Da quando è uscito, La vita è bella di Roberto Benigni non ha fatto che raccogliere premi. La critica nazionale e internazionale, con l’eccezione di qualche nota dissonante anche se prestigiosa, è stata unanime nel lodare il film e promuoverne il successo mondiale. E infine da Los Angeles si è portato prevedibilmente a casa tre Oscar. Di questo trionfo italiano non sembra più possibile dubitare dopo Cannes, Israele, l’Inghilterra, la Svizzera, gli USA. E invece, dopo la consacrazione hollywoodiana, la critica italiana, che lo conosce meglio, dovrebbe avere ancora qualcosa da dire su questo film.
A mio parere La vita è bella va rivisto e criticato per due motivi, fondamentalmente. Per la delusione di vedere un grande comico, e tragico come tutti i grandi, divenire poco a poco un fabbricatore di spettacoli. Ma soprattutto, perché non si parla così di un genocidio, fingendo che gli uomini non possano anche divenire « bottoni ».
Quando, molto in ritardo ho visto il film, ero partito con un pregiudizio favorevole, quello dovuto alla stima e alla simpatia per l’attore. Ma il disagio è stato immediato, già nella prima parte comica, la commedia insipida che funge da prologo.
L’attore, il grande vernacoliere, non è quello di una volta. La trasformazione non è stata certo improvvisa. Il Benigni grande era quello degli inizi, che poi si è perso, film dopo film, successo dopo successo, fino ai piccoli diavoli, ai johnny stecchino, ai mostri. Puntuale e paradossale, la consacrazione universale arriva proprio nel momento di massima distanza dalle origini, da ciò che era stato autentico. Ma è un paradosso solo apparente.
Così per cercare di capire meglio il perché della mia scottante delusione, sono andato a rivedermi in cassetta il primo TuttoBenigni rappresentato alle Cascine di Firenze all’inizio degli anni Ottanta e Berlinguer ti voglio bene, il film di Giuseppe Bertolucci realizzato nello stesso periodo.
Allora Benigni cercava consenso pescando nel quotidiano, gridando con rabbia contro le oscenità della vita politica e recitando con grande coraggio la tragedia di affetti e di sesso di un delirante Mario Cioni. Di quest’omino sconvolto che si masturbava sul palcoscenico, si rideva soffrendo, come al grande teatro dell’assurdo. I toscani poi, erano commossi e atterriti di fronte al diabolico delatore che rivelava agli altri italiani le loro fisiologiche passioni e astuzie.
Ora, invece, Benigni cerca il consenso attraverso i buoni sentimenti mettendo in scena uno spettacolo a lieto fine che ricatta sottilmente il pubblico planetario perché osa proporsi come antidoto all’orrore della violenza nazista. Per lo spettatore è difficile dissentire. Come è possibile contraddire un bambino ebreo internato a Auschwitz il cui padre, per amore, riesce a convincere che lo sterminio è un gioco, che gli uomini non sono bottoni, abat-jour e altri oggetti domestici? E che lui alla fine, insieme a tutti noi, vincerà in premio un carro armato americano? E alla fine, quando lo vince, uno rimane stupito e quando si mette a riflettere, resta incastrato. Invece, bisogna dissentire e affrontare l’orrore e l’attualità della violenza non con la retorica, certo, ma nemmeno con le favole anche se parlano dell’amore di un padre per il figlio.
La « favola coraggiosa » di Benigni e Cerami, come la definiscono gli ammiratori soddisfatti, non riesce a vincere Auschwitz, al contrario. Il bluff, stando al botteghino, funziona nel « villaggio globale » con la maggioranza degli adulti più o meno consciamente astuti, ma non credo con i bambini i quali non hanno niente da nascondersi né da farsi perdonare.
Con tutto il rispetto per il cinema di Hollywood, che qualche volta lo merita, La vita è bella fa pensare a un film americano e, per ambiguità, al dramma dell’AIDS messo in scena da Benetton sui giornali di tutto il mondo. Meglio, è cinema « americano » con un tocco di geniale furbizia italiana. Un’accoppiata vincente che merita ben un Oscar.
Montréal, settembre 1999
Lamberto Tassinari
N.B. L’amico Lamberto ha abboccato all’invito, e mi rimanda questo testo, scritto (e da me letto) più di dieci anni fa. L’ho proposto per la pubblicazione senza cambiare una virgola, tanto il testo rimane non solo forte – ed a mio avviso “giusto” – ma di “profetica attualità”, proprio in considerazione della recente performance “sanremese”. L’ho già detto, ma è importante a mio avviso ripeterlo, sottolinearlo: il breve e dissonante testo fu all’epoca (della consacrazione) proposto a vari quotidiani, fra cui “La Repubblica” e “Il Manifesto”, che lo rifiutarono… (Giuseppe A. Samonà, per la redazione di Altritaliani)