Nell’Italia da poco unificata, la cultura dell’impegno rafforzò l’esigenza di realismo. Era tempo per riscoprire due grandi del passato, fino a quel momento dimenticati o misconosciuti, Caravaggio e Giordano Bruno. Recentemente si sono celebrati i quattrocento anni dalla morte del pittore; qualcuno in più ci separa dal filosofo, morto sul rogo il 17 febbraio 1600. La storia li ha trattati da eretici, temporaneamente disdegnati, poi rivalutati, infine trasformati in miti. Entrambi propongono ai loro estimatori anche molto di più: una visuale ed un pensiero moderni; un occhio aperto sul mondo, profondo e privo di imposture.
“A egregie cose il forte animo accendono / l’urne de’ forti o Pindemonte (…)”
Machiavelli, Michelangelo Buonarroti, Galileo Galilei: erano questi alcuni dei nomi scelti nel 1806 da Ugo Foscolo per celebrare nei Sepolcri le glorie di un’Italia pre-risorgimentale in cui la passione politica, l’aspirazione ad una cultura più libera e meno accademica, l’idea di unità nazionale, muovevano i primi, incertissimi passi. E ancora Dante, Petrarca, Parini, Alfieri: che attestavano aspirazioni identitarie, scelte risolute, carattere e posizioni etiche di una nazione storicamente dominata e succuba, non solo dei regnanti stranieri o di quelli autoctoni, non meno reazionari; soprattutto di una mentalità che – in linea con i tempi – faceva del privilegio sociale e del condizionamento culturale l’arma prescelta per contenere e controllare lo spirito popolare e le menti più aperte, libertarie e disinvolte.
Un nome, una piazza
Corsi e ricorsi, avrebbe detto Vico[1]: l’uomo rimane uguale a se stesso e certe peculiarità del nostro Paese sembrano non abbandonarci. Possiamo ben dirlo anche noi, visti i tempi che corrono? Ma, come Foscolo, non ci arrendiamo all’ineluttabilità di una sconfitta umana così grossolana; resiste l’utopia concreta di una trasformazione in atto e ineluttabile alla fine. E sempre nomi dell’oggi o del passato la sorreggono e le danno linfa vitale, cambiando come cambiano le nostre aspirazioni e la nostra sensibilità. Anche questi sono corsi e ricorsi, in positivo, per fortuna.
Circa ottant’anni dopo il componimento foscoliano, esattamente nel 1889, un altro nome – poco sentito in Italia fino ad allora, ma italianissimo – risuonava a esempio della libertà conquistata, dell’Unità costituita e del pensiero, martirizzato ma finalmente affrancato dall’oppressione: veniva eretto a Campo de’ Fiori in Roma il monumento a Giordano Bruno, opera dello scultore Ettore Ferrari. Non si creda sia stata un’impresa semplice. C’erano voluti due comitati universitari internazionali per la raccolta dei fondi necessari (rispettivamente nel 1876 e nel 1884; il comune di Roma offrì solo un modesto contributo); la realizzazione dell’opera fu osteggiata non poco dalla maggioranza clericale del Campidoglio, divenendo presto l’occasione per una campagna politica sfruttata abilmente dai liberali. Certo è che il primo bozzetto, raffigurante Bruno sfidante il tribunale dell’Inquisizione, venne rifiutato a favore della composizione tuttora visibile, in cui la sfida si trasforma in sdegno e la figura del filosofo si impone ritta e raccolta tra le pieghe del saio e quelle di una riflessione severa.
