L’emblematica e controversa figura di Francesco II, ultimo re dei Borboni, è esemplare di quella decadenza del sud Italia che aprì le porte ai Savoia e alla definitiva unità d’Italia. Anche da lì ha origine l’ancora irrisolta forte distanza tra il Nord e il nostro Mezzogiorno.
Un contributo di Renata De Lorenzo, docente di storia contemporanea – Università Federico II di Napoli.
Nell’ultimo giro per Napoli, in carrozza scoperta, a fianco di Maria Sofia, Francesco II tocca con mano i primi effetti dell’imminente cambiamento di regime. Prevale tra la gente una certa indifferenza, espressa in qualche cenno di saluto, senza manifestazioni né di ostilità né di favore, ma già le insegne dei gigli borbonici sono rimosse e compaiono nei caffè le bandiere con la croce dei Savoia. Il sovrano parte da Napoli lasciando il tesoro dello Stato e i suoi depositi personali.
E’ questa la percezione finale, sotto tono in cui l’antagonista del re è una struttura di relazioni sociali e politiche, che si confronta con la dimensione dell’individuo. Le dinamiche nella fase cruciale 1859-60 (II guerra d’indipendenza, spedizione dei Mille, crollo del Regno delle Due Sicilie) interagiscono su piani molteplici e coesistenti, manifesti o latenti: la patologia psicologica del re che condiziona il rapporto interpersonale e le modalità della politica; il contrasto intra e intergruppi, borbonici e liberali; i rapporti politici nazionali e internazionali.
1. La dimensione dell’individuo: patologia e crisi dinastica
Il conflitto interpersonale si precisa nel rapporto con parenti, amici, collaboratori, nemici, sullo sfondo della macrodimensione della guerra.
Subentrato a Ferdinando II il 22 maggio 1859, a 23 anni, mentre il paese ancora gode di un certo credito internazionale presso le cancellerie europee che ne legittima la continuità dinastica e avalla il matrimonio con Maria Sofia, Francesco II si trova a capo di un regno minato dall’isolamento cui lo aveva relegato il padre dopo il congresso di Parigi del 1856.
Meno intelligente del genitore, sia per carattere che per inesperienza, non è l’uomo idoneo per la difficile situazione del momento. La crisi non è solo congiunturale, ha radici profonde sì che anche un altro sovrano, con diverso carattere, difficilmente avrebbe salvato il regno. A ciò si aggiunge l’immagine del re imbelle, creata innanzitutto dalla famiglia, dagli zii Luigi, conte d’Aquila e Leopoldo conte di Siracusa; quest’ultimo, di idee filoliberali, ha inutilmente spinto il nipote a sottrarsi alla camarilla di corte, mutando politica. Intrighi della Polizia hanno tentato del resto di far dichiarare erede al trono il fratellastro Luigi, conte di Trani. Diffusa è l’ ironia sulle sue manie religiose, sulle modalità bigotte e superstiziose di vivere l’educazione cattolica e il ricordo della madre, la «Reginella santa», Maria Cristina di Savoia. Nocivo è anche l’ affettuoso ma equivoco soprannome «Lasa», diminuitivo di «Lasagna» (per la predilezione per il piatto o per il suo colorito pallido), datogli dal padre, uomo dalla personalità prepotente, invadente e oppressiva. L’epiteto di «Franceschiello» sintetizza la scarsa presenza dell’individuo. Insicurezze e assenze, legate ad un carattere abulico, che al contrario si esprimono nelle lettere private in sfoghi violenti.
Diviso fra il partito di corte, facente capo alla matrigna, Maria Teresa, a personaggi del mondo ecclesiastico e militare, e quello riformista della moglie, di Carlo Filangieri e del principe Leopoldo, il nuovo sovrano finisce per adagiarsi in un immobile conservatorismo. Ben presto elimina ogni ipotesi di conflittualità: condizionato dagli ambienti conservatori, dalla sfiducia verso la monarchia dei moderati, sia esuli che rimasti nel paese, si dichiara neutrale nel conflitto scoppiato contro l’Austria, nonostante le pressioni di Napoleone III perché intraprenda una politica di riforme, dia una Costituzione e si allei col Piemonte.
