Giorgio Nisini è nato a Viterbo nel 1974. Studioso di cinema e letteratura, insegna Sociologia della letteratura all’Università di Roma “La Sapienza”. Il suo primo romanzo, « La demolizione del Mammut » (Perrone, 2008), ha vinto il Premio Corrado Alvaro Opera Prima ed è arrivato tra i cinque finalisti del Premio Tondelli. « La città di Adamo » (Fazi editore, 2011) è candidato alla 65° edizione del Premio Strega.
La storia di un uomo dalla vita riuscita, acriticamente vissuta, diventa vicenda paradigmatica sui limiti della conoscenza umana. La visione lineare del mondo del protagonista del romanzo, Marcello, si scontra un giorno, casualmente, con un’altra visione, ambigua, dai contorni sfumati, indefiniti. Questa rivelazione, facendosi strada dentro di lui, finisce per intaccare le sue certezze, spingendolo fuori dalla realtà per introdurlo in una dimensione altra, metafisica, tra luoghi e oggetti memoriali, dove egli compirà una ricerca, tra investigazione e quête esistenziale, dagli esiti imprevisti.
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INTERVISTA A GIORGIO NISINI
Francesca Sensini per Altritaliani : Nella “Città d’Adamo”, fin già dal titolo, occorrono alcuni riferimenti mitici ai primordi dell’umanità che condensano intorno a sé la densità del mistero che turba il protagonista, Marcello Vinciguerra; penso naturalmente al nome del primo uomo e al toponimo dell’ex-cittadella camorristica di Eurano, composto dal nome del quartiere fascista dell’EUR a Roma e da Urano, pianeta e divinità preolimpica, ipostasi del cielo stellato, nonché compagno e padre dispotico, evirato dal figlio Saturno. Queste allusioni pesano sui significati da attribuire alla ricerca di Marcello?
Giorgio Nisini : Senza dubbio nel romanzo è presente una rete simbolica più o meno voluta e cosciente. Il rimando ad Adamo e ai primordi dell’umanità sono stati per me funzionali a creare un’atmosfera lievemente scollata dal presente, velatamente metafisica. Volevo che la storia di Marcello fosse paradigmatica di tante altre storie umane, e il mito, il simbolo, si sono rivelati dei luoghi di condensazione di senso molto utili. Non m’interessa però una narrativa ipercolta e citazionista, mi piace piuttosto giocare ironicamente con i rimandi presenti nel libro, come nel finale, oppure farli lievitare spontaneamente, senza forzature libresche.
F.S. : Nella descrizione del camorrista Adamo Pastorelli e del suo disegno di contro-potere si avverte il potere di fascinazione del “male”: nel testo del reportage televisivo all’origine dei turbamenti di Marcello, si parla del “fascino torbido e misterioso” del progetto urbanistico ed estetico di Eurano, ideato da un architetto organico al sistema malavitoso, dell’ “enorme fascino” e “delle grandi ambizioni” di Adamo Pastorelli, “camorrista eclettico e fuori dagli schemi”, “personalità ipnotica e affascinante”, non meno colto e raffinato che spietato. Esiste un rapporto implicito tra questa caratterizzazione di Adamo Pastorelli e il conformismo del personaggio di Marcello, che ritiene di “aver raggiunto degli obiettivi” per il fatto di avere “una bella casa, una bella moglie, una bella automobile”, convito che questi stessi obiettivi lo rendano automaticamente “una persona interessante, piacevole, vincente”?
Giorgio Nisini : Credo che le ambivalenze siano un punto nodale per comprendere criticamente l’esistenza umana. Spesso la letteratura ha restituito visioni del mondo estremamente manichee, separando troppo nettamente il bene dal male. A me interessano invece le narrazioni in cui i piani si confondono, le contraddizioni esplodono in tutta la loro drammaticità: Edipo re, vittima di un fato imperscrutabile che lo trasforma in un colpevole involontario; Raskol’nikov, il dostoevskiano assassino di un’usuraia che ragiona sulla necessità del delitto; o ancora il mostro di Düsseldorf di Fritz Lang, non semplicemente il mostro, l’orco senza possibilità di redenzione, ma un uomo che vive disperatamente la propria condizione criminale: “Quando cammino per le strade ho sempre la sensazione che qualcuno mi stia seguendo” dice in un passaggio del film, “ma sono invece io che inseguo me stesso”. Qui il male non è più assoluto, sterminato, verticale, ma è frantumato nel suo interno, è ambivalente, è un conflitto che non ha soluzione. Ecco, sono proprio le non-soluzioni che m’interessano: per questo Adamo, il camorrista, e cioè il male, doveva possedere elementi di fascino e di positività; e sempre per questo che Marcello, il protagonista, il bene, e con lui suo padre e la sua famiglia, dovevano mantenere un alone di conformismo, meschinità, ambiguità.