Giordano Bruno: l’araba fenice
Ma si capisce: il pensiero di Bruno, sia durante la sua esistenza che dopo la sua morte, era stato oggetto di un vero e proprio ostracismo intellettuale, che a noi potrebbe apparir strano, se dimenticassimo che è egli è tuttora temuto e negativamente stigmatizzato dalla intellighenzia cattolica, ancora in larga misura reticente sul processo al filosofo. Un fenomeno che nel resto d’Europa, al contrario, era stato di un tenore decisamente più moderato: «(…) il filosofo irlandese John Toland … all’inizio del 1700 svolse in diversi paesi europei una intensa propaganda a favore della “nolana filosofia”. (…) Ma la vera rinascita filosofica di Bruno si deve ai tedeschi, a cominciare da Jacobi, che nel 1789, per dimostrare che Gassendi, Descartes e Leibniz avevano preso molte cose da quell’oscuro autore italiano, fece una eccellente esposizione del De la causa. Prima di lui Hamann, in una lettera a Herder del 17 novembre 1782, aveva scritto: “Jordani Bruni principium coincidentiae oppositorum è ai miei occhi più importante di tutta la critica kantiana”. Poi vennero altri, fra cui Schelling, Hegel, Schopenauer e via di seguito. (…) L’edizione in due volumi delle sue opere italiane, curata da Adolf Wagner, zio del musicista, e uscita a Lipsia nel 1830, andò presto esaurita. Si noti che era in lingua originale, non in tedesco!»[2].
In un’Italia neonata e impegnata a rifondare la sua cultura sin dalle radici, fu Francesco De Sanctis, Ministro della Pubblica Istruzione nel 1861-62, a volere con decreto nazionale che fossero pubblicate le opere latine del filosofo, cosa che accadde fra il 1879 ed il 1881[3], ossia poco prima che il lavoro di Ferrari fosse scoperto, quasi a suggello di un atto riparatorio che non doveva restare esclusiva degli ambienti dotti, ma essere dichiarato pubblicamente, al popolo, quello per il quale Giordano Bruno auspicava il riscatto civile. Come è stato ben messo in evidenza da un articolo dello storico Aniello Montano[4], per un filosofo quale Bertrando Spaventa, l’importanza della filosofia di Bruno rientrava in una linea di razionalismo civile e politico d’origine rinascimentale, che legava il Nolano a Spinoza, a Vico e a Hegel; la sua vita stessa ben dimostrava «(…) come a gli uomini di eroico spirito tutte le cose si converteno in bene, e si sanno servire della cattività in frutto di maggior libertade, e l’esser vinto una volta convertiscono in occasione di maggior vittoria»[5]; ma anche, scrive Michele Ciliberto, «Nella prima età moderna Bruno è stato un personaggio al quale si è lungamente guardato con turbamento (…). Forse, proprio perché in quel rogo sembrava raccogliersi in un punto estremo tutto il suo destino, si è addirittura contestato, e da parti diverse, che esso fosse avvenuto – quasi che rimuovendo quella morte si potesse contenere, e distanziare, il carattere radicale della figura del Nolano, cercando al tempo stesso di interpretarla alla luce di posizioni meglio conosciute e meglio individuate, meno ‘oscure’»[6]. Dunque quella statua eretta proprio sul luogo di quel rogo dovette avere l’effetto di uno shock anafilattico sulle menti dei benpensanti e dei conservatori e benché sia d’obbligo parlare di una vera e propria riscoperta del filosofo – particolarmente nel periodo risorgimentale – è bene tener presente che l’interpretazione più verace e profonda di quel suo straordinario edificio di pensiero doveva ancora venire.
