Il problema del pluralismo.

All’indomani del controverso programma televisivo di France 2: “Italie: La grande débrouille”, dedicato in parte al nascente razzismo in Italia. Tra principio di eguaglianze e rispetto delle differenze, la difficile gestione nei paesi europei della novità immigrazione. In Italia il sorgere di fenomeni di razzismo, impone delle domande sul futuro assetto della società italiana ed europea. Domande che coinvolgono il concetto stesso di laicità dello Stato, già motivo di scontro in Italia.

Tra i problemi più difficili e complessi che s’impongono, nel tempo presente, all’attenzione generale e che lasciano intravedere, ovunque, un cambiamento d’epoca, vi è sicuramente quello di società nelle quali sempre più s’intrecciano etnie, culture, religioni, valori che chiedono di essere riconosciuti, di essere cioè rispettati nelle loro specificità: si discorre, al riguardo, di società multietniche, multiculturali o multirazziali.

Sulla base anche di esperienze di altri paesi che hanno conosciuto prima di noi correnti intense di immigrazione, sappiamo che enormi sono i problemi che si annidano dietro la volontà o la necessità di far convivere gruppi etnici diversi con il relativo carico di tradizioni culturali e religiose.

La manifestazione più evidente, e drammatica, è sicuramente quella che denominiamo razzismo, che riappare in molti paesi o compare per la prima volta là dove, come in Italia, non c’era l’esperienza del convivere di razze diverse.
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Se, però, il razzismo è il fenomeno più noto e appariscente, quello che impone scelte più immediate, l’orizzonte da contemplare è ormai quello di società nelle quali la difficile ricerca di valori comuni e la necessaria coesistenza tra valori diversi mettono in crisi gli abituali – e, per così dire, rassicuranti – criteri di riferimento, quali l’eguaglianza e la libertà.
E ciò, perché sempre più spesso l’«altro», lo straniero di razza diversa – mosso da un acuto bisogno di difesa o di affermazione della sua identità etnica, culturale e religiosa – chiede non già la pura e semplice assimilazione, cioè l’omologazione al paese di accoglienza, bensì un riconoscimento, vale a dire il rispetto della propria identità.

Emblematico è il caso delle giovani musulmane

che, in stretto ossequio ai dettami del Corano, chiedevano, tempo fa, di portare il chador anche nella scuola «laica» per definizione, quella francese, dove non vengono esposti crocefissi e dove non esiste l’ora di religione; dove, insomma, è fatto divieto a tutti di ostentare i segni della propria appartenenza religiosa, per salvaguardare, appunto, la laicità e lo spirito critico della scuola, in cui tutti i ragazzi devono essere uguali. Le giovani musulmane rifiutarono di accettare la regola, e altre – a Marsiglia, Montpellier e Avignone – ne seguirono l’esempio.

Il dibattito, poi, si allargò. Da problema di mera disciplina scolastica divenne un problema di principio: in un corteo di protesta si condannò un atto – quello del preside che si era fermamente opposto all’uso del chador – che venne definito di “discriminazione razziale”.

Il conflitto, com’è noto, fu risolto d’autorità dal ministro della Pubblica Istruzione: le studentesse musulmane ottennero l’autorizzazione a entrare in classe con il chador e divennero un simbolo. Ma di che cosa, esattamente? Esse avevano proposto in realtà un problema per noi del tutto nuovo: all’alba del terzo millennio ci avevano chiesto se e come il principio di eguaglianza potesse conciliarsi con il riconoscimento delle differenze; se, all’interno di una comunità, potesse darsi non un solo diritto valido per tutti (il c.d. universalismo), ma regole diverse a seconda delle specifiche “appartenenze” (di religione e, più in generale, di cultura).

Non si può nascondere che quel chador è fonte di profondo turbamento, perché pone il problema del posto che può avere la religione nel nostro mondo, un mondo secolarizzato nel quale si chiede ai fedeli di vivere la loro religione, quale che sia , come fatto strettamente privato. Quel chador contraddice la nostra visione laica dell’esistenza, afferma una identità religiosa vissuta come un fatto totalizzante le cui regole vengono prima delle regole fissate dalla società. Si avverte in questa affermazione qualcosa che contraddice tutta la nostra cultura e che rischia di mettere in pericolo una convivenza basata sul principio che c’è un solo diritto per tutti i cittadini e che le prescrizioni religiose vengono dopo e sono un fatto strettamente privato.