F.S. : “L’ombra” sul suo passato famigliare che Marcello vuole dissipare o quanto meno conoscere, ha un connotato morale o è solo una dato generatore di confusione tra le certezze granitiche di Marcello? Oppure c’è un’evoluzione, nel corso della storia, nel modo in cui Marcello considera il possibile rapporto di complicità del padre colla camorra?
Giorgio Nisini : Sì, c’è un’evoluzione. O un’involuzione, dipende dai punti di vista. All’inizio della storia Marcello è ipnotizzato in uno stato d’incoscienza infantile: ha sempre vissuto in un piccolo paese di provincia, incapsulato in un mondo di benessere e comfort: ha una bella casa, una bella moglie, una bella automobile, una florida azienda ereditata dal padre. L’incontro con il dubbio lo catapulta attraverso uno stato di coscienza critica, e così inizia a mettere in discussione tutto, la famiglia, il lavoro, il matrimonio, i suoi più stretti collaboratori. Man mano, però, emergono elementi contradditori, il fascino ipnotico per Adamo, per esempio, o il prevalere di timori giudiziari piuttosto che morali. L’approdo sarà uno stato di coscienza cinica, in cui l’eventuale, probabile, collusione del padre, verrà metabolizzata e accettata come un errore di percorso. Marcello è finalmente pronto per dirigere l’azienda con il cinismo necessario a qualsiasi grande imprenditore.
F.S. : Molto interessante la centralità degli oggetti nella storia di Marcello; oggetti non qualunque: costose creazioni di design – l’edizione limitata di un vecchio del televisore Brionvega, la lampada Jasper Morrison, il divano Boa, il tappeto “te quiero calado” – che danno addirittura il titolo ai capitoli del romanzo. La loro presenza rinvia allo status sociale di Marcello e della moglie Ludovica, arredatrice e “donna di stile”, ma finisce anche per aprire spiragli di crisi, e di analisi critica, in personaggi in qualche modo anestetizzati dal lavoro come dimensione totalizzante del vivere e dall’accumulo di cose chiamate a significare il senso della loro esistenza, senso su cui non sembrano interrogarsi più. Puoi spiegarci meglio come funzionano gli oggetti nella tua storia e perché hai scelto quel tipo specifico di oggetti?
Giorgio Nisini : La ragione della scelta dipende da due episodi che mi sono accaduti a circa otto anni di distanza l’uno dall’altro. Il primo risale al 1998, a Roma, quando andai a sentire una conferenza di Jean Baudrillard in un convegno dal titolo Il fascino discreto delle merci. Rimasi perplesso dinanzi a quell’aggettivo così riduttivo: “discreto”. Era evidente il riferimento a Luis Buñuel, ma non mi trovavo d’accordo sull’uso che ne veniva fatto, dal momento che le merci hanno un fascino ben più incontrollabile e invasivo. Nessuno riesce a fare a meno di esse, non solo in termini utilitaristici: tutti siamo attratti dal bisogno insidioso e perturbante di acquistare, toccare, avere, possedere, ma il più delle volte ciò che possediamo ci sfugge, non diventa fino in fondo nostro, non ci esprime come vorremmo, proprio come in amore. È qui che entra in gioco il secondo episodio: era il 2006 e stavo girovagando in un grande showroom di mobili di design molto simile a quello che nel libro gestisce Ludovica. Di colpo fui assalito da uno strano miscuglio di attrazione, soggezione, felicissima inquietudine delle forme. Non era un sentimento negativo, ma neanche propriamente positivo: il fascino non è di per sé rasserenante, anzi, ci pone di fronte a qualcosa che ci disturba, che ci fa saltare dai binari delle sicurezze consolidate. Si trattava comunque di un sentimento forte, che ho cercato di raccontare in una scena in cui Marcello, girovagando nel negozio della moglie (esattamente come me…), pensa al fatto che tutti gli oggetti che arredano la sua casa non sono mai percepiti dai suoi amici come i suoi oggetti, ma sempre come gli oggetti di quello o quell’altro designer. La poltrona di Peter Traag, per esempio, o lampada di Jasper Morrison, mai la poltrona o la lampada di Marcello Vinciguerra. Insomma, volevo raccontare questa miscela di desiderio di possesso e impossibilità di possesso in cui si nascondo molte insicurezze dell’uomo e della donna di oggi. È la sindrome di Lulù, come la chiamo nel libro, sebbene lì ne racconti più il lato erotico-esibizionista: attrazione per il design che si fa paradigma di un possesso inappagato. Ecco perché gli oggetti, in quanto merci (non un televisore qualsiasi, ma un Brionvega Algol), acquistano un ruolo così centrale.
