Già dalla copertina il libro non preannuncia nulla di infervorante: è un particolare tratto da “Les Enfers” di Francois de Nomé. Eppure non è un viaggio (o soltanto questo) negli Inferi o nelle anomalie di una città difficilissima e violenta qual è Napoli; è un’analisi calata fin nelle viscere antropologiche di una città tormentata certo, ma che rimane fra le più affascinanti ed uniche al mondo. “Un paradiso abitato da diavoli”.
Francesco Durante ha di recente dato alle stampe (per Neri Pozza, pagg. 333, 2011) un corposo ed intrigante volume dal titolo alquanto esplicativo: “I Napoletani”. L’autore aveva già pubblicato nel 2008 un testo emblematico sulla città, “Scuorno” ossia vergogna, a seguito delle umilianti condizioni (e conseguenze mediatiche) in cui versava la città invasa e devastata dall’immondizia, e non soltanto.
Napoli, dunque, lungi da rappresentazioni siano esse oleografiche, siano esse “terribiliste”, come scrive l’autore nelle conclusioni. Una via altra (per così dire) nella quale la narrazione del costume e dei vizi della comunità ai piedi del Vesuvio fosse al cospetto di una storia straordinaria e senza pari, in un contesto scenografico decantato nei secoli da viaggiatori e cultori della bellezza. La visione di una baia sospesa fra l’esaltazione del creato e la minaccia di un vulcano (e i contigui Campi Flegrei) in costante fermento geologico. Un territorio su cui vive una comunità che concentra fervore e rassegnazione, inquietudine e passività. E poi le migrazioni: i napoletani che possono trovarsi in ogni angolo del mondo e restare identici, sebbene si sia persa nel tempo quell’antica identità (che tuttavia rimane clamorosa).
I napoletani non esistono o, meglio, essere napoletano ha significato sempre (da Basile a Croce, da Cuoco a Rea, da Viviani ad Anna Maria Ortese), colui che ha nostalgia della propria identità perduta. Ma c’è una canzone “non-napoletana” (suggerisce Durante) che forse al meglio risalta lo spirito di un popolo: è “Naufragio a Milano” che Paolo Conte incide nel ’75. “Io comme puozzo raggiunà…si raggiono l’uocchie chiagne fora milleciento lagreme”. Si comprenderà il senso che viene letto da un poeta che stima con mirabile tenerezza il cuore di questa città.
Durante racconta quel significato non consueto di questo luogo che mediante altri autori della canzone italiana (da Lucio Dalla con “Caruso” a Fabrizio De André con “Don Raffaé”), plasmati come sono da secoli di canzoni e di versi scaturiti da quella sorgente di creatività che sgorga alle falde del Vesuvio. Dalla musica al teatro al cinema, da Totò ad Eduardo, e via via il teatro innovativo di Martone, Moscato, la toccante narrativa di Erri De Luca, la musica di Pino Daniele, degli Osanna, di James Senese e della Nuova Compagnia di Canto Popolare di Roberto De Simone, quella di Edoardo Bennato e del fratello Eugenio. Sono solo gli ultimi cantori di una cultura antichissima, che viene da Boccaccio e tocca epoche e tracce mai estinte del tutto. Carnalità, eros e solidarietà. Il cinema di autori non napoletani si rilegge in De Sica e Rossellini, in Scola (“Maccheroni”) e Wertmuller: una passione ineludibile.
Sarà sempre difficile circoscrivere in un ambito “comune” la napoletanità, dunque. Chi saranno mai i napoletani, quei “diavoli che abitano un paradiso” di cui scrivevano i primi viaggiatori toscani del Quattrocento. Sono galantuomini e sono guappi di quartiere. Sono volgari lazzaroni in antitesi ad eleganti esteti, in entrambi i casi dotati di quel raro senso dell’ironia (ed autoironia) difficile da riscontrarsi altrove. Tra fermenti e contraddizioni più forti che in altre parti, il libro di Durante ci accompagna in un viaggio utile anche a chi napoletano non è, a quanti hanno guardato quella realtà con sospetto, paura e maldicenza. Una città “laboratorio” dove finanche le rivoluzioni si sono consumate in maniera ambigua ed irrazionale, come quelle che scaturiscono improvvise e altrettanto improvvisamente si diradano. Durante non entra nel labirinto criminale (che certamente non è un episodio a caso nella sua storia millenaria), non intende possedere (come Saviano) la sonda della cronaca, la sua è prosa pura. Percorre un sentiero che si snoda nei rischi dell’analisi antropologica, non prende parte, ma se ne ricava un affetto ineguagliabile.
È Napoli, tanto basta.
Armando Lostaglio
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