Caravaggio: dall’oblio al mito
Tuttavia il seme era gettato e sarebbe progressivamente cresciuto, come dimostrano gli studi recenti; inoltre, quella di Bruno non era l’unica rivalutazione storica nel panorama culturale dell’Italia appena unificata. Sorte simile, infatti, toccava ad un altro personaggio controverso, che con Bruno aveva in comune il temperamento ribelle e l’averlo espresso nell’epoca difficile della Controriforma, quando la Chiesa di Roma aveva ormai abbandonato del tutto – almeno pubblicamente – il carattere mondano e paganeggiante che aveva avuto durante il Rinascimento e, insieme alle altre chiese formatesi in opposizione ad essa, tutte si erano impadronite della vita, della morte, dell’amore, del pensiero di quanti potevano raggiungere, fin con l’ultimo lembo dei loro grevi mantelli, fatti di credenze, superstizioni, avidità, imposizioni e torture. Soprattutto, egli era un altro autore italiano il cui apprezzamento avveniva ancora una volta in prima istanza all’estero, e non casualmente proprio in quell’epoca; era il 1834 (dunque qualche anno dopo l’ondata rivoluzionaria che aveva portato all’elezione di Luigi Filippo d’Orléans), quando nel Salon redatto da Gabriel Laviron comparivano queste parole: «Pendant ce temps-là, un autre homme, d’un caractère aussi tranchant et altier, que celui du Corrège était calme et réfléchi, une âme ardente et toute de feu, le Caravage, en proie a la plus affreuse misère, étudiait avec persévérance les grands maîtres de l’école vénitienne; et puis, quand il eut longtemps comparé leurs plus belles œuvres à la nature, quand il eut médité dans l’isolement sur les différentes manières de la rendre, il parut tout à coup dans le monde avec une peinture à lui, qu’il avait trouvée, qui ne ressemblait à rien de ce qu’on avait fait jusque-là, et qui savait tout reproduire avec le caractère particulier de chaque chose. Ses ouvrages fixèrent puissamment l’attention de toutes les classes de la société, et de celles-là surtout qui d’ordinaire sont le plus indifférentes au succès d’une œuvre d’art. En effet il avait trouvé la peinture du peuple, la peinture qui peut être facilement comprise et jugée de tous, parce qu’elle donne à chaque chose toute la puissance d’expression qu’elle peut avoir dans la nature, et ne sacrifie jamais rien de la vérité entière des objets»[7].
Il realismo contro l’accademia
La contemporanea affermazione del Realismo sia nell’arte (con i soggetti popolari di Courbet e Daumier da un lato ed il colorismo d’ascendenza veneta di Delacroix dall’altro), che nella letteratura (dove prendeva piede la Comedie Humaine celebrata da Balzac con accenti visionari e riportata da Flaubert nell’alveo di un’impressionante intimità borghese), aveva certo costituito il terreno fertile affinché si parlasse del pittore italiano in questi termini. Ma aveva ragione il Laviron ad insistere sul carattere eccezionale del realismo caravaggesco, sulla sua capacità di riprodurre le peculiarità di ciascun soggetto, che fosse cosa o uomo; come aveva ragione nell’apprezzare quel suo rivolgersi – nei contenuti e nell’espressione – ad un’umanità semplice (proprio quella meno interessata al successo di un’opera d’arte!), la quale poteva comprendere immediatamente quella realtà in presa diretta, che la pittura del lombardo non avrebbe mai tradito, offrendola in tutta la sua veridicità. Soprattutto, aveva ragione nel ribadire la novità assoluta costituita dalle opere di Caravaggio nel contesto dell’arte del suo tempo e forse anche di quello moderno: ne era conferma, pur se per via d’ossimori, ogni scrittura critica, ogni biografia, dai tempi del suo arrivo a Roma nel 1595 circa[8] fino alle note secentesche dello Scannelli (e diciamo un nome fra tanti), il quale aveva sempre insistito – un po’ ipocritamente – tanto sullo straordinario uso che il pittore faceva della materia cromatica, quanto sull’inefficacia del suo disegno e della sua capacità di “invenzione” (valeva dire composizione); tanto sulla necessità normativa della «imitazione de’ corpi naturali»[9], in cui Caravaggio era un «mostro», quanto sul fatto che egli fosse però «ignudo di bella idea, gratia, decoro, Architettura, Prospettiva, ed altri simili fondamenti»[10], in una reiterata prospettiva classicistica terminante puntualmente in un giudizio fortemente tranchant, che lo dichiarava irrimediabilmente «inferiore, ed imperfetto»[11] rispetto a qualunque buon esecutore di quei medesimi principi.
