La politica italiana si è molto scontrata sulla decisione della consulta di dichiarare l’incostituzionalità del Lodo Alfano. Si è rischiato lo scontro istituzionale con il premier Berlusconi che, subito dopo la decisione, dava del comunista al Presidente della Repubblica e alla Corte Costituzionale. A mente fredda e dopo la virulenta polemica politica, il “nostro” giurista Bruno Troisi ci spiega brevemente ma precisamente, perché giuridicamente quel lodo era incostituzionale e non da farsi.
Il 19 ottobre scorso venivano depositate in cancelleria le motivazioni della sentenza della Corte costituzionale n. 262/2009 sulla illegittimità costituzionale della legge 124/2008, “Disposizioni in materia di sospensione del processo penale nei confronti delle alte cariche dello Stato”, nota come lodo Alfano.
Le motivazioni della decisione, presa a maggioranza (9 giudici favorevoli e 6 contrari), sono chiare, forti e “in continuità” con la precedente sentenza sul lodo Schifani del 2004. (è vero che in essa si affermava che il lodo era illegittimo “in riferimento agli articoli 3 e 24 della Costituzione”, senza menzionare l’art. 138 che regola le riforme della Carta costituzionale, ma subito dopo si aggiungeva che “resta assorbito ogni altro profilo di illegittimità costituzionale”: per chi sa leggere le motivazioni dei giudici, ciò significa che una volta individuate le due violazioni citate, potevano essercene anche altre – considerate, appunto, assorbite dalla prima bocciatura – ma si decise di non entrare ulteriormente nel merito).
Il lodo Alfano viola gli artt. 3 e 138 della Costituzione: esso, infatti, non rispetta il principio di eguaglianza dei cittadini davanti alla legge (e alla giurisdizione, in particolare); inoltre, configurandosi di fatto come un’immunità, avrebbe dovuto essere approvato non solo con una legge costituzionale, capace di omologarla alle altre immunità previste per ministri, parlamentari e presidente della Repubblica (artt. 68, 90 e 96 Cost.), ma nel rispetto delle condizioni necessarie affinché una prerogativa (l’immunità) non si trasformi in un privilegio.
Nella legge censurata, infatti, si prevedeva un “automatismo” – quello, appunto, dell’attribuzione dell’immunità per il solo fatto di rivestire un’alta
carica dello Stato – inesistente per qualunque altra analoga prerogativa: mancava, insomma, un “filtro”, ovvero un momento, un luogo (parlamentare o giurisdizionale) in cui verificare quello che, per ministri e parlamentari, viene chiamato il fumus persecutionis. In altre parole, ogni deroga alla Costituzione non solo deve avvenire con una fonte dello stesso rango, ma deve essere sorretta dal requisito della ragionevolezza, in coerenza con analoghe deroghe.
E questo vale anche quando si tratta di tutelare le funzioni del presidente del Consiglio (le quali, d’altra parte, non sono del tutto sguarnite, considerando l’esistenza del meccanismo del “legittimo impedimento” a comparire in giudizio, previsto dal codice di procedura penale, che consente al giudice di bilanciare l’esigenza di speditezza del processo con quella di un sereno svolgimento delle funzioni istituzionali), che va considerato come primus inter pares (cioè, come “primo”, ma tra persone di pari grado) e non come primus super pares rispetto ai ministri.
(nella foto l’approvazione del Lodo Alfano alla Camera dei deputati)
Bruno Troisi