tempo sulle nostre vite, che però odorano di pietra inerte e polverosa.
I colpi di Parigi sono ancora vivi nella memoria, una eco che non abbassa i suoi torbidi suoni. Quei giovani innocenti caduti per mano di altri giovani senza Dio, senza fede alcuna, a cui è mancato il lume della ragione e dell’Illuminismo, poveracci in preda al panico dell’esistenza. E noi a piangere e a compiangere l’idea stessa di coesistenza su questa terra che abbandoniamo al proprio destino; e in mano a sciacalli senza scrupoli.
E’ passato alla Mostra di Venezia (del 2012, e mai uscito da noi) un film straziante, “La cinquième saison” (La quinta stagione, di Woodworth e Brosens, registi fiamminghi), che nel grigio disegna un futuro nel quale le stagioni si ribellano all’uomo. Struggente e riflessivo, di quei film che i quei terrificanti attori senza scena col mitra in mano e, più vicini a noi, i Fiorito e i Lusi, e le Lady Curia, mafiosi assimilati di questo tempo sbandato, non guarderanno mai, perché non lo capirebbero. Non capirebbero la forza di quegli alberi senza frutti ed aurore senza luce, quello spettacolo inerme che hanno programmato (come in quel film) per le generazioni a venire: ladri di futuro!!!.
Da queste parti, noi abbiamo delegato a troppa gente e per troppo tempo le vite e generazioni di onesti corridori di corse in salita.
Malgrado tutto, anche in quest’autunno ci avvolgiamo nel languore di un tempo che passa, ma che può essere ancora nostro, che può ancora raccontarci e farci intravvedere luce nuova. In questa sequenza ingrigita di nebbia, pietosa benché romantica, si può uscire dalla “normalità eterna” imposta da un’egemonia senza volto? E’ l’autunno del nostro tempo a farci guardare bagliori di futuro, nonostante l’inverno incomba, e le stagioni continueranno ad avvicendarsi. Ci salveremo, è un augurio!, dall’avvento della “quinta stagione”.
Armando Lostaglio