La critica d’arte italiana ottocentesca non aveva dedicato a Caravaggio più che una citazione fugace nella Storia pittorica pubblicata da Luigi Lanzi nel 1809, dove al pittore era riconosciuto il merito di aver spezzato la maniera dei languidi imitatori classicisti con una pennellata più vigorosa, si, ma ahimè negativamente influente sui contemporanei e conterranei, che avevano cominciato a divenire «rozzi e tenebrosi»[12]. Cominciò nuovamente ad esprimersi intorno al 1881 con la voce di A. Bertolotti[13], il quale pubblicò alcune importanti testimonianze documentarie, ricavandone però un ritratto fosco e ribaldo, che peserà moltissimo sulla penetrazione effettiva della portata artistica del Merisi, mentre ancora incerta era la cognizione sulle attribuzioni delle opere che a mano a mano emergevano dalle collezioni e dal mercato. Utili precisazioni giunsero finalmente con gli scritti di Adolfo Venturi, in particolare a partire dal libretto dedicato alla Galleria Borghese[14]. Egli, che nel 1888 era stato nominato Direttore delle Antichità e Belle Arti presso il Ministero della Pubblica Istruzione, fondò un nuovo approccio storicistico e interpretativo all’arte italiana, che permise di rileggere il patrimonio delle collezioni nazionali ricostruendo il contesto entro cui erano nate; con lui Caravaggio cominciò a divenire il genio di quel plasticismo luminoso attraverso cui gli oggetti facevano piazza pulita del disegno decorativo dei maestri precedenti.
La sostanza della modernità
Un sovversivo, dunque; come Bruno lo era stato in campo filosofico. Entrambi i nostri autori – e non entriamo troppo nello specifico della loro produzione[15] – si erano macchiati del «peccato di novità»[16]. Tale “peccato”, se pure aveva costituto il fardello delle loro esistenze, li aveva traghettati verso la modernità, di cui erano stati autentici e oracolari protagonisti. Bruno possedeva una visione copernicana aperta alla concezione dell’infinità dei mondi; Caravaggio operava uno sperimentalismo antidogmatico, dissacratore di ogni idealizzazione: tutti e due si presentavano quali demistificatori della visione antropocentrica rinascimentale, ostinatamente racchiusa in uno spazio euclideo che, se poteva funzionare per la geometria di orizzonti limitati, molto meno si adattava alla dimensionalità di un infinito che si proiettava tanto nell’universo quanto nell’interiorità degli esseri umani, lungo la sottile, vibrante linea di confine tra la realtà e la sua interpretazione, tra la materia della vita e quella dell’immaginazione.
Erano, i due, fondatori di un pensiero nuovo e di una nuova estetica, che avrebbe avuto possibilità di svolgersi solo a partire dal XIX secolo e che viene esplicitata chiaramente nelle parole pronunciate dal filosofo negli Eroici furori: «(…) la poesia non nasce da le regole, se non per leggerissimo accidente; ma le regole derivano da le poesie: e però tanti son geni e specie de vere regole, quanti son geni e specie de veri poeti»[17]; e nell’Epistola dedicatoria all’imperatore Rodolfo II, inserita negli Articuli centum et sexaginta adversus huius tempestatis mathematicos atque philosophos, il filosofo si dichiara: «(…) desideroso della sola compagnia di quelli i quali comandano non già di chiudere ma di aprire gli occhi. A me non piace dissimulare la verità che veggo, né ho timore di professarla apertamente»[18]. Principi, questi, che potevano trovare affinità con le ammissioni pronunciate dal Merisi e registrate negli atti del processo a lui intentato dal pittore e biografo Giovanni Baglione: « L’essercizio mio è di pittore […] io credo cognoscere quasi tutti li pittori di Roma et cominciando dalli valent’huomini io cognosco Gioseffe, il Caraccio, il Zucchero, il Pomarancio, il Gentileschi, Prospero, Giovanni Andrea, Giovanni Baglione, Gismondo et Giorgio Todesco, il Tempesta et altri. […] Quasi tutti li pittori che io ho nominati di sopra sono miei amici, ma non sono tutti valent’huomini. […] Quella parola valent’huomo appresso di me vuol dire che […] sappi depinger bene et imitar le cose naturali […] »[19].
Se è esistito un binomio lessicale in grado di allacciare questi due grandi, Merisi e Bruno, durante il secolo della loro riconsiderazione, esso è compreso nei termini “natura” e “realtà” (cui si connette la verità che da queste può emergere), almeno quali istanze di partenza; è quanto ce li può far amare ancora oggi. E non è peregrino far partire da qui l’incontro ideale fra i due autori: nel linguaggio – pittorico nell’uno, poetico-filosofico nell’altro – e con esso, entrambi operarono la loro rivoluzione, forse prima ancora che nei contenuti. In arte, si sa, la forma è sostanza e per il pensiero di Bruno credo possa dirsi altrettanto.
