Orso d’oro a Paolo e Vittorio Taviani con « Cesare deve morire » che riporta il cinema italiano dopo 21 anni al vertice del festival berlinese. Quattro anni di lavoro e ricerca per il docu-film: « Diaz. Non pulire questo sangue » di Daniele Vicari, che racconta le drammatiche vicende del G8 di Genova del Luglio 2001.
I fratelli Paolo e Vittorio Taviani, visibilmente commossi, hanno ritirato l’Orso d’Oro della 62/ma edizione del Festival di Berlino dalle mani del presidente della giuria Mike Leigh, con un abbraccio del direttore Dieter Kosslick, dopo che il loro film “Cesare deve morire”, prodotto da Rai Cinema e distribuito dalla Sacher Film di Nanni Moretti, ha riscosso il plauso dei giurati, del pubblico e della critica.
Un altro riconoscimento, il premio del pubblico, è andato anche al film di Daniele Vicari “Diaz, non pulire questo sangue”, presentato nella sezione Panorama.
Due film così diversi, ma così forti, hanno fatto volare alto il cinema italiano sul suolo tedesco. E il cielo sopra Berlino si è tinto, ancora una volta, d’azzurro. Erano 21 anni che l’Italia non conquistava questo ambito riconoscimento. L’ultima volta era stato nel 1991 con “La casa del sorriso” del compianto Marco Ferreri.
Il cinema dei Taviani è sempre stato molto apprezzato all’estero. Le loro opere, innegabilmente sono sempre state un messaggio di impegno e di cultura. All’interno della rassegna berlinese, il loro lungometraggio era l’unico italiano in concorso; eppure fin dalla prima proiezione ha suscitato una serie di emozioni tra i critici e il pubblico che in breve tempo è circolato un veloce “passaparola” per non perdere questa trasposizione della tragedia più conosciuta di Shakespeare, “Giulio Cesare”, interpretata dai detenuti nella sezione di massima sicurezza del carcere di Rebibbia. Nel docufilm vi è la preparazione della messa in scena della tragedia, sotto la supervisione del regista teatrale Fabio Cavalli (che da anni lavora nel carcere e ispiratore del progetto) con la scelta dei protagonisti, e la distribuzione dei ruoli, tutta mostrata in un forte bianco e nero, che fa assumere più ruvidezza e realtà alla messa in opera. Ciò che rende ancora più interessante la pellicola, è che le parole del Bardo vengono recitate nel dialetto d’origine dei detenuti, e questo da ancor di più il tono di realismo e l’immedesimazione dell’attore al personaggio. E gli attori, hanno vissuto intensamente questa partecipazione e, come ha detto ieri Vittorio Taviani ricevendo il premio: «Grazie alle parole sublimi di Shakespeare, questi detenuti sono tornati alla vita e a loro va il nostro saluto».
Il film di Daniele Vicari, invece, “Diaz. Non pulire questo sangue”, co-produzione italo- franco-rumena (per l’Italia ha contribuito la Fandango di Domenico Procacci), è un film duro, un vero pugno allo stomaco che, fatti alla mano (basato sulle oltre diecimila pagine degli atti processuali, con un lavoro di preparazione durato 4 anni) tenta di raccontare cosa è avvenuto quella sera del 13 luglio a Genova, dentro la scuola elementare Diaz mentre era in corso il summit G8 (“The Summit” è anche il titolo di un documentario, sempre inerente alla stessa vicenda, realizzato da Franco Fracassi presentato anche questo nella sezione Panorama).
Erano trascorse da poco le ore delle scorribande dei Black-Block, e la morte di Carlo Giuliani che i poliziotti fanno irruzione nell’edificio dove alloggiavano giovani, anziani, reporters, bloggers che seguivano l’evento. Il motivo è il sospetto che tra loro vi sia un gruppo di anarchici probabili autori di attentati di guerriglia con bombe molotv, alcune di esse poi sono state goffamente “fatte ritrovare” per giustificare l’irruzione.
Il film, corale, viene raccontato dal punto di vista di alcuni dei presenti: un giornalista (Elio Germano), alcuni manifestanti pacifici, e un vice questore aggiunto del reparto mobile di Roma (Claudio Santamaria). Il regista Vicari, che ha sentito alle proiezioni in sala la partecipazione del pubblico – c’era anche chi era presente in quei giorni a Genova – ha ribadito quanto è stato scritto in epigrafe sul cartellone del film: a Genova si è vissuta “La più grave sospensione dei diritti democratici in un Paese occidentale dopo la Seconda Guerra Mondiale”.
Andrea Curcione