La richiesta delle giovani musulmane, accolta dall’allora ministro Jospin, ha avuto notevole seguito non soltanto in Francia ma anche nel nostro paese, dove vi sono ormai 50.000 studenti di religione musulmana per i quali le Comunità islamiche hanno avanzato numerose richieste: per le alunne e le insegnanti il chador, per i ragazzi e le ragazze lezioni separate di nuoto e di ginnastica, per tutti una mensa rispettosa delle consuetudini alimentari e dietetiche musulmane. I lavoratori musulmani, poi, hanno chiesto di sospendere il lavoro per dedicarsi alla preghiera; gli immigrati di religione islamica hanno chiesto di usare le norme sul ricongiungimento familiare per far arrivare in Italia non una, ma due mogli. Le Comunità ebraiche, da parte loro, hanno protestato con il Ministro della pubblica istruzione, il quale con un decreto aveva fissato per il 30 settembre – il giorno del Kippur – le prove di preiscrizione al corso di laurea in Scienze della formazione primaria; ed hanno altresì protestato con il Comitato di bioetica che ha stabilito che la pratica della circoncisione, pur essendo lecita, non può essere richiesta al Servizio sanitario nazionale.
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Ma, tornando al caso che abbiamo definito emblematico, non può nascondersi che l’esibizione di quel “brandello di tenebre” rappresentato dal chador è fonte di ulteriore preoccupazione, proprio perché per lungo tempo quel velo è stato il simbolo di una condizione di segregazione e di arretratezza delle donne arabe e musulmane, esattamente come il matrimonio forzato, la poligamia o l’esclusione dall’istruzione. Sarebbe semplicistico e inutile appellarsi al relativismo culturale, al riconoscimento di diversità: non è certamente per caso che le stesse donne arabe musulmane si siano battute per decenni per ottenere una legislazione e un diritto di famiglia che fossero il più possibile simili a quelli in vigore nei paesi occidentali. E non è certamente un caso che il primo segno di emancipazione delle donne sia stato in tutti i paesi arabi proprio l’abolizione del chador .

Il caso delle giovani musulmane, come si è detto, è particolarmente significativo in quanto pone il problema più generale del rapporto tra i concetti di eguaglianza e differenza e quello, strettamente connesso, della possibilità dell’ elaborazione di regole che possano dare risposta a queste esigenze.

Detto in altri termini, è possibile una eguaglianza di religione, di etnia, di sesso che non sia pura e semplice omologazione ad un modello unico di comportamento?

Quale può essere l’ampiezza delle oscillazioni tollerabili – per assicurare il rispetto delle differenze delle singole comunità – senza mettere a repentaglio la convivenza? Il pluralismo non è solo riconoscimento di diversità: porta con sé pure la necessità di definire regole di di coesione o, quanto meno, di compatibilità. Una volta, ad esempio, riconosciuta a tutti la libertà religiosa e assicurata la disponibilità dei luoghi di culto, c’è un momento o un luogo dove l’identità religiosa deve tacere, o i suoi segni devono potersi manifestare dovunque?

Qui emerge in tutta la sua complessità l’altro grande tema di oggi, quello dell’alternativa tra una società della separazione , che implica uniformità e universalismo nella sfera pubblica e pluralismo in quella privata (sulla base della constatazione che l’intransigente rivendicazione di identità può provocare dall’altra parte una reciproca e contraria riaffermazione di identità religiosa e razziale: la convivenza risulta difficile se non impossibile da raggiungere quando i vari gruppi anziché incontrarsi sul terreno neutro della laicità e della uguaglianza dei diritti preferiscono ribadire orgogliosamente le loro caratteristiche e differenze), e quella dell’inclusione/integrazione , che vuol dire non già assimilazione ma acquisizione di un minimo comune di codici di comportamento, tra i quali la lingua resta di fondamentale importanza, e di diritti/doveri comuni che consentano una convivenza pacifica e un confronto tollerante .

Ancora una volta, la tolleranza, intesa come rispetto dell’identità di ciascuno – qualunque sia il modello di società multietnica prescelto (non credo che esista un modello valido per tutti: molto dipende dalla storia e dalla cultura del singolo paese)-, si rivela il principio cardine, il valore fondamentale su cui costruire un minimo comune denominatore per intendersi.