Per specificare un po’ meglio, possiamo considerare che lungo il corso del Cinquecento e a cavallo del secolo successivo, una vasta produzione accademica, rigidamente suddivisa in generi, aveva preso posto di fronte ad un vasto pubblico. La accompagnava un sapere canonico di forte ascendenza aristotelica e biblica, che commentava (e censurava) scrupolosamente i prodotti artistico-letterari. Non era inusuale che spesso questi finissero con l’essere quasi tavole espositive e dimostrative di concetti preordinati, i quali stringevano la realtà nella dicotomia esistente tra la natura ed il suo ideale, tra il creato ed il suo creatore, che prendeva su di sé l’intero senso dell’esistente. L’arte si proponeva quale operazione morale, doveva rappresentare esclusivamente il buono e il bello, il giovevole; la cultura figurativa e filosofica del tempo (fatte le dovute eccezioni) oscillava tra classicismo e visioni edificanti, che accendevano rituali di fede e cultura, mentre una folla umana brulicante, da cui non sempre fortunatamente gli artisti e gli intellettuali prendevano le distanze, rimaneva in bilico sui margini incomprensibili o incommensurabili di una realtà – fisica e ontologica – che si andava allargando e rivelando, scardinando le idee di un’umanità tolemaica, che su di sè e sul mondo aveva uno sguardo cieco.
In questo contesto, la filosofia della natura costituiva un’avanguardia. Era condotta da uomini che, come Giordano Bruno, vivevano vite trasversali fra le accademie, le università e la strada, non avevano alcuna voglia di adattarsi a ripetere schemi desueti, né di restare nei lussuosi gabinetti di ricerca allestiti presso alcuni ricchi mecenati, dove pure le loro scoperte e intuizioni trovavano accoglienza, restandovi però intrappolate come in un gioco elitario, che infine le negava. Per il Nolano, il vero era l’unica cosa da perseguire e diffondere: egli rifiutava gli strumenti tradizionali dell’esposizione concettuale a favore di quanto potevano offrirgli la letteratura e la poesia, in grado di esprimere tanto le idee, quanto l’impeto che le aveva viste nascere e che di quelle idee era parte fondante[20]; e tutto imparava dalla natura, la cui prima grande lezione era stata impartita al filosofo ancora adolescente. Mescolando reminiscenza e metafora, è lui a raccontarci della sorpresa nel constatare come il Vesuvio, brullo e cupo se visto dal natio monte Cicada, apparisse rigoglioso e verdeggiante percorrendone i fianchi[21]; così aveva appreso quanto ingannevoli fossero i sensi, sovvertibili le percezioni e necessaria una più profonda e sperimentata visione delle cose. Una convinzione cui seguiva una dichiarazione di principio come quella che possiamo leggere nell’Epistola esplicatoria premessa allo Spaccio de la bestia trionfante e che val la pena di riportare: «(…) Qua Giordano parla per volgare, nomina liberamente, dona il proprio nome a chi la natura dona il proprio essere; non dice vergognoso quel che fa degno la natura; non cuopre quel ch’ella mostra aperto; chiama il pane, pane; il vino, vino; il capo, capo; il piede, piede; ed altre parti, di proprio nome; dice il mangiare, mangiare; il dormire, dormire; il bere, bere; e cossí gli altri atti naturali significa con proprio titolo»[22].
Linguaggio, filosofia, pittura
Dare il nome alle cose o chiamarle letteralmente, senza pudore e contro il cosiddetto decoro, era per Giordano Bruno un’operazione linguistica apparentemente tautologica, ma profondamente innovatrice. Infatti, la tradizione espressiva accademica, che si trovava comunemente negli scritti più noti e passati incolumi sotto le forbici dell’Indice[23], usava il linguaggio in maniera adulterata e distorta, menzognera. Se parlava d’amore, reiterava formule vuote: un petrarchismo d’accatto che in nulla restituiva l’identità delle persone. Se parlava del mistero del mondo e dell’uomo, il linguaggio era uno strumento di conservazione del potere: tutte le scritture sacre altro non erano che parole usate per non dire il vero, anzi, per dire il suo opposto.
