L’antico di Pascoli
Il termine «classicismo» ci rimanda immediatamente alla nozione di modello e di imitazione; in particolare all’imitazione delle opere letterarie e artistiche della classicità greco-romana, che appaiono, nell’ottica classicista, come esteticamente compiute e impareggiabili. Il classicismo rinascimentale e il neo-classicismo artistico e letterario del XVIII e XIX secolo mettono l’accento sui valori di equilibrio, armonia e misura riconoscibili nella produzione artistico-letteraria della cosidetta età aurea a Roma (I sec. a. C alla morte di Augusto, nel 14 d. C, secondo convenzione) e dell’età di Pericle (o attica) in Grecia, caratterizzata dall’egemonia culturale di Atene (V-IV sec. a.C).
Ora, il classicismo di Giovanni Pascoli – e ci riferiamo più specificamente alla raccolta dei Poemi conviviali (1904) interamente costruita su materiali di ascendenza classica – nasce nel contesto culturale della fin de siècle, epoca di passaggio, e di profonda crisi, tra Ottocento e Novecento, e si fonda su una nuova visione del mondo classico greco-latino, assai lontana dall’immagine che ne ebbero gli umanisti rinascimentali e i neo-classici alla Winckelmann[[Johann Joachim Winckelmann (1717-1768) , archeologo e storico dell’arte tedesco, è considerato il fondatore dell’archeologia moderna, non più praticata come semplice interesse antiquario ma come vera e propria disciplina scientifica. Le sue teorie ebbero un’influenza fondamentale sull’estetica del suo tempo. In particolare, nei suoi scritti, Winckelmann esalta l’arte greca come espressione di un’ideale di bellezza compiuto, riflesso di un’umanità armoniosa e serena, caratterizzata da una perfetta fusione di corpo e di spirito e dal dominio delle passioni. Questa visione fu all’origine della poetica neoclassicista, e dell’immagine di una grecità luminosamente equilibrata e serena. Questa stessa visione sarà poi aspramente criticata dal tardo romanticismo e dagli storici e filologi che, come Nietzsche, metteranno in evidenza la coscienza, presso i Greci, della dimensione tragica e pessimistica dell’esistenza.]]. In effetti, la lettura del mondo antico compiuta da Pascoli presuppone le nuove acquisizioni della cultura del suo tempo, a cui il nostro autore era profondamente interessato: dalle teorie evoluzioniste alla storia delle religioni, dalla psicologia e dalla linguistica comparata alla moderna filologia tedesca.
La visione pascoliana dell’antichità classica, infatti, rivela importanti tratti in comune con l’interpretazione pessimistica della civilità greca che si afferma, a partire dalla fine dell’Ottocento, con le opere di storici come Erwin Rohde e Jacob Burckhardt, ma anche del giovane filologo Friedrich Nietzsche[[Vedi nota 1]], autore della controversa Nascita della Tragedia, edita nel 1872 e disponibile a Pascoli in versione francese a partire dal 1901.
Se la filologia, col suo rigore scientifico, resta uno strumento fondamentale per accedere ai testi classici nella loro specificità linguistica e storica, non è più una rasserenante lezione di armonia e di misura a emergere dallo studio di questi testi, bensì la consapevolezza di un destino tragico, immutabile, senza prospettive metafisiche in grado di riscattarlo, comune all’umanità di tutti i tempi. Il senso della morte e del dolore che pervade il mondo classico fin de siècle dei Poemi conviviali pascoliani nasce quindi dalla stessa sapienza degli antichi, espressa dai miti classici; essa può riassumersi nella cosiddetta sentenza di Sileno[[Il mito greco, riportato tra l’altro da Nietzsche nella Nascita della Tragedia, racconta che il re Mida, dopo aver inseguito lungamente il saggio Sileno nel bosco, riuscì finalmente a catturarlo e a interrogarlo. Il re voleva sapere quale fosse la cosa migliore e più desiderabile per l’uomo. Sulle prime Sileno rimase in silenzio; poi, alle insistenze di Mida, rispose ridendo che il meglio per l’uomo è non essere nato, non essere niente; e una volta nati, la cosa più desiderabile è morire al più presto.]] che Pascoli traduce, nell’introduzione alla sua antologia di poesia epica latina, dal poemetto pseudomerico Contrasto di Omero e Esiodo: “è per primo ai terrestri non esser nato il migliore; / nati poi, quanto più presto passare le porte dell’Ade ». Questa stessa terribile verità rieccheggia dolorosamente nella parole della ninfa Calypso a Ulisse, ritornato cadavere sulle sponde dell’isola dove l’eroe aveva rifiutato l’immortalità offertagli dalla sua divina amante: « Non esser mai! Non esser mai! Più nulla, ma meno morte che non esser più ».
