Cade quest’anno il decennale della morte di Carmelo Bene, il formidabile agitatore del teatro, uno dei più grandi attori del mondo, il figlio divino di Ariele, il cui destino ha una grandiosità e una tristezza smisurata: è solenne e nel tempo stesso misterioso.
Per tale occasione ci accingiamo a intervistare l’autrice di E gli occhi hanno visto la vista (L’immagine tra Gilles Deleuze e Carmelo Bene) – libro edito dalla «Psychodream» –, Viviana Vacca, che, nelle pieghe possenti del suo testo, prende ad oggetto l’intima forza paradigmatica del genio salentino, la sua felicità d’ispirazione ineffabile, la sua assoluta gratuità inventiva, il suo sforzo totale, insieme critico e insopprimibile, contro la violenta omologazione dell’industria culturale.
Ricorre quest’anno il decennale della scomparsa di Carmelo Bene. Nel campo artistico, si tratta di una data d’eccezione. Non pensa che vada considerata degna di qualcosa di meglio di una semplice celebrazione di circostanza?
Le celebrazioni inconsistenti non giovano ai creatori come Carmelo Bene. A me piace pensare piuttosto all’arte del ritratto storico-filosofico, così come con passione intellettuale la concepiva Gilles Deleuze: ogni ritratto non ripropone ciò che un autore ha detto, ma porta alla luce le possibilità contenute in questo già detto, attraverso nuove contaminazioni, nuove occasioni di incontro tra pratiche differenti. È un’operazione molto delicata, artigianale: oggi parlare di Carmelo Bene significa fare i conti con uno spazio vuoto, un vuoto che non può essere sostituito con un pieno. Il rispetto di questa condizione apre a spazi differenti in cui la riflessione non diventa un semplice esercizio della memoria.
In Bene coesistono una forza irrazionale e una intenzionale che lo portano a variare incessantemente e a puntare sull’incomunicabilità e quindi sulla difficoltà, sull’enigmaticità, sulla contaminatio di linguaggi, sulla complessità stilistica: un dissidio che si manifesta nell’aspirazione ad uscire fuori dalla realtà mediocre e si attua, in concreto, per mezzo del suo portentoso macchinario linguistico. Quale è l’origine di tanta ricerca e inquietudine nell’arte di Bene?
Non parlerei tanto di origine, piuttosto di desiderio, nella sua accezione positiva, affermativa. Il desiderio in Carmelo Bene non conosce la nostalgia dell’intero che invece possiamo ritrovare in Artaud. Il carattere frammentario, icastico della sua opera (teatrale, cinematografica e televisiva) vive proprio nella contaminazione delle parti più differenti. La sperimentazione nel XX secolo conosce questa idea e la declina secondo eterogenei piani. Credo che Carmelo Bene abbia cercato di creare nel momento della privazione: un momento sospeso e indefinito in cui sorge la potenza dell’atto creativo. Alla luce di queste considerazioni si può forse cercare di capire la portata della straordinaria operazione compiuta.
Bene è un genio selvaggio che disdegna la vita comune ed è in discordia con la moltitudine; egli si trova ciecamente solo di fronte a un mondo ciecamente solo: spinti l’uno contro l’altro a urtarsi. Non crede che la potenza espressiva di Bene serva a ricreare un mondo destituito di possibilità di razionalizzazione?
La potenza del gesto creativo di Bene si inserisce già in uno scenario deprivato di senso, ma non indulge a gesti consolatori, a rifondare qualcosa che si è perduto. Il secolo in cui ha prodotto le sue opere è per Bene la scena della decadenza, in cui non si conoscono nostalgie o nuovi atti di razionalizzazione. Bisognerebbe ripartire dagli effetti che le sue sperimentazioni producono ancora oggi per parlare possibilità creative.
La critica e gli studiosi non hanno circostanziato, se non limitatamente, le influenze culturali specifiche di Carmelo Bene e i riferimenti filosofici più immediati (Stirner, Laforgue, Derrida, Ruysbroeck, Sterne): influenze molto meno provinciali e, in certo senso, molto più europee di quanto la posizione marginale di Bene possa far pensare. Quale è il suo punto di vista?
La sua domanda tocca un punto molto interessante, nevralgico direi: Carmelo Bene era salentino e la terra delle Puglie attraversa le sue sperimentazioni. Ripartire da questo dato solo apparentemente geografico e biografico permette forse di illuminare la costellazione di interessi e gli incontri su cui si è fondata l’arte di Carmelo Bene. La sua, in fondo, era una solitudine affollata, contaminata dalle più svariate esperienze intellettuali.
Ho cercato di mettere in luce le caratteristiche di un incontro: un incontro di sperimentazioni diverse, un incontro tra due amici che si sono appassionati a un progetto. In base a questo, era mia intenzione porre in risalto la caratteristica fertile del metodo deleuziano: la filosofia e l’arte sono due pratiche che possono dialogare tra loro nel rispetto delle proprie specificità. La cosa più prepotente per il pensiero – e nella filosofia e nell’arte – è che questo incontro non nasca da una mancanza, ma da un sovrabbondare vitale di stimoli. Non parlerei di dicotomia in senso dualistico, oppositivo, piuttosto di polarità.