Ma quanto più le parole riacquistano il loro significato, tanto più esse erompono con le loro virtù di creazione e di finzione: una finzione positiva, che trova negli espedienti letterari sia la prudente dissimulazione, che la potenza del simbolo e dell’immagine, in grado di portare la comprensione oltre la cruda apparenza, per rivelare l’invisibile sostanza che pervade tutto ciò che vive, indifferentemente. La metafora: la parola e il suo doppio sono il frutto di una trasformazione compiuta dalla mente, sono la sua intelligenza, e il nocciolo dell’utopia della metamorfosi del mondo insano in quello liberato dall’ignoranza; la metafora bruniana, insieme alla distruzione che egli opera sul linguaggio dei pedanti e degli accademici, non serve tanto a convincere, persuadere o indurre alla reiterazione di un preconcetto. Essa nasce da dentro, secondo il naturale moto della fantasia, che si mette in atto quale umana potenza originaria. Pensare per immagini è la peculiarità degli esseri umani e il primo vocabolario iconico lo offre la natura. Nel mondo utopico/concreto preconizzato dal filosofo, dove esistono gli enti e non le essenze[24], ciascuno opererà secondo le proprie capacità, perché l’uomo stesso fa parte di questa sostanza infinita, anzi, ne è specchio vivente.
L’umanità all’ombra dell’infinito
Se il nostro sguardo mentale si lascia sedurre dalle ombre significanti del filosofo, un naturalismo pittorico come quello di Caravaggio ci sembra perseguire propositi perlomeno accostabili. Nelle poche dichiarazioni che di lui ci sono giunte, ma soprattutto in quelle dei suoi contemporanei – della cui malevolenza non dubitiamo: ma anche quella è tutta da interpretare, se non altro perché attesta l’effetto suscitato dalla pittura del lombardo – l’esigenza di presa dal vero, l’ostinazione ad avere quale unica maestra la natura, viene perseguita dal pittore a dispetto di ogni critica e di ogni accusa di imperizia nel disegno. Agli occhi della pubblica opinione le sue scelte stilistiche creavano “schiamazzo”; i pittori togati manifestavano addirittura sdegno; nei cultori d’arte, scatenavano un’ammirazione viscerale e talvolta ossessiva.
Ma per noi moderni, resta una folgorazione quel ritorno del mondo degli uomini, nelle tele del Caravaggio come nelle pagine del Nolano. Colpisce la deflagrazione dello spazio rinascimentale e prospettico sotto i colpi di pennello che stendono un fondo d’ombra dietro e attorno alle figure dipinte, eliminando d’un colpo la sistemazione gerarchica dei soggetti, che nei quadri del Merisi veramente appartengono e derivano da un’unica sostanza. E, c’è da dire, in maniera completamente diversa rispetto ad altri pittori notturni, anche precedenti. Esempio eclatante può essere un confronto tra le più famose tele caravaggesche e la famosa Notte che il già citato Correggio realizzò nel 1522 per la cappella Pratonieri, nella chiesa di S. Prospero a Reggio Emilia: qui, in una scena di “adorazione del Bambino”, veramente ardita appare l’invenzione di una fonte luminosa che s’irradia dal corpo stesso del neonato, bruciando di riverberi i volti degli astanti più vicini; tuttavia, è la mistica dell’immagine a prevalere. Niente di più lontano dai coni luminosi e multicentrici del Caravaggio, che mettono in risalto volti, mani, e piedi che non son altro che piedi (sarebbero piaciuti a Bruno, se avesse potuto vederli?), anzi, dei più malconci, come li può rendere la povertà ed il lungo camminare e che tanto offesero l’ansia di decoro dei benpensanti.
Era un «imitare le cose naturali», certo, ma “imitare” non è sinonimo di pedissequa riproduzione, bensì passaggio dalla realtà alla verità: quanto normalmente – sebbene talvolta inespresso – rimane incollato alle nostre esistenze, ossia quel modo di guardare la realtà che ci circonda, o che possediamo dentro, operando la magia dell’immagine, che altro non è che ricerca di significato.