Nei classici, dunque, Pascoli trova la rivelazione originaria di quella fondamentale verità che la stessa scienza moderna non aveva potuto che confermare: il carattere ineludibile della morte, invitta e trionfante su tutti i miti di progresso del Positivismo ottocentesco. Lo sgomento che essa provoca nell’uomo non è però disgiunto da una volontà di riscatto; essa si traduce nella presa di coscienza del potere della morte sulla vita umana e in un agire volto a contrastare il male e improntato ad un sentimento di fratellanza e di amore universali (Pascoli impiega il termine, di ascendenza cristiana, di agàpe, “amore fraterno”). Per il poeta, in particolare, questo agire corrisponde, sul piano estetico, alla poesia, intesa come un vero e proprio antidoto contro la morte. Nella prefazione all’antologia di lirica latina Lyra romana (1894), destinata alla scuola, egli definisce espressamente lo studio dei classici e la poesia che ne deriva « amore che conserva ».
Dalla minaccia fatale della morte e del nulla, espressa emblematicamente dalla vicenda di Ulisse nel poema conviviale intitolato L’Ultimo viaggio, discende dunque l’utopia sociale pascoliana. Nella riflessione storico-antropologica del Pascoli, infatti, l’amore – e la poesia come atto d’amore verso i morti, in un senso che va ben al di là delle restrizioni biografiche – diventa il motore evolutivo dell’umanità e il fondamento della speranza in una redenzione dal nulla, da realizzarsi attraverso un autentico rinnovamento sociale, che l’autore sente prossimo al volgere del secolo decimonono. In questo quadro, alla poesia viene assegnato il compito di rivelare all’uomo la duplice cifra del suo destino: la morte, cui non puo sfuggire, e l’amore dei propri simili, che nasce naturalmente dal sentimento della comune miseria, dello stesso male da combattere.
Questo è il messaggio, nel contempo tragico e propositivo, che sottende non solo alla raccolta conviviale, ma a tutta la poesia del Pascoli, sempre in bilico tra il nulla e il sentimento esaltante di un mistero, di un sogno capace di esorcizzare il nulla stesso.
Antichità = infanzia
Vettore di un sapere eterno, l’antichità classica in senso storico, si sovrappone, nell’estetica dell’autore, all’idea di infanzia in senso assoluto – infanzia dell’umanità e del singolo – e dunque a quell’età primordiale in cui linguaggio e poesia naturalmente coincidono. In questa prospettiva, i classici esprimono la voce della poesia originaria che, perduta per sempre, può essere in qualche modo ritrovata attraverso lo studio attento e amoroso di tutto ciò che ancora resta di essa. I Poemi conviviali rappresentano dunque un tentativo di recuperare l’infanzia originaria – e dunque un rapporto significante con il mondo ed il presente storico e individuale – attraverso un modello di riferimento; in questo caso, il patrimonio culturale e letterario della civiltà greco-latina.
Nel quadro della ricerca pascoliana di una poesia nuova per « l’èra nuova » – titolo di un discorso del 1899 – i Poemi conviviali sono una verifica delle possibilità di sopravvivenza della poesia stessa nel presente del sapere tecnico-scientifico, segnato dalla morte del pensiero mitico e dall’affermazione del materialismo. La morte del pensiero mitico significa, infatti, per Pascoli, perdita dell’infanzia; se, da un lato, questa perdita corrisponde al progresso intellettuale e materiale della società e allo sviluppo psico-cognitivo del singolo, dall’altro essa segna un radicale impoverimento delle facoltà dell’anima, prima tra tutte la « meraviglia », da cui discende la conoscenza intuitiva del mondo e la possibilità stessa della poesia.