Il matrimonio non felice con la diciottenne Maria Sofia di Baviera,da lui molto diversa per fascino personale e carattere, finisce anch’esso per evidenziare un ruolo marginale e «debole» della componente maschile nella coppia. La donna è esuberante, allegra, sportiva, Francesco è indifferente a qualsiasi esercizio fisico, taciturno e depresso, cattolico bigotto. A Gaeta, ella svolgerà un consapevole ruolo da regina che perpetuerà con determinazione anche dopo la fine del regno.
Quando Francesco d’altra parte ha potuto confrontare i propri conflitti interni con i conflitti della quotidianità della politica secondo un iter che plasma le personalità e consente di affrontare i momenti nevralgici? Le circostanze e i tempi dell’ avvento al trono, al di là di una certa indecisione strutturale, non gli hanno consentito di imparare ad essere re, di conoscere meglio i collaboratori, di mettere a frutto la tendenza ad agire con scrupolo e cura dei particolari che pure non gli è estranea.
Nella caotica e complessa battaglia politica in cui è quasi catapultato (la guerra in Italia, lo sbarco dei Mille a Marsala l’11 maggio 1860, l’avanzata di Garibaldi prima in Sicilia e poi sul continente, i liberali regnicoli che aprono la strada ai garibaldini e all’esercito sabaudo proveniente dal nord, fino alla caduta del regno), ben presto si rende conto, anche se con difficoltà, che gli eventi in corso sono la punta di iceberg di antiche e nuove conflittualità, che si ripropongono con forza nel momento del crollo dello Stato.
Su di essi si configura la costruzione di una regalità-santità, secondo la profezia di padre Borrelli, ricordata allo stesso da Francesco II appena sbarcato a Gaeta: «Se Vostra Maestà non è stato un gran re in terra, sarà un gran santo in cielo». Come può con la sua impostazione religiosa essere deciso, violento, anche magari crudele verso i nemici, pur nella consapevolezza di dover difendere il regno da avversari senza scrupoli? Quale messaggio conflittuale trasmettono quei proclami ai soldati, frequenti lungo tutta la fase critica del 1859-60, in cui l’aspetto umanitario rischia di snaturare il clima di guerra, l’incitamento alla lotta? Il 5 settembre, prima della partenza per la cittadella, il proclama si segnala per «il tono di alta retorica, di profonda commozione e sincera pietà che si ritrova negli scritti di Gaeta», col quel rivendicare il dovere regale, denunziare l’ingiustizia della guerra in atto e l’invasione, preoccuparsi della salvezza degli abitanti, di monumenti e oggetti d’arte, raccomandare di evitare i disastri della guerra civile, ricordare l’antichità della dinastia, con un finale messaggio di pace.
Il 30 settembre 1860, prima della battaglia del Volturno, si rammenta ai soldati che «il coraggio e il valore degenerano in brutalità e ferocia quando non siano accompagnati dalla virtù e dal sentimento religioso». L’8 dicembre, nel Proclama ai Popoli delle Due Sicilie, sorvola su tradimenti, usurpazioni, calunnie e prospetta un riscatto basato sull’ amore per il suo popolo, da sottrarre a un eventuale dominio straniero, col tono del padre pronto a sacrificare la vita e il trono per non versare il sangue dei sudditi. È costante il richiamo al rispetto dei vinti, individui e loro cose per salvaguardare il decoro e l’onore dell’esercito napoletano.
Nemmeno il tradimento, tema doloroso su cui torna spessissimo, riesce a sollecitare un desiderio di vendetta, una rivalsa terrena. Condannabile in sé, sarà punito soprattutto da un Dio cui compete la restaurazione della giustizia nel mondo, con la cacciata di atei, repubblicani e settari.
La concessione della Costituzione, l’amnistia, aver consentito il rientro degli esuli, aver dato nuove istituzioni alla Sicilia, aver cercato la collaborazione dei migliori, lavorato con zelo alle riforme, al progresso del paese sono meriti che le circostanze hanno snaturato e reso inefficaci. Tanto più rimane forte il messaggio morale.