Immagini e significato
È chiaro che non siamo di fronte ad un professionista del più puro realismo, della pura forma fissata per sempre in un paradigma (quella appartiene al classicismo), e ci accorgiamo che Caravaggio fa scorrere nella sua natura ritratta una linfa vitale non consueta. La realtà e la verità della vita nei suoi quadri trovano affrancamento dall’accidente e sono riportate entro una dimensione artistica – perciò universale – possibile e praticabile. Un artificio empirico – l’utilizzo di specchi e di una camera oscura pittorica, forse trovati nel gabinetto sperimentale del suo primo, grande committente romano, il cardinale Francesco Maria Bourbon Del Monte – rivela a Caravaggio che l’immagine riflessa è altra cosa rispetto all’originale: su quella superficie, che inverte i profili delle cose, accade la magia dell’emblema; quegli stessi profili, quelle stesse sembianze potranno contenere e svelare altra o più profonda esistenza (il significato che l’artista vi impone o che appare al suo occhio veggente).
C’è una invisibilità delle cose che i sensi non possono percepire, e che non è assunto teologico. Per coglierla era necessario che l’umanità iniziasse quello che Salvatore Natoli ha chiamato il processo della secolarizzazione, ossia l’autoaffermazione dell’io e l’immanentizzazione di dio[25]. Giordano Bruno procedette oltre. La battaglia contro la metafisica, l’ente astratto e la sua pretesa di affermarsi come verità logico-verbale fu condotta con gli strumenti che i tempi gli offrirono e rispetto ai quali fu troppo in anticipo. Opera analoga fu intrapresa da Caravaggio nel campo dell’arte: da pittore e non da dotto; la conquista della fama non gli evitò che l’epoca fosse rapace anche con lui, che aveva scardinato l’idea platonica del bello ideale (e dal platonismo si distaccò anche Bruno), preferendogli la costruzione di volumi franti dalle ombre, dove il naturalismo stesso non è documento, perché viene travalicato dall’invenzione e si sottrae al moralismo. Davvero entrambi furono poeti del Moderno, della bellezza antinomica. Amando la realtà, dettero materia all’invisibile.
Anna Maria Panzera
A.M. Panzera, Caravaggio, Giordano Bruno e l’invisibile natura delle cose, Roma, L’asino d’oro edizioni, 2011
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NOTE:
[1] G.B. Vico (1744³), Principj di scienza nuova d’intorno alla comune natura delle nazioni, in questa terza impressione. Dal medesimo autore in un gran numero di luoghi. Corretta, Schiarita e notabilmente Accresciuta, in G.B. Vico, Opere, a cura di P. Rossi, Rizzoli, Milano 1959.
[2] A. Verrecchia, Giordano Bruno. Nacthfalter des Geistes, Böhlau Verlag, Wien.Köln-Weimar 1999. Edizione italiana: Giordano Bruno. La falena dello spirito, Donzelli, Roma 2002, pp. IX-X.
[3] Cfr. Giordano Bruno nella cultura mediterranea e siciliana dal ‘600 al nostro tempo, Atti della giornata nazionale di studi, Villa Zito, Palermo, 1 mazo 2008, a cura di A. Samonà, Officina di Studi Medievali, Palermo 2009, p. 12
[4] A. Montano, “Le parole che hanno fatto l’Italia” – Le radici culturali dell’Unità d’Italia, in Altritaliani.net, 27 dicembre 2011 (https://altritaliani.net/article-150-le-radici-culturali-dell-unita/)
[5] G. Bruno (1585), De gli eroici Furori, seconda parte, dialogo I, in Dialoghi italiani, II, Dialoghi morali, Nuovamente ristampati con le note di G. Gentile, terza edizione a cura di G. Aquilecchia, Sansoni, Firenze 1985², p. 65 nell’edizione on line http://www.liberliber.it/mediateca/libri/b/bruno/de_gli_eroici_furori/pdf/de_gli_p.pdf.