L’antico e l’ispirazione poetica
Come abbiamo visto, l’amore di Pascoli per i classici si radica in una visione più ampia della poesia che tende a sovraporre il passato storico e individuale all’idea, di ascendenza romantica, di un età dell’origini – l’infanzia pascoliana – di armonia tra io e mondo, perduta, certo, ma nondimeno meta tendenziale di ogni sforzo del poeta.
Nel quadro di questa visione, l’amore dei classici diventa, in senso più generale, amore dell’antico, del passato, come oggetto privilegiato della vera poesia che, secondo Pascoli, è naturalmente refrattaria al presente. Nel 1887, nella prefazione scritta per l’opera Traduzioni da Alfredo de Musset di un amico, Pilade Mascelli, il giovane Pascoli esprime per la prima volta questa idea, affermando che « il presente, non c’è per il poeta », nella misura in cui il presente non si lascia cogliere nella sua immediatezza né comprendere e non può dunque diventare oggetto della vera poesia, che è essenzialmente ricerca di senso:
“Son temps[[In francese nel testo.]], il presente, non c’è per il poeta. Da una parte egli sente l’eco degli anni che furono, dall’altra il brulichio di quelli ancor non nati: tutto il resto è silenzio. La poesia o racconta o indovina, o conserva o crea, o è degli Aedi o dei Vati. I cacciatori dell’Augenblik (sic)[[In tedesco Augenblick significa «attimo».]] possono andarsi a riporre che l’attimo fuggente non si lascia cogliere.”
Nel 1896, il poeta ritorna sul tema del passato in occasione della lezione inaugurale del suo corso di grammatica greca e latina all’università di Bologna. In questo discorso, critica l’opposizione tradizionale tra le nozioni di antico e moderno, spiegando come, in realtà , nulla sia veramente nuovo, poiché non è possibile “scindere il passato dall’avvenire” ; di conseguenza, nessuna letteratura è veramente nuova, poiché « il pensiero antico vive, con modi appena mutati, in essa ».
Inoltre, egli spiega il carattere profondamente estetico, poetico, di tutto cio che è antico e dunque morto al presente, non più oggetto di esperienza diretta. La bellezza dell’antico risiede in questa sua stessa lontananza; sottraendosi all’esperienza ordinaria, esso diventa naturalmente fonte di meraviglia, e quindi di poesia.
In una recensione di qualche anno prima a una raccolta di versi patriottici, Carlo Alberto. Canti, opera di Amilcare Finali (1892), Pascoli evoca esplicitamente il legame tra il poetare e lo scorrere del tempo: « L’uomo, quando poetizza, imita il tempo…non fa altro che allontare, per virtù di profonda meraviglia, dal mondo consueto ciò che rende poetico ».
Ancora nel 1899, nella premessa all’antologia per la scuola dal titolo Sul Limitare, Pascoli torna a insistere sul valore estetico ed educativo dell’antico e sulla sua superiorità rispetto al ciò si ritiene, erroneamente, nuovo, inedito: « …il nuovo abbonda intorno ai giovinetti, o sovrabbonda…Meglio vivificare l’antico: ché da questo viene l’ispirazione, da quello non scende che l’imitazione; e l’imitazione uccide, mentre l’ispirazione crea ».
L’antico come eredità comune
Questa particolare visione dell’antico e, in senso più ampio, del passato, nasce dalla certezza, propria del Pascoli, della presenza in ogni uomo di quella che potremmo chiamare un’eredità di ricordi, di memorie appartenenti non solo all’esperienza della vita individuale, ma anche alla Storia dell’umanità , cui ognuno è indissolubilmente legato. Negli appunti contenuti nei quaderni degli anni 1892-1983, Pascoli lo afferma chiaramente: “in noi vive inconscia la vita d’altri tempi”. Se la voce di questo passato collettivo è difficilmente percettibile ai più, non lo è per il poeta, “l’enfant du siècle[[In francese nel testo.]] che si è perduto nella notte dei tempi.”