L’attenzione, nonostante le cospirazioni continue, a non voler versare sangue (preferisce lasciare Napoli per non farla bombardare come accade a Capua e Ancona), che gli era valsa l’accusa di debolezza, consente di trasformare il conflitto /offesa in vanto, sulla base di un messaggio di amore per i sudditi, di onestà per i giovani. Doppio invece il re piemontese che prima assicurava di non approvare l’iniziativa garibaldina, poi aveva stretto patti che consentivano un’invasione fatta senza motivi e senza dichiarazione di guerra.
2. Le dinamiche conflittuali dei gruppi e il rapporto con la dinastia
Molti esuli esultano alla morte di Ferdinando II. «Nel maggio del 1859, Grazia Mancini salutava nel suo Diario … ‘E’ morto Ferdinando Secondo …ultimo tiranno’». È un implicito giudizio sulla natura differente del nuovo re? No, in quanto la giovane donna auspica e prevede il crollo del regno, la sollevazione del popolo prima ancora che «il figlio ne venga scacciato per sempre».
La situazione politica del 1860 li riporta a Napoli. Il dissidio tra esuli e rimasti in patria circa la partecipazione del regno alla guerra d’indipendenza, vede i primi, tipo Massari e Scialoia, favorevoli ad un impegno bellico accanto al Piemonte, i secondi (tipo Gaetano Tevisani) più cauti e più interessati alle riforme interne, da attuarsi col governo di Francesco II, non privo di persone capaci. La speranza nel re appena salito al trono coinvolgono Enrico Pessina, ma non il suocero Luigi Settembrini, esule a Londra. Carlo Poerio esclude che egli si possa farsi portatore di riforme, sia per la frattura, il clima di sospetto che la dinastia e il governo borbonici avevano creato col paese, sia perché egli era stato educato a considerare i liberali come nemici. Con lui il conflitto è inevitabile e insanabile.
I vincoli strutturali e i contatti mantenuti negli anni post-1848 tra esuli e mondo moderato e liberale rimasto nel paese, l’identità culturale comune, non escludono quindi diversità fra i gruppi che esplodono di fronte alle possibili opzioni politiche della fase 1859-1860. La presa di coscienza diventa mobilitazione, in bilico tra conflitto latente e scontro aperto; diversi sono ormai gli scopi degli attori, i loro bisogni di autorealizzazione, non sempre compatibili col permanere della dinastia.
Ė su questo tema che si dividono quindi non solo borbonici e «liberali», fedeli e «traditori», ma anche il partito liberale napoletano, debole, disorganizzato. Coloro che, spesso qualificati esponenti della classe dirigente napoletana, non intendono perdere la specificità del regno, pensano solo «molto vagamente» all’unità, volendo salvare l’eredità giuridico- amministrativa dello Stato borbonico.
La tardiva concessione della Costituzione, il 25 giugno 1860, l’amnistia per i reati politici, disorientano i sostenitori della dinastia e spingono gli emigrati cavouriani, come Poerio e Spaventa, a premere su di essi cercando di fare il vuoto attorno al re e di distruggere ogni possibilità di consolidamento del regime costituzionale. Quelli che, rimasti, hanno subito il dispotismo borbonico, si lasciano coinvolgere in quanto si aspettano dal mutamento politico precisi vantaggi.
La dinastia non ha in settembre-ottobre 1860 l’appoggio che sarebbe stato necessario dinanzi alle grandi potenze europee, ma la classe dirigente meridionale, che finisce per concentrarsi solo sulla sua caduta, attribuendo a questo evento la rigenerazione non solo morale, ma anche politica del paese, grazie all’unità nazionale, porta avanti modalità conflittuali comunque perdenti; essa viene infatti per questo idolo polemico distolta da altre questioni e, disorientata, si trova impreparata nel formulare un programma politico sulle modalità di inserimento del Mezzogiorno nello Stato unitario, basato sul riassetto del regno sotto il profilo giuridico, economico, amministrativo.
3. Il tradimento, ovvero il conflitto sulle norme e sul loro rispetto
La guerra del 1859 richiama Napoli al centro della diplomazia. Ambasciatori ed inviati straordinari, giunti per i funerali di Ferdinando II, cercano di condizionare il nuovo re. La vittoria di Magenta del 4 giugno 1860, che consentiva ai francopiemontesi l’accesso alla Lombardia, viene festeggiata a Napoli il 7 giugno dai liberali con conseguenti arresti. Si delineano nuovi conflitti, per i tentativi di rispondere al mutato quadro politico, ma densi di strascichi de passato.