F.S. : Una parte delle investigazioni di Marcello ruota intorno a una vecchia foto degli anni Cinquanta del padre, anzi del dettaglio di una foto da cui era stata tagliata una sezione. Qual è secondo te il contributo di verità di questa foto alla ricerca del personaggio?
Giorgio Nisini : La foto è un elemento oggettivo, e in quanto tale dovrebbe garantire una maggiore attendibilità all’indizio. Ma non è così, un po’ come accade in Blow up di Antonioni. Il fatto è che sono ossessionato dalle problematiche conoscitive ed epistemologiche. Marcello è un uomo logico, pragmatico, razionalista, ma di colpo s’imbatte in una realtà tutt’altro che logica e razionale, una realtà molto più sgranata e opaca. La narrazione nasce nel punto di attrito tra questi due piani, che sono poi due diverse visioni del mondo (è da qui che deriva l’etichetta di realismo metafisico che la critica ha utilizzato per la mia narrativa): quanto più Marcello si accanisce nel cercare di decodificare razionalmente questa realtà – e la fotografia è l’elemento oggettivo più significativo – tanto più questa realtà gli sfugge, si sgrana, si corrompe.
F.S. : Accanto all’artificialità degli ambienti chiusi, la casa di Marcello, il negozio lussuoso di Ludovica in particolare, la natura sembra giocare un ruolo di contrasto; spesso Marcello si ferma a guardare le terre che possiede, la campagna che lo circonda, dall’interno di questi ambienti freddi, che in fondo non ama e che non ha scelto perché Ludovica li ha scelti per lui, e pare trarne sollievo. Lo scioglimento delle tensioni della storia, poi, avviene proprio su un sfondo naturale, ironicamente paradisiaco, all’aperto, ma l’Eden di Marcello e Ludovica è sempre ingombrato da arredi disegn. Si tratta di una fine che “concilia” natura e cultura? Puoi spiegarci cosa questo décor ci dice sull’evoluzione dei personaggi?
Giorgio Nisini : Il finale ha senz’altro un approdo conciliante, è il mondo di Ludovica che si sposa con quello di Marcello. Ma al di là dei significati specifici del libro, il rapporto tra natura e artificiosità è uno dei temi chiave della mia narrativa, lo era anche nel mio primo romanzo (La demolizione del Mammut). Non saprei darne un’interpretazione critica, e in fondo, da autore, non è il mio ruolo, però da sempre vivo un contrasto fortissimo tra richiami naturali e non, reiterando un sentimento di afflizione tipico di tutta la cultura moderna. Sul fondo si staglia una mia particolare utopia, e cioè la conciliazione di questo schema di opposti in una postmodernità naturalizzata, a partire dai paesaggi urbani. Per questo trovo ancora molto attuale Le Corbusier e interessanti le prospettive di Vittorio Gregotti espresse recentemente in Architettura e postmetropoli.
F.S. : Perché hai voluto far riferimento all’argomento ontologico di Anselmo d’Aosta nelle riflessioni di Marcello alla ricerca di colmare la “crepa” nella “sua” verità?
Giorgio Nisini : Marcello non ha una prova oggettiva della colpevolezza del padre, la deduce mettendo insieme una serie di argomentazioni e di prove. In sostanza egli “non vede” il camorrista accanto al padre, ma arriva alla conclusione che i due si siano conosciuti e abbiano fatto affari insieme. La riflessione di Anselmo era paradigmatica di questo modo di procedere: arrivare ad affermare una verità (Dio) senza vederla, dimostrandone l’esistenza in base a una raffinata argomentazione logica. Anche la fisica subnucleare e l’astrofisica dimostrano continuamente l’esistenza di corpi senza il ricorso alla vista, ma basandosi su altri dati. Nessuno ha mai visto un neutrino o la materia oscura, ma si sa per certo che esistono. Ecco, l’idea di credere senza vedere è qualcosa che collide molto con la fede, mistica o scientifica che sia, e Anselmo era il filosofo che più di altri mi sembrava funzionale per raccordare tutto questo.
Francesca SENSINI per Altritaliani