Questa idea del passato storico come eredità comune a tutti gli uomini rende lo studio dei classici non solo esteticamente necessario, perché l’antichità è l’infanzia dell’umanità, ma anche moralmente fondamentale, nella misura in cui ci permette di allargare le frontiere della nostra esperienza di singoli aprendole all’esperienza dell’umanità di ogni tempo e di sentire, in questo modo, il legame potente che ci lega ai nostri simili, al di là del tempo e dello spazio; in un ciclo eterno in cui la morte è sconfitta dall’amore per il passato, per l’antico, attraverso lo studio e l’amoroso ricordo:
“L’uomo sente allora per quali misteriose fibre sia congiunto all’umanità che fu e a quella che sarà, e comincia a consolarsi non solo dell’esser nato come tanti altri che morirono, ma anche del dover morire lasciando tanta parte di sé ad altri, che nasceranno.”
Amore dell’antico e modernità
In ultima analisi, come si è visto, la questione della modernità, comunemente intesa, non si pone per un autore come Pascoli, che rivoluziona i concetti stessi di antico e moderno. Quello che gli sta effettivamente a cuore è piuttosto la questione del carattere eterno e universale della parola poetica.
È importante precisare che l’originale classicismo del Pascoli, coincidente con il concetto, apparentemente paradossale dell’“antico sempre nuovo», non presuppone nessun vero ritorno indietro, nessuna regressione fine a se stessa, e questo neppure in una raccolta come i Poemi conviviali, ritenuti per lungo tempo un’opera unicamente rivolta al passato, povera d’innovazioni rispetto a raccolte come Myricae o i Canti di Castelvecchio, tributo alla moda estetizzante della fine del secolo. Ma ciò che svolge un ruolo determinante nella scrittura pascoliana è proprio l’equilibrio tra natura e cultura, cioè tra la voce eterna del fanciullino – la nostra “psiche primordiale e perenne”, come la definisce – e lo studio delle tracce che questa voce ha lasciato dietro di sé nello scorrere dei secoli. Infatti, se è vero che la poesia pascoliana partecipa del passato, personale, storico, come sua fonte privilegiata di ispirazione, essa è costantemente rivolta alla ricerca del nuovo – di una nuova meraviglia – nel presente della scrittura. Ma il nuovo di Pascoli non si inventa, si scopre.
Benché il poeta faccia astrazione dal presente per ritrovare il fanciullo eterno che è in lui, il suo messaggio è dunque sempre rivolto al presente, nel tentativo di offrire delle chiavi di lettura e delle soluzioni ai suoi tormenti esistenziali e ai profondi disequilibri della società contemporanea, che si profilano molto chiaramente alla fine del secolo.
Invece di proclamare una rottura con il passato che non sarebbe altro che una mistificazione, o conformarsi ai gusti e alle mode della sua epoca, coi Poemi conviviali, come con ogni sua altra prova poetica, Pascoli tenta di rispondere alle esigenze di rinnovamento iscrivendo la sua poetica nella società contemporanea, nel tentativo di preparare l’umanità dell’“èra nuova” alla sfida del futuro che la attende: la fondazione della vera modernità e della vera poesia, entrambe organizzate a partire dalle proprie memorie, senza dimenticare le acquisizioni del presente; prima fra tutte la presa di conscienza della verità , rivelata anticamente dal mito classico e confermata dalla scienza del XIX secolo: la fine di ogni metafisica in favore di una vera e propria rinascita dell’umanità.
Francesca Sensini
PS. Abbinato a questo articolo, diamo la parola a Pascoli stesso:
La voce alla poesia: L’ULTIMO VIAGGIO commentato dal Prof. Giovanni Capecchi.
LINK A TUTTI I CONTRIBUTI DEL MENSILE ALTRITALIANI DEDICATO A PASCOLI