Il re, deciso nel voler controllare direttamente la vita dello Stato, ama infatti circondarsi di uomini «vecchi», non solo anagraficamente, ma in quanto incapaci di elaborare una politica nuova. Difficile è infatti il rapporto col nuovo presidente del consiglio e ministro della guerra, il generale Filangieri, murattiano sostenitore della monarchia amministrativa di impostazione napoleonica, le cui ripetute dimissioni sono sempre respinte, fino al 31 gennaio 1860. Solo il 15 marzo 1860 il re si decide a nominare il nuovo ministero presieduto da A. Statella, principe del Cassaro, vecchio diplomatico, con il Carafa agli Esteri e il settantasettenne F. A. Winspeare alla Guerra.
Di antica data – si pensi all’atteggiamento autonomista delle vicende rivoluzionarie del 1820-21 e del 1848-49 – è anche la conflittualità con la Sicilia. Qui nobili e borghesi liberali, ma anche gli autonomisti, di ogni ceto sociale, danno luogo ad insurrezioni che precedono e accompagnarono la spedizione dei Mille. Eppure nel 1859 la maggior parte degli ufficiali e dei funzionari è fedele ai Borboni.
Attivo è d’altra parte Giuseppe La Farina nel tenere i contatti fra i comitati rivoluzionari siciliani e il governo piemontese e a Palermo, in aprile 1860, si manifesta il tentativo insurrezionale di Francesco Riso e di Rosolino Pilo, presto sedato. Dopo lo sbarco dei Mille, l’11 maggio, la paura dell’insurrezione contadina stimola in senso unitario vari liberali, spinge molti borbonici a camuffarsi da liberali, e induce la borghesia a pronunziarsi per l’annessione ai Savoia. L’isola vive da tempo un’ insopportabile percezione di periferia e di sudditanza, non colmata dai tentativi del Filangieri di «dare un impulso alla definizione degli affari pendenti».
Il passaggio di Garibaldi in Calabria il 19 agosto e l’arrivo a Napoli il 7 settembre, hanno come riflesso l’abbandono del re da parte di tutti.
Escluso lo spauracchio murattista non molto consistente, la colpa dei padri che ricade sull’ultimo rampollo condannato aprioristicamente spinge una parte dei napoletani, come De Sanctis e Ricciardi, a riconoscersi intorno al re savoiardo, aprendo la strada al confronto-conflitto tra Vittorio Emanuele e Francesco II. Con l’intervento dei piemontesi, di Vittorio Emanuele, entrato a Napoli il 7 novembre, si precisano sistemi di valori che fungono da giustificazione ideologica per conflitti in realtà relativi al controllo delle risorse. Questa evoluzione-involuzione del percorso politico passa attraverso la dinamica del tradimento.
Gli uomini che coprivano i ruoli più importanti dello Stato borbonico, rivelatisi disertori, traditori, a loro dire rivoluzionari, con motivazioni spesso legate a persistenti condizioni di malessere, Francesco II, re da pochi mesi, non ha fatto a tempo a conoscerli che se li ritrova nemici. Le circostanze, la sua indecisione, hanno facilitato l’abbandono del «partito» borbonico, ma ha gran peso anche il carisma del suo antagonista, quel Giuseppe Garibaldi da lui così diverso, affascinante e trascinatore di folle.
L’elenco dei disertori/traditori, al cui spirito patriottico inneggia Cavour, è lungo e qualificato. Abbandona Francesco lo zio Luigi, comandante generale della marina, reazionario rapidamente convertitosi alle idee liberali dopo la caduta di Palermo. Il capitano conte Anguissola il 10 luglio 1860 consegna nel porto di Palermo la Veloce a Persano che ne fa dono a Garibaldi, anche se solo 41 fra i 144 ufficiali e membri dell’equipaggio abbandonano il loro re. Il generale Alessandro Nunziante, figlio di Vito, fucilatore di Murat, è una perdita gravissima, non solo per le sue doti di organizzatore e condottiero ma perché è uomo della corte, consigliere intimo del re. «Don Liborio», cioè Liborio Romano, ministro di Polizia del ministero Spinelli, creato a giugno e rimaneggiato a luglio, professore di diritto all’università, avvocato, già esule in Francia per le sue idee liberali, nei giorni del 6 e 7 settembre ha messo allo scoperto le manovre che sin dall’inizio aveva fatto con gli agenti cavouriani a Napoli, legittimando l’accusa di voltagabbana.