[6] M. Ciliberto, Giordano Bruno tra mito e storia, conferenza tenuta a “Villa I Tatti”, 12 dicembre 1996, in I Tatti Studies, Essay in the Renaissance, 7 (1997), pp. 175-190; pubblicato in internet su www.jstor.org/stable/4603704, p. 180.
[7] G. Laviron, Le Salon de 1834, Imprimerie de Ducessois, Paris 1834, pp. 19-20. Anche in F. Bologna, L’Incredulità del Caravaggio, Bollati Boringhieri, Torino 2006² p. 356.
[8] F. Curti, Sugli esordi di Caravaggio a Roma. La bottega di Lorenzo Carli e il suo inventario, in Caravaggio a Roma. Una vita dal vero, a cura di O. Verdi e M. Di Sivo, De Luca Editore, Roma 2011, pp. 65-72.
[9] F. Scannelli, Il microcosmo della pittura, Neri, Cesena 1657, p. 51.
[10] Ivi, p. 52.
[11] Ibidem.
[12] L. Lanzi, Storia pittorica della Italia dal Risorgimento delle Belle Arti fin presso al fine del XVIII secolo, Tomo IV, Remondini e Figli, Bassano 1809³, p. 144.
[13] A. Bertolotti, Artisti lombardi a Roma nei secoli XV, XVI e XVII. Studi e ricerche negli archivi romani, Hoepli, Milano 1881.
[14] A. Venturi, Il Museo e la Galleria Borghese, “Collezione Edelweiss”, IV, Roma 1893.
[15] Si rimanda a A.M. Panzera, Caravaggio, Giordano Bruno e l’invisibile natura delle cose, L’Asino d’oro edizioni, Roma 2011.
[16] Espressione coniata da G. Paleotti (1581), Discorso intorno alle imagini sacre e profane. Diviso in cinque libri, dove si scuoprono varii abusi loro e si dichiara il vero modo che cristianamente si doverìa osservare nel porle nelle chiese, case et in ogni altro luogo, in Trattati d’Arte del Cinquecento, vol. II, a cura di P. Barocchi, Laterza, Bari 1961, p. 119; testo digitalizzato a cura di Fondazione Memofonte, Studio per l’elaborazione informatica delle fonti storico-artistiche, www.memofonte.it
[17] G. Bruno (1585), De gli eroici Furori, cit., p. 16.
[18] In Vita di Giordano Bruno da Nola scritta da D. Berti, G.D Paravia e Comp., Firenze-Torino-Milano 1868, pp. 223-224.
[19] Trascrizione a cura di M. Di Sivo in, Caravaggio a Roma. Una vita dal vero, cit, pp. 102-103.
[20] Cfr. G. Barberi Squarotti, Parodia e pensiero: Giordano Bruno, Greco e Greco Editori, Milano 1997, p. 11 e ss. Cfr. anche L. Di Paolo – P. Traverso – A. Antonini, Un’originale adattamento del “Candelaio” di Giordano Bruno, su Altritaliani.net, 15 ottobre 2011 (https://altritaliani.net/article-un-originale-adattamento-del/).
[21] G. Bruno (1591), De innumerabilibus, immenso et infigurabili, libro III, cap.1, in Poemi filosofici latini (ristampa anastatica delle cinquecentine), a cura di E. Canone, Agorà, La Spezia 2000.
[22] G. Bruno (1584), Spaccio de la bestia trionfante, in Dialoghi italiani, cit., p. 5 nell’edizione digitale http://www.liberliber.it/mediateca/libri/b/bruno/spaccio_de_la_bestia_trionfante/pdf/spacci_p.pdf
[23] Index librorum prohibitorum (1558), a cura della “Congregazione della sacra romana e universale Inquisizione”, pubblicato sotto il pontificato di Paolo IV.
[24] Cfr. E. Canone, Il dorso e il grembo dell’eterno. Percorsi della filosofia di Giordano Bruno, “Bruniana & Campanelliana. Ricerche filosofiche e materiali storico-testuali”, Supplementi-Studi, 4, Istituti Editoriali e Poligrafici Internazionali, Pisa-Roma 2003, p. X.
[25] S. Natoli, La salvezza senza fede, p. 37 e ss.