Nel misero sottofondo culturale di oggi, Carmelo Bene viene trattato con faziosità e acquiescenza. Non trova che sui geni debba sedimentarsi il tempo giusto, perché essi possano prendere e tenere il loro posto nella storia?
Credo in qualcosa di molto più ingenuo, forse e certamente più complicato: ci si deve accostare alla creazione cercando di produrre qualcosa di nuovo, nel rispetto delle intenzioni dell’autore. Nel caso di Carmelo Bene, in particolar modo, un certo timore reverenziale spesso fa indulgere ad atteggiamenti eccessivamente didascalici. Ma oggi noto comunque operazioni critiche quanto mai interessanti, anche nel panorama teatrale italiano: penso alle sperimentazioni di Danio Manfredini, alla Societas Raffaello Sanzio di Romeo Castellucci, che nella particolarità delle rispettive impostazioni, dialogano ancora per Bene, in maniera diretta ma evolutiva.
Nel suo testo getta uno sprazzo di luce sulle opere di Deleuze, un filosofo armato di una erudizione spaventevole, capace di tutto e capace di semplificare tutto. Esiste, secondo lei, un’assimilazione tra le opere di Deleuze e quelle di Bene?
Non credo si possa parlare di assimilazione: come ho già sottolineato il filosofo è un artigiano, crea concetti attraverso l’incontro con l’arte. Nel rispetto di questo, si può forse capire la ragione dell’incontro tra Deleuze e Bene: entrambi distruttori e costruttori di nuove opportunità. Due vite, insomma.
Esulando dal testo, come si compie il suo apprentissage filosofico?
Mi sono laureata in filosofia a Cagliari e continuo le mie ricerche in Francia. La terra francese è da sempre alla base del mio apprendistato, a cui unisco da sempre la passione per altri campi di indagine quali l’arte, la letteratura, il teatro e il cinema. Sui territori di confine si innesta da sempre il mio percorso.
Ci può parlare indiscriminatamente dei maestri che costituiscono i cardini della sua formazione filosofica?
Potrei fare un elenco infinito di nomi ma diventerebbe peggio dell’epopea del Gilgamesh! Facendo un po’ d’ordine direi – oltre a Deleuze – Foucault, Bergson, La Mettrie, Nancy, ma anche Heidegger, Eraclito, Platone, Spinoza, Leibniz e altri.
Ci può chiarire come nasce la sua collaborazione con «Psychodream Theater» e cosa l’ha mossa a pubblicare il suo testo?
Nasce da un incontro: questa per me è più di una parola, è una vera e propria politica. Credo negli incontri veri, duraturi tra gli studiosi, in una comunità di ricerca. Da questo incontro è nato il desiderio di pubblicare questo testo, proprio in vista di un progetto dedicato alle contaminazioni, agli innesti.
D’Annunzio dice: «Quando mi sono liberato d’un’opera, io me ne distacco e la considero quasi fosse cosa d’un altro. Nel creare consiste il mio piacere, quando lavoro godo e mi compiaccio dell’esercizio della mia forza. Dopo…». Cosa pensa, a un mese dalla pubblicazione, della sua opere e cosa ha prodotto in lei il giudizio dei lettori?
Cerco di fare mio quello che un giorno mi ha detto Giorgio Passerone: «Fai degli errori una tua cifra stilistica».
Intervista a cura di Giuseppe Tommasone
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Brano tratto dal libro
…Un silenzio lungo e angoscioso cade nel teatro. Tutto è inghiottito nel buio.
Ben presto compaiono globi di luce intensi e limpidi che si stendono poeticamente sul limite del palcoscenico.
Ad un tratto il chiarore si fa più fioco, rado. Nella penombra il Maestro fa un breve passo, come trascinandosi verso chi sa quale precipizio. Alza la testa, con aria ombrata. Poi, si arresta, abbassando le palpebre trascolorate sugli occhi guardinghi e cupi. Un ghigno involontario gli gonfia la bocca.
Un’espressione arguta, una tinta d’ironia compare sul suo viso volpino, d’un colore terreo e artificiale.
Ad un tratto si sporge in avanti, lanciando intorno uno sguardo indignato e offeso e schiude la bocca con un piglio esperto e virile. Preso da un impeto, quasi ispirato da un’inventiva furente, soffia nel Bayer:
la sua voce folgorante, ineffabile, risuona ora vibrante e risentita, ora supremamente delicata.
Ha qualcosa di metallico, impervio e insieme vitreo.
Le sue parole, cariche di turgori, strenuamente metaforiche, erompono con una specie di violenza imperiosa dalle labbra; rimbombano acute come il grido di una procella, si accendono come lampi di verità e di ardire…