L’incubo del tradimento si riaffaccia quando il generale Pianel, già ministro della Guerra nel ministero Spinelli, si dimette all’inizio dell’assedio di Gaeta, il 12 novembre 1860, come fanno i generali Barbalonga e Colonna, militari capaci e fedeli, e il generale Salzano, adducendo motivi di salute.
4. Una resistenza qualificata. Gli aspetti positivi del conflitto e i giorni del riscatto
La resistenza a Capua e i centotré giorni di Gaeta sono il momento del riscatto, introducono la tipologia del conflitto che genera collaborazione e diviene processo. L’appoggio della moglie, la fedeltà dei soldati e di coloro che lo hanno seguito insegnano rapidamente a Francesco ad essere re. L’effetto psicologico della sua presenza fra le truppe, rafforzata dall’immagine di coppia dinastica, unita e solidale, rappresenta un valido sostituto di quella costruzione della regalità che era mancata nel processo educativo e che le circostanze consentono di impiantare con connotati carismatici.
La parte più prestigiosa della grande aristocrazia cattolica napoletana lo ha seguito in esilio, manifestazioni di fedeltà e di entusiasmo vengono dalle truppe ed è significativo lo scarso successo dell’appello di Garibaldi ai soldati borbonici. Gli sono vicini inoltre coloro che sono vincolati alle scelte dei diretti comandanti, come i marinai e gli equipaggi delle navi di cui si impadronisce Persano, che esprimono il dissenso con azioni di sabotaggio. Giunto Garibaldi a Napoli, decretata l’aggregazione della flotta borbonica a quella sabauda, i capitani «traditori» Vacca e Vitagliano rianno le loro navi ma vuote, in quanto gli equipaggi, scesi a terra, hanno raggiunto Francesco a Gaeta.
Questi attestati, numerosi, di attaccamento alla dinastia ma anche all’individuo, contribuiscono a rafforzare la decisione di conservare il trono, di lottare per mantenerlo, di riorganizzare l’esercito e lo Stato. Contro gli stereotipi unitari, Francesco rivela carattere nel rifiuto di ammettere la sconfitta morale e materiale. Egli non si ritiene perdente in una regolare campagna, ma tradito dai generali e dagli ultimi consiglieri, sottovalutando la portata della forza dell’ideologia nazionale. Di conseguenza lotta per l’eliminazione dei traditori e la ristrutturazione dell’esercito può consentire il riscatto, la ripresa.
Prevale in lui l’idea che «la ragione sia più importante della forza», segno di ingenuità e incompetenza che lo condizionano anche nell’azione a Gaeta, non supportata col gioco diplomatico, limitato all’invio di note di protesta alle potenze europee, soprattutto in rapporto all’intelligenza di Cavour e alla capacità di Costantino Nigra a Parigi.
Francesco non ha una articolata percezione del quadro europeo e su questo aspetto gli è anche difficile recuperare in rapporto alla intensità e spregiudicatezza diplomatica del governo di Torino e dei generali dell’esercito savoiardo. Ciononostante è re nella riconquista del regno: regalità che non si eredita, ma si conquista nel conflitto e si perfeziona con aderenza ad una onestà di fondo, nel rifiuto a varie offerte da parte inglese e francese di ritirarsi in cambio di una onorevole sistemazione.
All’invasione piemontese di Umbria e Marche, iniziata l’11 settembre 1860, oppone un esercito fedele e compatto, dislocato nel forte di Capua, nel fronte dietro il Volturno e in Abruzzo, guidato dal vecchio e troppo prudente G. Ritucci, poi sostituito con Salzano. Le tappe di questa resistenza sono la battaglia del Volturno del 1 ottobre, in cui i borbonici non fanno intervenire la riserva e alla fine battono in ritirata, l’ingresso delle truppe sarde in territorio napoletano il 15 ottobre, la vittoria di E. Cialdini il 20 ottobre contro regolari borbonici e bande popolari al passo del Macerone, presso Isernia, l’ incontro del 26 ottobre tra Vittorio Emanuele e Garibaldi a Taverna Catena, la resa di Capua il 2 novembre e il lungo assedio di Gaeta, terminato il 13 febbraio 1861, mentre il plebiscito intanto si era pronunziato a favore dell’unità.