La nostra Costituzione, ad esempio, “riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali, ove si svolge la sua personalità”(art. 2): e tra tali diritti si colloca, certamente, quello all’identità personale, nonché quello alla libertà individuale (art. 13) e, segnatamente, quello di professare liberamente la propria fede religiosa “in qualsiasi forma, individuale o associata”, “di farne propaganda e di esercitarne in privato o in pubblico il culto, purché non si tratti di riti contrari al buon costume” (art.19), e quello di ”manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione”(art. 21).

E l’art. 9 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950, dispone che “Ogni persona ha diritto alla libertà di pensiero, di coscienza e di religione; tale diritto include la libertà … di manifestare la propria religione o credo individualmente o collettivamente, sia in pubblico che in privato, mediante il culto, l’insegnamento, le pratiche e l’osservanza dei riti. La libertà di manifestare la propria religione o il proprio credo può essere oggetto di quelle restrizioni che, stabilite per legge, costituiscono misure necessarie in una società democratica, per la protezione dell’ordine pubblico, della salute o della morale pubblica, o per la protezione dei diritti e delle libertà altrui”.

Lungo la strada che conduce all’edificazione di una società multiculturale c’è, com’è facile arguire anche dalle citate disposizioni di principio, un problema grave e ineludibile: il riconoscimento del pluralismo non può portare con sé la legittimazione delle pratiche più arretrate, di simboli di barbarie, di violazione di valori essenziali della civiltà. Si pensi al caso dell’aborto selettivo delle femmine praticato ancora oggi dalle donne indiane, in un’ottica volta a fissare violentemente il rapporto tra i sessi; o, sempre nella stessa ottica, al caso della pratica antica e tremenda dell’infibulazione cui continuano ad essere sottoposte le donne africane.

Ecco, allora, la domanda più generale: la regola del pluralismo è incondizionata o ammette eccezioni? E, nel secondo caso, in base di quali criteri?

Tanto per cominciare, non credo che sia possibile ammettere rinunce là dove sono in gioco diritti fondamentali, come quelli alla vita, alla salute, alla dignità della persona (artt. 2, 3, 13-15, 32 Cost.): il rispetto dell’identità etnica e culturale degli immigrati che hanno scelto di vivere tra noi non può certo farci tolleranti, o indifferenti, se, in ossequio alle loro tradizioni, intendono compiere atti che siano in palese contrasto con quei grandi valori comuni, faticosamente costruiti, in cui s’identifica la nostra civiltà.
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Piuttosto, quel che forse si deve mettere in discussione – anche in considerazione del fatto che il Terzo Mondo sta bussando prepotentemente alle porte dell’Europa, e vi entra anche se l’Europa non è d’accordo (sì che, nel prossimo millennio l’Europa sarà un continente multirazziale, il che condurrà fatalmente ad un confronto – o scontro – di culture) – è l’esistenza di una cultura dominante, da accettare (e mantenere incontaminata) senza alcun preventivo confronto e senza ammettere la possibilità che questo confronto possa arricchire lo stesso quadro di valori e di criteri di riferimento nei quali ci siamo finora riconosciuti: perché, ad esempio, studiare le crociate soltanto con gli occhi degli storici occidentali e non anche con quelli degli storici musulmani; perché pensare alla filosofia medievale, che tanta importanza ha nell’evoluzione del pensiero dell’umanità, soprattutto attraverso San Tommaso, e non anche attraverso la filosofia araba?

Quello che oggi ci appare un arduo ostacolo da superare può divenire l’occasione per la nascita di una organizzazione sociale dove proprio la fatica del confronto può far rinascere il senso della comunità, arricchendola non solo di persone, ma delle culture che queste esprimono.

Dall’incontro e dallo scambio, dal confronto e dall’interazione tra culture diverse non può venire che bene: la storia dell’umanità e delle sue civiltà è stata essenzialmente il frutto di un arricchimento reciproco.

Non è un processo facile. Richiede un «apprendimento collettivo», non esclude conflitti. C’è sicuramente molto da fare, ma forse la prima cosa è conoscersi meglio, e reciprocamente. Recita un’antica parabola:

– ”Vedi quell’uomo laggiù?”

 “Si”

 “Beh, lo odio”

 “Ma tu non lo conosci”

 “Per questo lo odio”

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