Aveva vinto l’Orso d’Oro all’ultimo Festival del Cinema di Berlino il film di Paolo e Vittorio Taviani Cesare deve morire, liberamente ispirato al “Giulio Cesare” di Shakespeare e girato come un documentario (quasi tutto in bianco e nero) con i detenuti del carcere romano di Rebibbia.
E’ uno dei film più evoluti ed artisticamente più interessanti della stagione, che ha anche avuto l’onore di rappresentare l’Italia nella selezione per gli Oscar dei film non americani. Purtroppo è appena stato escluso dalla shortlist delle nomination dei nove film, da cui ne verranno successivamente estratti cinque per le candidature ufficiali. Nella considerevole vetrina mondiale offerta da Hollywood, il cinema di casa nostra, ancora una volta, viene messo da parte.
Saranno in lizza film certamente di altissimo valore come “Oltre le colline” del rumeno Cristian Mungiuì, il meraviglioso “Amour” di Michael Haneke (per l’Austria, vincitore a Cannes), il cileno “No” di Pablo Larraín, il canadese “War Witch” di Kim Nguyen (storia di un bambino-soldato in Africa), opere di indiscusso valore. Per la Francia supera la selezione quel “Quasi amici” di Olivier Nakache e Eric Toledano, commedia dei sentimenti (un po’ furbesco) che ha sbancato anche da noi.
Eppure il film dei Taviani meritava di approdare nella “lista” dei cinque.
Intanto, erano ventuno anni che l’Italia non vinceva l’Orso d’Oro a Berlino (nel 1991 se lo aggiudicò il compianto Marco Ferreri, magnifico autore di opere controverse ed imperiture, con il film “La casa del sorriso”, una storia d’amore fra anziani ambientato in una casa di riposo: interprete l’immensa Ingrid Thulin, una delle muse di Ingmar Bergman e del cinema svedese).
Paolo e Vittorio Taviani sono autori che da oltre cinquant’anni si ostinano a portare sul grande schermo storie e sensazioni che fanno epoca. Cesare deve morire è un esempio eccellente di come si possa inventare cinema da pochi elementi, dal teatro tratteggiato in un carcere fra ergastolani, fino a realizzare un connubio fra il classico e il moderno, intriso di una drammaticità di altissima scuola. Il film ha una propria visione universale, non potrebbe mai essere addebitato (per l’esclusione dagli Oscar) di riferirsi ad un ambito ristretto. Ha invece uno sguardo di ampia umanità, è una rara lezione di cinema.
“L’Orso d’Oro di Berlino ci riempie di gioia – aveva commentato Paolo Taviani – soprattutto per chi ha lavorato con noi. Sono i detenuti di Rebibbia guidati dal regista Fabio Cavalli che li ha portati al teatro. Questi detenuti-attori hanno dato se stessi per realizzare questo film e ci fa piacere vincere un premio al festival di Berlino che non ha un indirizzo generico ma che, al contrario, ha un carattere molto specifico: cerca forze nuove e cerca forze che si appassionino a tematiche sociali. Questo film combina tante cose: Shakespeare entra dentro Rebibbia. E io penso che questa esperienza forte ci rimarrà dentro sempre, anche come contraddizione, e comunque come grande momento di qualità ».
Paolo e Vittorio Taviani approdarono al cinema nel 1960 come aiuti registi – insieme a Tinto Brass – del maestro olandese Joris Ivens, che aveva girato anche in Basilicata, per conto di Enrico Mattei, il documentario L’Italia non è un paese povero sulla nascente epopea delle estrazioni di metano. Il primo film dei Taviani è del 1967, I sovversivi, (con un trentenne Lucio Dalla) che anticipava gli avvenimenti del 1968. Il riconoscimento mondiale è arrivato con la Palma d’oro a Cannes nel 1977 per Padre padrone ritenuto ormai un film cult.
Armando Lostaglio
(CineClub “V. De Sica”)