Eventi che tuttavia servono a dare spessore anche al nemico, allo stratega Garibaldi, nella battaglia del Volturno; a segnalarne le contraddizioni, in quanto i piemontesi compiono stragi, come ad Isernia. Strano modo di godere dell’unanimità del voto popolare per un cambiamento di governo, quell’ essere costretti a fucilare i borghesi colpevoli di essere rimasti fedeli al loro re. Lo stesso plebiscito il 21 ottobre si svolge in un clima di intimidazione. Strano anche il conflitto tra savoiardi e napoletani, con i primi che a stento parlano l’Italiano ma agiscono in nome dell’Italia e i secondi che sono apostrofati come indegni di chiamarsi italiani da parte di De Sonnaz perché non vogliono arrendersi, a inizio novembre, sotto il fuoco delle navi di Persano. Fra quelle navi ve ne sono alcune che erano state l’orgoglio della flotta napoletana, segno di una costellazione conflittuale che comprende anche, all’ombra del comando piemontese, una guerra civile.
A Gaeta incidono le difficili condizioni di vita, con molti uomini e animali da alimentare, igiene precaria, insufficienza del vettovagliamento e mancanza di danaro. Francesco, prolungando di un mese e mezzo la resistenza, costruisce un’idea di regalità esaltante attraverso il contatto quotidiano, il mangiare con i soldati, lo sfidare con loro la morte. Il 24 novembre distribuisce i «nastri», sotto una pioggia battente, ha l’aria preoccupata, mostra la maturità acquisita dalle circostanze. Il 26 emana un ordine del giorno per le truppe che si trovano nello Stato pontificio, esprime loro l’affetto rafforzato dall’essere stati insieme nelle recenti traversie, enuncia come provvisorio lo scioglimento dei corpi, ma fa intravedere un invito ad unirsi alle forze della reazione e a tenersi pronti appena fosse necessario riprendere le armi. L’uomo che aveva sempre rifiutato la prospettiva della guerriglia di stampo brigantesco, comincia a convertirsi a diverse modalità di lotta.
5. La sconfitta bellica e le nuove tipologie del conflitto.
Gaeta capitola il 13 febbraio1861, Civitella del Tronto e Messina nel marzo. L’esilio a Roma fino al 1870, poi a Parigi, i tentativi di recuperare il regno, anche collegandosi ad una resistenza armata all’interno, cedono ben presto alla consapevolezza, più in Francesco che in Maria Sofia, di un destino politico ormai irreversibile. Si aggiungono le delusioni di un vivere privo di adeguati mezzi economici, le maldicenze sulla regina, la morte dell’unica figlia, neonata di tre mesi, all’inizio del 1870. Inutili sono le denunzie di illegalità dello Stato italiano fatte presso le corti europee e i tentativi della diplomazia napoletana di bloccare ogni riconoscimento internazionale. Inutili le spedizioni dei legittimisti stranieri, tipo J. Borjes e R. Tristany, che sfruttano la guerriglia, inutili i piani di riscossa, le prove di solidarietà dei legittimisti europei. Sono manifestazioni di un conflitto che appare ormai residuale, poi accantonato da Francesco anche nel voler rinunciare all’ufficialità regale a favore del più anonimo titolo di duca di Castro.
Si aprono in realtà gli spazi per altre modalità di lotta, che non riguardano solo il sovrano in esilio e i suoi sostenitori, borbonici nostalgici e convinti, consapevoli e rancorosi per la dolorosa perdita di una patria, ma soprattutto i «traditori» meridionali, sostenitori dei Savoia, che dovranno su tempi lunghi e con difficoltà difendere il loro protagonismo nel contesto italiano.
(Le immagini dall’alto in basso: La bandiera dei borboni, Francesco II, Maria Sofia, bandiera dei savoia, Napoleone III, L’arrivo di Garibaldi a Napoli).
Renata De Lorenzo
(Docente di storia contemporanea – Università Federico II di Napoli)